NOTE DI POLITICA INTERNA
Fascismo e rivoluzioneÈ banale l'affermazione che il fatto vittoria risulta realmente di due fatti: il fatto bruto, realistico della disorganizzazione o distruzione del nemico, e il fatto ideale della coscienza di tale superiorità o senso della vittoria. In Italia si è avuto, come conclusione della guerra, il primo fatto; invece è mancato, quasi del tutto, il secondo. È mancato il senso della vittoria nel fante, per il quale i fini della guerra non erano Trento e Trieste e Zara, ma erano la distruzione del militarismo, la pace perpetua e i due iugeri di terreno; è mancato il senso della vittoria nei ceti imbevuti di nazionalismo, per i quali i fini della guerra erano la Georgia, l'Asia Minore, la Somalia Inglese, la Dalmazia, o almeno, il patto di Londra più Fiume; è mancato nelle zone grigie dell'opinione pubblica, per le quali la nostra guerra sì è fermata a Caporetto (Stampa, Avanti) e l''impero Austro-Ungarico è caduto per intime debolezze (discorso Giolitti a Dronero). Tre anni di guerra, mezzo milione di morti, sei miliardi di deficit senza il senso della vittoria vuol dire, in un paese come il nostro, senso della sconfitta, vuol dire sconfitta. È banale ancora che prima conseguenza della sconfitta, in uno stato nazionale, è la rivoluzione sotto specie di mutamento di regime. Ed è banale altresì che conseguenza di tali rivoluzioni postbelliche è la controrivoluzione e la reazione. Anche questa volta la legge non si é smentita. Gli stati sconfitti hanno avuto tutti la loro rivoluzione, in tutti alla rivoluzione è successa, o si è tentata, la controrivoluzione. Lo stesso è accaduto e sta accadendo nei paesi o negli stati in cui si è avuto se non la sconfitta vera e propria, almeno il fatto del senso della sconfitta: esempi, l'Irlanda e, purtroppo, l'Italia. Qui da noi la serie di tentativi rivoluzionari che vanno dai moti pel caroviveri del Luglio '19 alla occupazione delle fabbriche del Settembre '20 rappresentano come intenzione, se non come effetto, quello che fu in Francia la Comune dopo il '70, la dittatura di Bela Kun in Ungheria, la rivoluzione del novembre in Germania, cioè il classico tentativo di sovvertimento del regime, conseguente alle guerre sfortunate. Come, dall'altra parte, il fascismo rappresenta da noi quello che fu Versailles in Francia, il terrore bianco in Ungheria, le organizzazioni Konsul e simili in Germania, cioè la classica reazione alla rivoluzione o ai tentativi rivoluzionari post-bellici. Se da noi, dopo la guerra, più che moti rivoluzionari si ebbero dei tumulti sediziosi, con scarso effetto immediato, una delle ragioni sta anche nel fatto che, insomma, la nostra guerra non si era chiusa con la sconfitta vera e propria, e che il senso della sconfitta era, in parte, creazione artificiosa di partiti e di persone polemizzanti, destinata a svanire davanti al chiarirsi della coscienza della vittoria. Però in Italia chi vuol essere giudice imparziale non può non notare, in questo gioco di rivoluzione e di controrivoluzione, una sproporzione enorme tra l'entità dei movimenti rivoluzionari e l'imponenza e la persistenza della reazione contro-rivoluzionaria, la quale, come altre volte s'è detto, si è affermata più vasta e gagliarda proprio quando la marea rossa era in deflusso e pare si vada esasperando a mano a mano che tutto quanto sapeva di rivoluzionario, dalla parte opposta, rimpicciolisce e scompare. Il quale fenomeno curiosissimo e importantissimo ci trae a un altro genere di considerazioni circa il fascismo. Finora abbiamo messo del fascismo in evidenza solamente il lato anti-rivoluzionario, il lato Konsul; ma, come altra volta si è detto, errerebbe chi credesse che in questa attività si esaurisse tutta la forza del fascismo italiano. Prettamente reazionario e anti-rivoluzionario è solamente uno dei fascismi, quello che si è convenuto di chiamarlo agrario-industriale, a cui si possono aggiungere alcuni elementi d'avanguardia del nazionalismo e del liberalismo italiano; ma l'altro fascismo, quello della prima ora, quello che abbiamo chiamato interventista, quello se è antisocialista non è niente affatto