LA LOGICA PROTEZIONISTADEL COLLABORAZIONISMO SINDACALE
Non vogliamo irridere agli ideali di questo secolo, né essere scettici, né opporre un brutale materialismo a tante squisitezze di fede: non vogliamo disconoscere che dalla pratica sindacale non si ricevano iniziazioni morali; infine, che fra i compiti della filosofia non vi sia quello di conciliare gli uomini col loro tempo, ciò che vuol dire il più delle volte aiutarli a portare la loro croce. Non possiamo tacere tuttavia, che le innovazioni giuridiche di questi quattro anni di collaborazionismo concordano, oltre che colle idee e i sentimenti, con gli interessi delle classi ascendenti, e sovrattutto dei loro eletti, i quali non è da credere che abbiano fatto tutto per gli altri questa festa. Per procedere ordinatamente conviene tener distinte le due categorie di dirigenti emerse parallelamente dalla cernita delle classi medie e dalla cernita sindacale: costituite da un maggior numero di "politici" e da un minor numero di "tecnici". Questa espressione "tecnici" della quale si fa uso così indiscreto è in verità alquanto eufemistica. La tecnica di questi nuovi dirigenti non è diversa da quella dei gruppi capitalistici che essi mirano a sostituire, cioè non è che l'arte bene appresa di sfruttare lo Stato. Perciò non è da discutere la convenienza per elementi siffatti di un sistema protezionista, sia in un senso generale che ristretto. In termine generale considerato la libertà economica nei suoi inevitabili rapporti con l'ordinamento giuridico dello Stato, non abbiamo bisogno di dare in particolare la dimostrazione dell'asserto; essa è implicita nella prova fornita che il Governo collaborazionista non può essere che illiberale. Ma, in senso stretto, noi siamo abituati a separare dal problema generale della libertà economica, una serie di problemi particolari ben definiti della nostra economia nazionale, e precisamente a fare un problema a sé di quella negazione o affermazione di libertà economica che risulta dal sistema doganale positivamente adottato. Abbiamo in Italia manifestazioni antiprotezioniste, nelle quali è facile vedere associati liberisti puri con altri che non intendono, o palesemente rifiutano, il principio di libertà in altre applicazioni: anzi, noi non abbiamo mai avuto, in Italia, un liberismo pratico e militante, che in questi termini limitati. Non è perciò a stupire che ab antiquo si sia esercitato da questi liberisti uno sforzo verso il partito socialista per indurlo a soccorrere la lotta antiprotezionista. La storia contemporanea ci dice che questi tentativi non hanno mai approdato, all'infuori di qualche adesione puramente individuale, e in ogni modo sempre inspirate da esigenze transitorie di lotta contro particolari gruppi padronali. I casi più numerosi, rivelanti lo spirito reale delle organizzazioni socialistiche, ci rivelano invece mentalità e sentimento protezionistici. Il problema della libertà economica riguardo al sistema doganale, si definisce in primo luogo con un dato sistema di idee riflettenti la politica estera. Confessiamo che questo punto è particolarmente oscuro, perché le idee della democrazia sociale sulla politica estera nessuno le conosce. Un chiarimento di queste idee nella mente della democrazia potrebbe indubbiamente influire sulla politica interna ed economica, ma è più facile prevedere che questa agisca su quelle. Per esempio tutta l'organizzazione cooperativistica può considerarsi in massa come un elemento influente a favore della protezione, per la ragione almeno che nessuna di queste istituzioni cooperative ha manifestato la volontà di vivere in regime di concorrenza nazionale e internazionale, e nessuna avrebbe positivamente questa capacità, anche se ideologicamente o sentimentalmente potessero, in esse, prosperare ispirazioni liberali. E se in una fase estrema (certamente irraggiungibile) della rivoluzione in corso le cooperative o sindacati di produttori, come si dice con più bella parola, si sostituissero completamente alle imprese private, erediterebbero certamente, col capitale, i vizi della classe spodestata. Finalmente, in un regime di collaborazione, il protezionismo si presenta nell'interesse delle parti collaboranti e contraenti, come una transazione felicissima fra il principio delle statizzazioni perseguito dagli uni, e il desiderio di conservare le proprie rendite che non può mancare negli altri. La protezione assicura nei primi la sicurezza e le comodità di un impiego pubblico, annulla per i secondi i rischi della impresa: anzi scambia fra le due parti i medesimi vantaggi. Perciò è forza credere che il Parlamento del Lavoro, salva la sua capacità avvenire a rifare il mondo, costituisca in primo luogo fra operai e padroni il pegno scambievole e lo strumento comune di una politica di protezione economica. Veniamo ora ai "politici". Per le speciali qualità di questa cernita e per il suo prodotto numerico, essa trova nello sviluppo dei pubblici uffici la sua prima e principale soddisfazione, perciò