NOTE DI POLITICA INTERNA

Diplomazia e Umorismo

    Risale all'insurrezione modenese del '31 l'ammonimento realistico del Pecchio, che da Londra, in contatto con una cultura e una praxis europea, opponeva al provincialismo dei Menotti, dei Pepe, dei San Marzano (emuli dell'ingenuità di Santarosa) un'esperienza politica e diplomatica concreta: son "passati i tempi dei Transibuli e dei Pelopida".

    Ma i socialisti nostrani in fatto di tattica non han superato le sette, non che essere allievi di Carlo Marx. L'Alleanza del Lavoro é una carboneria; i collaborazionisti (Il Lavoro di Genova) non sdegnano l'insurrezione legalitaria: sarebbero disposti come Ciro Menotti e Santorre Santarosa a farsi giocare da un Francesco IV o da un Principe di Carignano, mediatore Bonomi al posto di Misley. Hanno pronto il loro Mamiani per la futura assemblea dei rappresentanti delle provincie unite nella persona di A. Baratono! Il partito socialista è oggi più atomisticamente e, astrattamente scisso dai federalisti italiani nel'46: ma è assai più vicino alla sua Novara perché non ha saputo fare le 5 giornate ed è privo non solo di diplomatici ma anche di pensatori. Bisogna risalire addirittura alla Grecia del 1815, con i mandarini sindacali al posto dei Fanaristi ma senza i Maurocordato e senza i Rhigas (o forse il loro Rhigas sarebbe il poeta D'Aragona?).

    Il curioso si è che i collaborazionisti italiani pretendono di fare della diplomazia. Assistiamo allo svolgersi di una lotta politica reale con forze, interessi, tendenze precise: il più elementare discernimento dovrebbe suggerire ai combattenti l'intransigenza non formale ma intima; che possa dare una consistenza decisa al principio nuovo che sta per entrare nella storia nazionale. Ciò può anche non escludere le manovre parlamentari purché queste non diventino fine a sé stesse. Ma sono proprio i socialisti che diventano parlamentaristi e dimenticano le loro forze reali: codesti ripiegamenti hanno il torto di non essere neanche arrivistici.

    Sta bene: non importa che la logica sia coi comunisti come era con Mazzini: si possono rovesciare le condizioni obbiettive, si può imporre una logica nuova: specie in Italia dove se le avanguardie del Nord suggeriscono una via chiara c'è pure l'eterna antitesi del Sud spagnuolo; specie nelle condizioni presenti in cui i comunisti diventano sempre più un'incognita anche se hanno saputo valutare realisticamente certe situazioni, incapaci quali sono e furono di rappresentare veramente l'avanguardia rivoluzionaria del proletariato.





    Ma bisogna per accingersi a ciò sentire in sè l'animo di Cavour: e anche chi conosce bene la povertà spirituale di Turati, Modigliani, Treves, Baldesi, dovrebbe restar perplesso di fronte a un tale tentativo.

    Invece i collaborazionisti impostano il problema di governo rovesciando Facta sulla questione sentimentale Miglioli. Dunque degno teorico del loro disegno di governo sarebbe proprio Mussolini col suo Stato e antistato! Stroncando lo sciopero del Piemonte e della Lombardia, si spogliano della sola arma di cui disponevano. Si lasciano giocare dai popolari che finiscono per accettare l'inclusione della destra. Turati diventa guardaportone del traditore I. Bonomi e mettendosi alla sua stregua liquida per sempre la stessa apparenza di una sua originalità. La stessa offerta di collaborazione venendo quando tutto è compromesso significa solo più un'offerta che nessuno vuol accettare. Le ultime ritrosie di verginelle contrite fanno perdere loro anche la possibilità di ricevere un'elemosina. Si sfogano con uno sciopero che deve essere l'ultima manovra, ma si affrettano a svalutarlo definendolo (Turati) legalitario. Del resto le carte sono già scoperte prima dell'inizio per un'imprudenza del Lavoro.