antirivoluzionario, ché anzi è prettamente e sinceramente rivoluzionario, assai più rivoluzionario certo dei socialisti di cui brucia i giornali e le cooperative. Questa corrente di fascismo rivoluzionaria per via si è ingrossata di elementi sindacalisti e anarchico-comunisti, che abbandonarono le antiche bandiere dopo l'insuccesso dei moti rivoluzionari di marca socialista, e accorsero al fascismo attirati a lui dalla sua coreografia rivoluzionaria. In questi elementi rivoluzionari fermenta ancora quel composito senso della sconfitta che io ho descritto sopra come creatore di rivoluzioni post-belliche, ed è questo lievito, secondo me, quello che ci spiega il persistere e l'ingigantirsi apparentemente gratuito, dell'azione extra-legalitaria del fascismo. Il torrente va; la spedizione punitiva è ormai un dimesso ferravecchio, adesso è di moda l'occupazione: sempre più difficile: Bologna, Cremona, Novara, Tolentino, Ravenna, Milano, Parma, Ancona. Il torrente va: dove? contro chi? Contro il socialismo debellato? contro il superstite comunismo? Gli agrari, gli industriali, gli esercenti dicono e credono che sì; i liberali e i nazionalisti incominciano ad avere qualche sospetto e, scortandolo, vigilano il torbido alleato; ma Cesarino Rossi entra in Palazzo Marino lanciando il grido di "viva la guerra rivoluzionaria" eco delle giornate di maggio e della propaganda di guerra; i fascisti del Lazio, al finire dello sciopero, affluiscono a Roma per impedire "alla autorità centrale di distogliere parte delle truppe concentrate a Roma per impiegarle ove il fascismo si afferma nel contrattacco"; Gabriele D'Annunzio si riconcilia coi fascisti in quella Milano in cui, non molto tempo addietro, pronunciò la frase: "A Roma non andrò che per abolire le leggi infauste"! Nulla, apparentemente, manca ora al fascismo italiano per fare la rivoluzione, per essere la rivoluzione: denari, armi, numero, credito, arroganza, tutto gli soccorre. Risolverà il fascismo il dubbio proposto da Mussolini alla Camera, dirà se è sì o no un partito insurrezionale? Anzi, i fatti sono corsi avanti da un pezzo; senza che altri lo dica, il fascismo è ormai da un pezzo un movimento insurrezionale. Ma la méta quale sarà? Per me, io credo che anche della rivoluzione fascista sarà quello che fu della rivoluzione socialista: cioè niente altro che un po' di baccano. E ciò per le stesse ragioni dell'altra volta. Prima di tutto per la mancanza di idee chiare il fascismo, in fatto di idee, è più a piedi del social-comunismo, e poi specialmente per l'interno dissidio che lo travaglia. Anche nel fascismo, come nel social-comunismo, il lievito, il fervore è dato dagli elementi rivoluzionari, ma anche nel fascismo, come già nel social-comunismo, accanto al lievito c'è la malva, ci sono i pompieri; e anche nel fascismo i malvoni sono quelli che hanno il potere effettivo, cioè le palanche e il credito e la serietà e l'appoggio di organi governativi. E anche stavolta succederà lo stesso: quando la rivoluzione fascista sembrerà imminente, quando i capoluoghi di provincia saranno occupati, quando il governo dirà, "insomma decidetevi, le chiavi, se le volete, eccole qui, allora i Buozzi e i D'Aragona del fascismo escogiteranno una qualche formula tipo quella del controllo, o domanderanno le elezioni, o... andranno al governo insieme con Meda e Modigliani. E così il fascismo, come già il sindacalismo, come poi il popolarismo, come fra breve il socialismo, diventerà un altro puntello di questa burocrazia pseudo-parlamentare che è lo Stato Italiano. E di buono, nel senso liberale, non avrà lasciato nulla dietro di sé questa triennale ventata anarchico-fascista in Italia? Forse una cosa: che lo Stato liberale, negato nelle parole e nei fatti, prima dalle moltitudini pseudo-socialiste, poi dalle masse fasciste, invocato a sempre più grande voce dalle turbe intermedie, cesserà di essere un concetto filosofico, famigliare a pochi solitari studiosi, per diventare un'aspirazione sempre più chiara e sempre più precisa nella mente e nel volere di sempre più numerosi Italiani. Il che è forse la più grande e più vera rivoluzione che in Italia - per ora - si possa vagheggiare. 6 agosto 1922 AUGUSTO MONTI.