le occorre: a) mantenere gli impieghi esistenti; b) crearne dei nuovi; c) ridurre a impieghi pubblici le cariche rappresentative onorarie. Sui primi due provvedimenti non occorre far rilievi, mentre il terzo merita speciale attenzione. Non abbiamo appreso per nulla dal Malon che il Parlamento economico è più importante del Parlamento politico ed anche più numeroso. E vi sono progettisti che fanno salire questi parlamenti professionali a un numero superiore alla diecina. Non vogliamo dar torto a coloro che attribuiscono gran prestigi ai decentramenti e alle autonomie regionali e locali, ed anche proprio il compito di risolvere il problema intimo della burocrazia: "svincolare progressivamente l'impiegato - dice Augusto Monti - da quella astrazione che è per lui lo Stato, per accostarlo a quella realtà concreta che è il Comune nella Regione". E sarà, ma intanto moltiplicare le assemblee legislative per le Regioni, moltiplicare di nuovo ciascuno per il numero creduto utile di parlamenti paritetici, soddisfa miracolosamente le esigenze di una classe infinitamente numerosa di politicanti i quali, per la specialità del loro addestramento, non saprebbero far altro che sedere in una assemblea. Ed è noto che, - secondo un principio che trova ormai poche opposizioni - le cariche onorarie debbono essere retribuite. Il motivo è anche qui inizialmente "liberale": dare ai non abbienti la possibilità di partecipare alla pubblica amministrazione. Sembra che questo principio debba essere, di nuovo, la "colla della democrazia" come lo era in Atene, secondo l'espressione di Demade. Se noi dovessimo farci suggerire dagli antichi, non avremmo che da pronunciare la condanna del sistema. Ma si dica pure che il sistema era inseparabile in Atene dalle forme politiche, e che l'arte, la poesia, il teatro attico erano a loro volta in carne una con la democrazia. Mettiamo pure nello stesso conto il tribolo e il Partenone. Uguali riferimenti sono indimostrabili nelle deinocrazie moderne. Ettore Ciccotti, il quale pure, affrontando animosamente l'ombra di Aristofane, indulge, con serenità di storico, alla retribuzione delle funzioni pubbliche, nella Grecia antica ha dato un severo giudizio, in base all'esperienza della indennità parlamentare, sopra la classe dei professionisti della politica formatasi in conseguenza. Ora in tutti gli istituti rappresentativi di classe esistenti e in progetto, il principio della retribuzione è ammesso come cosa pacifica. Un tentativo di estendere il sistema alle amministrazioni comunali e provinciali è stato fatto con un progetto d'iniziativa parlamentare approvato dalla Camera il 9 Agosto 1920. Si trattava di retribuire con medaglie di presenza, o con indennità mensili, sotto certe restrizioni non solo i membri dei corpi elettivi comunali e provinciali, ma anche tutti i Membri delle Commissioni, giunte ed enti pubblici nominati dagli enti locali, delle fondazioni e istituzioni di pubblica assistenza. L'ufficio centrale del Senato, con relazione del 3 Febbraio 1921 espresse avviso contrario al progetto, non per opposizione ai principi informatori, ma per ragioni d'indole finanziaria; rinviandone l'applicazione a quando fosse approvata la riforma dei tributi locali. È da credere, tuttavia, che, avverandosi o no questa condizione, il sistema non trovi ostacoli presso un governo di collaborazione. Ora, considerando che il principio della retribuzione è pacifico per tutte le magistrature di carattere sindacale, e che il sistema dell'elezione gerarchica in queste prevalente, assicura agli eletti maggiormente la stabilità della carica, abbiamo che la condizione economica dei "politici" si avvicina sensibilmente a quella dei "tecnici"; cioè che gli uni e gli altri si avviano a costituire una classe sola, numericamente formidabile di magistrati e politicanti retribuiti, unita a quella degli impiegati delle aziende pubbliche e semi-pubbliche, tutti a un modo clienti dell'Erario. Con ciò non si vuol dire che il Socialismo o anche la sua presente incarnazione politico-sindacale, debba proprio finire in questo mediocre festino. Tali sono le manifestazioni sindacaliste di un momento dello spirito umano dove il sentimento individuale, per oscure cause, si è affievolito, come sentimento di sé e di relazione; ma il sindacalismo non si esaurisce in questo momento, cioè nella fase collaborazionista, poiché, anche lì dove ci sia dato scorgere la resurrezione di processi liberali, la nostra previsione non può sopprimerlo. E là appunto troverà i suoi limiti e nuovi modi e composizioni: anzi, già trova: poiché non vi è fatto concepibile come futuro che sia realmente del tutta staccato dal presente, se proprio non sia la vera chimera logica. Forse il sindacalismo, rinnovando uno dei duelli più grandiosi che la storia conosca, ritenterà all'infinito come la Chiesa di invadere lo Stato, di essere tutto lo Stato, ... ma lungi fia dal becco l'erba. UBALDO FORMENTINI.
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