    Come si presentano al congresso liquidati a priori mentre potevano ottenere una vittoria di misura: la loro partecipazione al governo, una volta che il partito li espelle, acquista lo stesso significato del destreggiarsi sospiroso di Bevione o di Colonna di Cesarò. Serrati coi suoi inesauribili fallimenti raggiunge in confronto a loro la statura diplomatica di Metternich. Più naturale che i giornalisti e il popolino considerino con la maggiore curiosità, in tutto ciò, le dame rosse signore Donati e Modigliani che si fanno incontro a Turati reduce dal Quirinale. Questo è il solo fatto nuovo che dalla tresca un colore più ameno i socialisti non hanno il senso dell'umorismo.


p.g.

La dittatura per "referendum"

    Ognuno crede di possedere la vera ricetta per guarire l'Italia dai suoi mali (la formula è nota: "ristabilire l'autorità dello Stato"). Una delle più curiose è quella messa innanzi, durante quest'ultima crisi ministeriale, da un uomo che per altro è ritenuto persona seria; cioè dall'on. Ettore Ciccotti.

    Se il sistema parlamentare funziona così male e si mostra così incapace di portare rimedio ai mali - scriveva il Ciccotti nel Giornale d'Italia (29 luglio) - è anche vero che l'Italia non sembra fatta per un colpo di Stato. Pure, a mali straordinari occorrono straordinari rimedi. Elezioni generali? Poco o nulla graverebbero.





    Ma, se la Camera è incapace di costituire ministeri politicamente vitali e tecnicamente capaci, non sarebbe il caso di far rivivere, come un rimedio, la prerogativa reale di scegliere i ministri e di poterli conservare in carica?

    L'on. Ciccotti vorrebbe, insomma, una specie di dittatura. Ma una dittatura... democratica (che diamine? siamo nel secolo XX), circondata di garanzie costituzionali, dosata, calibrata, liberamente rogata davanti al notaio, d'accordo tra governanti e governati ! Questa riforma sarebbe da fare nientemeno che sulla base di un referendum. Dice infatti testualmente il Ciccotti: "Per avvalorare la cosa (1) bisognerebbe... rendere l'istituzione temporanea ed ottenere per essa il previo consenso della nazione. Le dittature degenerano solo un protrarsi a lungo... Mi lusingo che un referendum, se l'Italia non vuol perdere ogni ragione d'essere, sarebbe favorevole".

    La trovata di una dittatura a termine fisso è veramente deliziosa, e non poteva venire in mente che ad un professore di storia. In un paese sfrenatamente individualista come la nostra bella Italia, dove ciascuno vuol sempre dire la sua su tutto e su tutti, una dittatura di vera forza, instaurata senza il permesso di nessuno, ma imposta, sarà certo possibile, quando a Dio piaccia di far balzare sulla scena della storia un nuovo Napoleone. Ma la dittatura per volontà della Nazione, con scadenza fissa, è una dittatura da teatro dei piccoli.

    E, altro che sopprimere la subordinazione della composizione del Governo alle contingenze parlamentari, altro che sospendere per un anno o più le ciarle e risse parlamentari! come si ripromette il Ciccotti col suo sistema. Le masse e le ciarle non sarebbero mai tanto fitte e velenose, essendo più che mai alta la posta in gioco in questa annua lotteria a premio. E il Capo dello Stato non potrebbe non tener conto del giudizio fatto dal Paese sul Governo durante l'anno di esercizio del potere, nel formare il nuovo Governo per l'anno successivo, senza tornare al regime assoluto, o correre il rischio di farsi cacciare.

    E sapete perché tutto questo scompiglio che il Ciccotti vorrebbe gettare nella nostra vita politica? Per questo bel risultato: "Così, per un anno, il sovrano diventerebbe, più o meno, ciò che è il Presidente degli Stati Uniti d'America, con le relative attribuzioni e la conseguente autorità" (Wilson insegni).

    Ah, non per questo...!


L. Emery.