Genova e il Fascismo- Ecco, anche Genova ha avuto le sue giornate fasciste! - pensano dietro ogni persiana calata a proteggerli dagli ardori canicolari i piccoli borghesi che riversano la loro accidia nei piccoli giudizi politici dalle varie intonazioni e intanto lo strillone getta per la via il suo grido: La Rivolta ideale, giornale fascista! La conquista di Palazzo San Giorgio! Sulle cantonate, manifestini e disegni avvertono che ornai la Superba è "liberata" e, che si ritorna ai tempi dei sacri e austeri magistrati del mare... Queste giornate passeranno dunque alla storia... genovese come le giornate di San Giorgio, le giornate di Genova fascista. E anche, forse, di Genova comunista. Perché qui, veramente, il fascismo non era ancor arrivato. Le poche dimostrazioni in Piazza Deferrari o contro e "Il Lavoro" potevano passare agli occhi della media cittadinanza (che ormai ha strappato alla folla meneghina la gloria del primo posto in quel tale partito "del paese che lavora e non si occupa di politica") come gesta di sbarazzini tipo "goliardico". La reazione a Sarzana, a Sestri Ponente, in Monferrato? Cose di cui si poteva parlare tranquillamente, al caffè: fatti lontani e, perché lontani; innocenti. Scoppia lo sciopero, con due giorni di preavviso: felice sorte procurata a Genova da un noto errore della Camera del Lavoro che trasmise l'ordine al giornale sindacale due giorni prima. Tutti fanno le loro provviste, e aspettano i fascisti con curiosità. Sicuro, curiosità. Una curiosità tranquilla che aveva lasciato fallire il ballon d'essai lanciato qualche settimana prima da qualche bello spirito, che cioè diecimila fascisti si apprestassero ad occupare Genova: una curiosità che popolò subito i portici di via XX Settembre di stazionari curiosi, intenti a contemplare i fascisti di guardia alla sede del Fascio o affacciati alle finestre e ai balconi del vicino Hotel Moderno, dove alloggiarono le prime e poche squadre venute di rinforzo; una curiosità che prendeva quasi gli stessi operai, affollati nel prossimo Ponticello con l'aria di aspettare, pronti, gli eventi. L'elemento operaio dava segni, nei primi due giorni, di una grande risolutezza di sciopero ad oltranza: e lo sciopero ci fu e si vedevano numerosi i lavoratori in vicinanza delle sedi e delle opere sindacali. Ma al terzo giorno questa risolutezza era già notevolmente svanita, ed a sciopero finito, tra il venerdì e la domenica, quando più ce n'era bisogno di fronte all'azione fascista che si ramificava con i suoi "Comandi" e le sue squadre per tutta la Riviera di Ponente fino a Savona e imperversava a Genova con cinque o seicento fascisti di Carrara e Sarzana, mancò del tutto. Le organizzazioni assistettero, impotenti, agli attacchi e alle occupazioni, alla proibizione di vendita dell'organo socialista e dei giornali di parte neutra, alla dimostrazione in San Giorgio e via dicendo. Il servizio di polizia, debolissimo (eccezione fatta per la difesa del Fascio, si capisce), permetteva ancor Domenica mattina, quando già vigevano i pieni poteri dell'Autorità Militare, di incendiare il deposito carta del Lavoro. E l'acquiescenza della cittadinanza fu ancora più supina e timorosa: non fu plauso che facesse rumore (nei primi giorni, gli squadristi dovevano imporre ai passanti di levarsi il cappello davanti ai loro compagni che sfilavano in colonna), ma piuttosto tinto di una lieve ironia. Poi il fascismo, con il pronunciamento a San Giorgio, si creò i meriti e si procurò gli applausi: e abbiamo visto un grazioso ordine del giorno (contro cui qualche penna fascista ha avuto la sincerità di protestare bollandolo di coccodrillesco) di tutti i pezzi grossi, deputati liberali e (in parte) popolari compresi, i quali quindici giorni prima difendevano a spada tratta il Consorzio Autonomo del Porto e il suo Presidente contro le accuse torinesi: e ora, caduto l'idolo, battono coraggiosamente le mani. Così, con loro, tutto il ceto commerciale portuario, d'ogni dimensione. Unica ribellione quella dei comunisti. Occupata ben tosto dalla prudente autorità