ANTONIO SALANDRA

    La pochezza delle idee e la goffa pesantezza dell'azione caratterizzano, come ognun sa, quasi tutti gli uomini politici più in vista dell'Italia nuovissima. La mediocrità dei quali può non rilevarsi da chi guardi alla cronaca giornaliera, mancando la grande figura che col confronto la mortifichi, ma non può non apparire agli occhi desolati di chi conosca di ciascuno l'opera e gli intenti.

    Antonio Salandra non è superiore ai suoi tempi. Alla generale debolezza egli aggiunge la debolezza sua particolare, non per questo meno interessante. Tra le nostre molte maschere politiche è anche egli maschera dai caratteri comici ben definiti: appare egli il professore saputo tra gli ignoranti, la cattedra tra gli analfabeti, il sapiente tra i privi di senno, il grande teorico tra gli affaristi frettolosi.

    Il suo pensiero in verità non è né poderoso, né originale, foggiato sullo stampo di quello della Destra storica persino nei particolari. Il suo liberalismo, formatosi alla viva voce di Silvio Spaventa, manca, rispetto a quello degli hegeliani di Napoli di ogni nocciolo filosofico: ripetizione accademica, pallida e falsificatrice.

    Ciò perché il Salandra è sopra tutto e innanzi tutto conservatore; per indole, per istinto, per posizione sociale. Ricco di quella ostinatezza ferrigna che crea i caratteri di un sol pezzo, i visi di un solo colore, assertore tenace dei valori eterni della Famiglia e della Patria, che egli intende naturalisticamente nella loro esterna unità, amante piuttosto delle forme che delle forze, del diritto che della politica, appartiene il nostro a quelle nature astratte, ugualmente e senza rimedio incapaci sia dell'ardua chiarezza filosofica, sia della duttile politica, arte sottile. Perciò egli si accontenta di formule, e non attinge mai la realtà ribelle.

    I suoi scritti, prudenti nelle affermazioni, pieni di riserve e di sfumature, senza spigoli e senza asprezze, non mancano di riconoscere le esigenze della libertà e della autonomia. Ma non qui si ferma la sua attenzione, né queste affermazioni superano un infecondo dottrinismo. Chi si pone il problema centrale della nostra politica, quello cioè dello Stato e dell'unità, nei suoi veri termini: come rendere valida nelle coscienze una macchina statale sorta "per il popolo, non col popolo"? non può risolverlo che affermando la necessità della rivoluzione. Salandra è agli antipodi, poi che per lui la rivoluzione non è un futuro da avvicinare, ma un passato da difendere e, tutt'al più, da emendare.

    Nella generale instabilità consecutiva alla nostra unificazione il giovane Salandra riconosceva essere la nostra società "disgregata e bisognosa di aiuto". Questo aiuto non poteva derivarle se non dallo Stato "vigoroso e possente organismo" capace di farci superare ogni crisi, di darci coscienza di nazione di guidarci ai nostri alti destini. Lo Stato veniva inteso come pura organizzazione centrale, di cui si dovessero sempre più aumentare le ingerenze. Come il risorgimento fu opera di Stato, opera di Stato sarà la nostra politica nuova. Allo Stato tutti i compiti, dallo Stato tutte le soluzioni. Quindi problema sostanziale è quello dell'autorità. La questione è risolta a rovescio.


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    Prima conseguenza di questa concezione astrattista e moralistica dello stato italiano è la negazione cieca di tutti quei movimenti popolari che tendono a superare i gialli schemi di una organizzazione politica invecchiata. Come è logico e naturale il Salandra non accetta il concetto di lotta di classe "odiosa espressione di un fatto irreale" ma neppure comprende come attraverso la lotta di classe, l'internazionalismo, lo sciopero generale, si vada educando a libertà il nostro popolo, che non trova se non in questi miti il mezzo di affermarsi.

    Perciò egli, come non vede la forza conservatrice del riformismo, non apprezza il valore nazionale di ciò che vi è di rivoluzionario nel movimento socialista; cui contrappone un astratto concetto di nazione, immobilmente compiuta.