la sede degli Arditi d'Italia, che a Genova avevano date non dubbie prove di simpatie per la causa socialista (e ciò significava la dispersione temporanea degli associati), non mancarono però i primi segni di violento odio antifascista. Dopo un conflitto a Porto dei Vacca, presso il Porto, e tre sere di fucileria sparsa con sbarramenti contro le autoblindate (ma il maggior chiasso era però quello delle salve fasciste), i sovversivi si asserragliarono nell'isolato di Morcento, un triangolo di vicoli e vecchi casamenti tenebrosi, proprio a ridosso del Quartiere Generale fascista di via XX Settembre, che vide di notte gli squadristi accampar sulla paglia sotto i portici. Di là ci vollero tre giorni a snidarli, con una fatica degna di Sisifo, perché dopo il rastrellamento diurno riprendevano di notte gli spari sovversivi, senza che la truppa regolare e irregolare osasse prima di giorno addentrarsi in quella specie di forte Chabrol. E certo il fenomeno più interessante è quello di un tale atteggiamento passivo della grande maggioranza delle masse operaie; atteggiamento le cui radici trascendono il semplice fatto delle tardive preoccupazioni tolstoiane dell'Alleanza del Lavoro. Io non starò a discutere se lo sciopero sia stato o no un errore di tattica; ma certo fu errore bandirlo senza aver predisposto un'energica azione di difesa, che arrestasse una buona volta il dannoso infiltrarsi del timor panico e della depressione morale. Domani, le masse possono scattare al di fuori di ogni disciplina, o anche disertare: e chi dirige assisterà impotente, senza alcun freno a sua disposizione. Ma qui, a Genova, dicevo, le radici del fenomeno sono molto più complesse. E sono da ricercarsi, in parte, in quella speciale psicologia democratico-riformista che da tempo si era impossessata dell'operaio ligure e lo aveva abituato a venerare l'onnipotenza di un pacifico incrociar delle braccia. Questo vale sopratutto per organizzazioni privilegiate e potenti, dai portuari ai metallurgici ai tranvieri, le quali ci diedero veramente uno sciopero in piena regola, ma si trovarono poi affatto disorientate di fronte un'azione dieci o venti volte meno forte di quelle scatenate dal Fascismo in Val di Po. È ormai troppo evidente che l'onnipotenza, il monopolio, la prosperità sono l'atrofia dei sindacati e il soporifero più potente delle forze proletarie. Le quali pensano volentieri in tali condizioni a una rivoluzione realisticamente moderata, ma non hanno più l'entrain necessario per recarla a compimento. L'occupazione delle fabbriche insegni. Si aggiunga che alcune di queste organizzazioni sentivano da tempo tremare il terreno sotto i piedi. Questo è il caso della Lega Tramvieri, che dovette subire, previe bastonature, un giorno di riposo forzato quando si ripresentò al lavoro dopo il qual giorno ogni suo componente dovette firmare un atto individuale di ripudio e sconfessione dei capilega e di simpatia pel Fascio. Ma era questione di vita o di morte, di cibo o di fame: perché l'Azienda è passiva, o almeno non dà il rendimento minimo necessario: e siccome non può ritirarsi per i contratti che ha col Comune, non le parrebbe vero o di abbandonare l'esercizio e lasciare i dipendenti alla mercè di nuovi padroni, o di licenziarli in massa per poter compiere una radicale riduzione delle paghe. Voilà donc dove s'annidano le fortune del fascismo! In Porto l'eventuale reazione degli inscritti all'Ente Cooperativo unico è stata neutralizzata dall'atteggiamento ad essi ostile degli avventizi: e non tanto di quelli inscritti alle cooperative dei socialisti ufficiali, che avevano anch'essi lavoro accanto alle primeggianti cooperative degli "autonomi" (sebbene a condizioni molto meno vantaggiose), ma degli avventizi in senso proprio, che erano rimasti subito esclusi, all'incombere della crisi economica di questi anni. Nella speranza di avere anch'essi lavoro, che il Fascio promette a tutti con baldanzosa suffisance, essi hanno creato una piccola ed effimera aura di favor popolare all'azione fascista, subito dopo il pronunciamento a Palazzo San Giorgio. É indiscutibile che il Fascio cerca qui di armare il popolo minuto contro il popolo grasso, e di costituirsi una benemerenza demagogica che lo aiuti a farsi strada: rinnovando, in proporzioni ridotte, le sue benemerenze a favore dei disoccupati del Ferrarese e del Polesine. È una tattica che l'amico Savelli chiamerà, forse, "rigorosa": come ha chiamato rigorosa la strategia delle occupazioni fasciste. Ma non so che cosa sapranno fare i Fasci, fra qualche tempo, di queste masse e dove se ne andrà il loro rigore metodico. E, i dirigenti? Ecco, i dirigenti genovesi son stati forse i più calunniati di tutti, come colpevoli di assenteismo. Il quale in realtà non c'è stato, e nei pochi casi verificatisi (molto meno numerosi che altrove) gli assenti furono proprio alcuni dei più negativi massimalisti. Quelli che contavano davvero non lasciarono la città: ma dettero l'impressione di essere disorientati ancor più che le masse. Cosa naturale, al postutto: perché questi uomini, che avevano resistito due anni fa all'estremo sovversismo con sufficiente fermezza e in questa fermezza di propositi e di interessi trovato il segreto di consolidarsi in regime di pacifica democrazia, si son trovati storditi e disorientati questa prima volta. che veniva a scompigliarli un attacco in forze. Ma. pure l'attacco doveva essere atteso, e la loro posizione esigeva che essi preparassero sé stessi e le masse a una reazione, non dico violenta, ma di forte protesta. E forse questo era possibile se i fascisti avessero attaccato il primo giorno: non fu più possibile quando, dal quarto giorno in poi, ogni velleità era, per il momento, svanita. Evolavit! Ancora una volta abbiamo visto qui il fallimento del riformismo legalitario, il quale offre certo la possibilità di trarre dalla sua formula astratta l'opera viva della rivoluzione in atto, ma offre anche, e più facilmente, l'adito alla dannosa considerazione del legalitarismo come semplice difesa degli interessi conquistati, che è l'idea più conservatrice che si possa pensare. Ma fin qui non abbiamo fatto che raccogliere elementi per lo storico vicino o futuro: vediamo ora di dare un nostro giudizio su questi fatti, che per l'importanza economica della città interessano tutto il Paese. E il giudizio non può vertere su altro che su la trasformazione così avvenuta, o piuttosto avviata, dell'ordinamento portuario per opera del fascismo: su introduzione delle cooperative plurime e in concorrenza al posto delle cooperative privilegiate di monopolio, con la conseguente auspicata diminuzione delle tariffe! Ecco la panacea di tutti i mali che affliggono questo grande cuore della vita genovese: la panacea su cui si sono gettati, conclamando alla nuova grande meravigliosa offa del fascismo tutti i capeggiatori del ceto commerciale! In realtà per noi, non avvezzi certo al principio che sembra presiedere dall'alto al mutamento auspicato e cercato, s'impone un esame più preciso e concreto del problema nei suoi due aspetti, in relazione cioè alla situazione sociale in genere del proletariato genovese e in particolare alla situazione portuaria. Cominciando da quest'ultima, non possiamo a meno di far nostra la giusta considerazione del Cabiati, che la soluzione sostenuta ed imposta dai fascisti non è affatto la soluzione del problema del Porto di Genova. Essa non fa che introdurre un rimedio parziale senza toccare a fondo, anzi in sostanza consolidando l'essenza del male. Questa é, notoriamente, nella costituzione di tutto l'organismo commerciale addossato al Porto dalle imprese di chiatte agli spedizionieri, dai raccomandatari alle infinite Ditte speculatrici. Enorme piovra che presenta oggi l'incremento della sua ricchezza particolare come incremento diretto alla ricchezza nazionale (laddove ne è indiretto decremento), e plaude lieta allo spodestamento delle cooperative operaie che da una dozzina d'anni, approfittando della debolezza, non complicità, del sen. Ronco, erano riuscite a valersi di una disposizione transitoria per creare il costante ostacolo del proprio monopolio limitatamente speculatore alla sfrenata ingordigia della sua apparente concorrenza - che si risolve in sfruttamento concorde. Queste cooperative