    Manca al Salandra la percezione immediata della realtà, la visione aperta del valore dei problemi sempre nuovi che la pratica di ogni giorno ci offre, il vero realismo politico. Non pare che egli senta spesso il bisogno di scendere dalla cattedra. Non segue l'amico suo Fortunato nella continua e trepida anatomia del nostro corpo sociale; né ebbe mai quella sua quasi religiosa esitazione, come di chi assista a un miracolo, pieno insieme di gioia e di tristezza. Non ebbe la virtù di rinnovarsi con gli anni: la sua meravigliosa coerenza è piuttosto immobilità, sì che il mille volte professato liberalismo non si traduce mai in politica liberale. Egli è sempre inattuale, e perciò indifferente. A questa cristallina inattualità si deve il suo ritrarsi dalla lotta in disparte, il suo guardare con occhi stanchi al torbido fiume della storia, che potrebbero essere creduti frutto di visione superiore e sicura del termine, o di odio alla lotta piccina. Il suo liberalismo, inaderente alla quotidiana guerra, non cade, no, nell'opportunismo, ma tende a un misticismo politico che trasforma i suoi giudizi in pregiudizi, e lo obbliga per trent'anni a una pratica di opposizione frigida e stracca.

    I suoi studi di problemi singoli non sono, in tanti anni, numerosi. Coerenti, non riescono a formare un organismo. Pervasi da una cultura soda, e sempre aggiornata, non ci attraggono tuttavia, perché, nella loro tornita compitezza, hanno in sé qualcosa di scolastico e di freddo.

    Se anche il giurista fosse, per dirla con l'Oriani, il politico della filosofia, e il filosofo della politica, certo il Salandra, giurista, non riesce ad essere né grande politico, né mediocre filosofo. Incapace parimenti di ridurre la realtà sotto le proprie formule, e di adattare le proprie formule alla realtà, è forse, fra i nostri uomini politici quello che più si è nutrito di storia e quello che meno ha saputo riattaccarsi con spirito di storico con operoso scetticismo, alla nostra tradizione, cui pur così spesso ama richiamarsi.





    Animo chiuso, mente raccolta, intima e melanconica, lontano dallo spirito savoiardo italiano fatto di tenacia conciliante, di fermezza duttile, di empirismo sicuro, non può adattarsi al gioco della "piccola politica quotidiana", e le contrappone gli astrattismi di una "grande politica nazionale" dalla quale soltanto tutto può essere compiuto. Perciò la stessa questione meridionale non trova in lui, di Lucera non solo deputato, ma "figliuolo ed alunno", l'apostolo entusiasta e guardingo.

    Il risolverla, o l'avviarsi a risolverla, gli appare per la sua generazione, un compito, un dovere ereditato da un'altra generazione di italiani intenti all'utilità regale, alla conquista più che alla pacificazione. Ma il contributo suo è leggero: qualche articolo di economia, poche parole al parlamento, proposte più dannose che utili, invocazioni ad una politica scolastica non più concreta che un "disegno di accesa fantasia", rivolta soprattutto alla scuola media "che serve alla classe media che per ora è sovrana", e null'altro.

    Problema dei problemi è il rinvigorimento del governo unitario centrale per l'attuazione della politica nazionale: questo il rimedio alla disgregazione federalistica di un passato che ancor tanto si prolunga nel presente, alla disgregazione classista di un futuro che rivela nel presente i primi sintomi. Non comprendeva il Salandra la inadeguatezza del governo centrale ad una politica unitaria liberale: la nullità di una "politica nazionale" là dove le condizioni di tutti i partiti erano così sconfortanti, da giustificare una politica riformista che tutto negasse e tutto dissolvesse.