ricevono oggi tutti gli obbrobri, grazie al torto manifesto del loro sistema monopolistico: e si dimentica che se esse monopolizzavano a vantaggio di una parte soltanto degli operai e del piccolo capitalismo che le sosteneva, questo regime era venuto a sanare il maggior male del cosi detto lavoro libero, che metteva gli operai a mercè degli intermediari più loschi: che nei periodi di floridezza del Porto, per esempio fra il '12 e il '15, non mancò lavoro a nessuno, tanto che calavano dalle montagne circonvicine gli scaricatori improvvisati, in folla: e che se questo cooperativismo assorbiva sovvenzioni statali, lo stesso era stato sempre, e peggio, quando (vent'anni fa) non si metteva una gru sulle calate che non fosse a spese del Governo. Gli uomini delle cooperative ebbero l'impreveggenza di non ridurre subito le loro tariffe quando la crisi imponeva le riduzioni generali dei profitti (a un accordo in questo senso si era però giunti negli ultimi mesi): e così l'esasperazione dei commercianti, che vedevano in quelle tariffe limitati i propri vantaggi, ormai discesi ben lungi dai favolosi guadagni di guerra, sì è scatenata contro di loro e contro questo pedaggio medioevale che l'Italia pagava alle cooperative: quando il pedaggio lo riscuotono in molto maggior misura i commercianti senza ritegno. La riduzione delle tariffe e le libere cooperative multiple ricondurranno quindi il proletariato genovese e i suoi organizzatori a più ragionevoli vedute e a quella viva pratica di combattimento, fuor della quale la vita si intorpidisce e le sue energie si ottundono. Ma lavoro per tutti non ce n'è, s'intende, e restano integri e riconosciuti i diritti degli operai più provetti e più anziani, ai quali se talora è mancata la coscienza dei loro doveri, ora ritornerà, di fronte al pericolo, lucida e forte. E il fascio, o verrà su questo terreno di concorde azione sindacale, o dovrà fare in Porto una rovinosa guerra per sostituire al monopolio antico un altro nuovo e peggiore, col quale il danno evitato ai commercianti ricadrà sugli operai. Ad ogni snodo l'Italia il famoso pedaggio lo seguiterà a pagare nella sua integrità, sic rebus stantibus: e che importa se esso venga a distribuirsi più ai commercianti che alle organizzazioni operaie? Le quali, anzi, possono sempre giustificare meglio di quelli la propria funzione economica, caso per caso. I fascisti, che ora si vantano vincitori ed enumerano al pubblico due mila nuove iscrizioni al partito e dodicimila ai loro sindacati (compresi i non-portuari), sono attesi alla svolta dai gravi problemi di domani. Un pazzesco tentativo di assoluta conquista del Porto, ammesso che riuscisse, li porterebbe alla stessa posizione dell'Ente Cooperativo decaduto e alle medesime sorti; una più ragionevole azione sindacale li dovrà spingere ben presto a stringersi con le altre organizzazioni, se essi ne avranno la forza, dopo tanti appoggi del ceto commerciale, che da amico d'oggi diventerà tosto nemico, se essi imporranno, come i "rossi", una limitazione dei suoi appetiti. E da questo ceto, veramente, si dovrebbe cominciare la riforma del Porto di Genova, senza conculcare più oltre il movimento operaio. Gli operai di Genova e di Liguria vanno da tempo anch'essi ascendendo una curva di progresso, che ormai, come ho tempo addietro accennato su queste colonne; integrava i suoi valori economici con la diretta affermazione di valori morali e di una cultura politica. Bisogna augurarsi, chi abbia oggi l'ardire di concepire delle speranze, che l'azione diretta a reprimere la prepotenza di alcuni loro organismi non ne intacchi la sana e giusta potenza; e che le giornate fasciste di Genova non abbiano duplicati, a vantaggio di una causa che non ha ragione alcuna in suo favore, ed è costretta ad ammantare il proprio impegno con la bandiera di una utopistica e irreale libertà. Ma la responsabilità di impedirlo grava soprattutto sul proletariato stesso e sui suoi dirigenti, da cui i tempi vogliono una più intelligente e spassionata energia, non acquiescenza, che sarebbe la morte. SANTINO CARAMELLA.
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