    Ama il nostro le posizioni nette, e gli pare che allo stato convenga essere consapevole delle sue basi sociali; appoggiarsi a un ceto e a un partito. Qual sia questo ceto non è dubbio: nella genericità della borghesia i proprietari terrieri rappresentano "quella parte del patrimonio nazionale che è più interessato alla conservazione dell'ordine politico e sociale". Lo Stato di Saladra è lo Stato degli operai. I quali però, tutti intesi ad un chiuso lavoro di influenze locali, si andavano sempre più disinteressando della politica romana; serrandosi, come feudatari indipendenti dal potere centrale, nei paesi dove non poteva raggiungerli la legge, tra l'ignoranza quasi barbara dei contadini, che non sapevano essere che servi o rivoltosi. Il loro orizzonte politico non superava i confini del comune o del circondario; e, mentre essi richiedevano uno Stato forte per la difesa del privilegio, non si interessavano affatto alla sua vita, affare estraneo, romano; né amavano le seccature della libertà. Soprattutto nelle terre meridionali la mentalità dominante era ancora borbonica, arretrata, feudale. La classe a cui il Salandra voleva affidare la difesa dell'unità era certo fra tutte la meno unitaria: perciò tutti i tentativi del nostro erano destinati a infrangersi. Il Salandra non si nasconde le differenze del ceto proprietario, e, intimamente convinto che solo da questo ceto, o da questo ceto sopra tutti possa e debba sorgere una difesa reale e attiva del regime e delle istituzioni, confessa melanconicamente:





    "Pare scritto nel destino delle democrazie moderne che le attitudini politiche vi si sviluppino rigogliose solamente in quelle classi nelle quali sarebbe meglio spegnerle". La forza della classe agraria andava di giorno in giorno scadendo: la ricchezza si accumulava nei portafogli degli industriali del settentrione, la cui potenza economica non poteva non trasformarsi in potenza politica, di cui essi approfittarono per farsi scandalosamente proteggere: "I grandi datori del credito sono i dominii dei nostri stati contemporanei". Cade il valore della terra, e il possesso ne è sempre meno sicuro.

    Giganteggia negli uffici di stato una burocrazia, invadente, enorme, irresponsabile, sì che sempre più viene impedito il diretto controllo da parte degli agrari sul funzionamento dell'organismo statale. Burocrazia e capitalisti hanno interessi opposti agli "interessati nella terra". E della precaria situazione i maggiori responsabili sono gli agrari stessi, troppo proclivi a chiudersi in un egoistico e cieco localismo "abbandonando il governo della cosa pubblica alla borghesia meno abbiente degli avvocati e dei professionisti". Il passaggio compatto dei meridionali all'opposizione ha determinato la caduta della Destra, del partito "accusato, pur troppo a torto di spirito conservativo"; i meridionali hanno permesso l'abolizione del macinato "uno tra i più saldi sostegni del bilancio", "hanno largita la preponderanza elettorale alle plebi cittadine", hanno, le mille volte, agito per incomprensione o per accidia contro i propri interessi. Solo se da parte loro si avrà "un lavoro lungo e paziente non interrotto di organizzazione e di riscossa" "un gran bene ne potrebbe derivare per tutta la vita pubblica del nostro paese". Perciò egli si fa incitatore, risvegliatore dei pigri corpi dei terrieri; cerca di scotere l'animo con la paura dell'assalto socialista, della concorrenza capitalista, coll'esaltazione della libertà: "le classi dirigenti possono ormai considerare il potere non come un retaggio, ma come una conquista che bisogna continuamente fare e rifare, e continuamente difendere con grande e costante sforzo di energia. Se non mancheranno di vigore e virtù esse vinceranno, se no saranno irrimediabilmente sopraffatte. Sarà quello un triste giorno per il nostro paese, ma date quelle condizioni, è indispensabile che esso spunti. Sta in loro, sta in noi l'impedirlo".





    La politica salandriana è tutta in questo convinto tentativo di servirsi delle forze più illiberali e arretrate per un fine di conservazione, attraverso una teorica di equivoca libertà. Compito contraddittorio e aspro di difficoltà, a cui il nostro resta per trent'anni fedele, rigidamente. Il suo giuoco si fa monotono, i suoi atteggiamenti non mutano, tutte le sue affermazioni sono sicuramente prevedibili. Prevedibilità che non è certo una gran virtù per un uomo politico. L'eccessivo linearismo gli toglie ogni linea perché lo condanna alla nazione; gli toglie ogni funzione direttiva sugli avvenimenti. Di fronte a una politica di sapiente e preveggente neutralità, di dissolvente lasciar andare le cose, trattenendole con insensibili attriti, corruttrice là dove tutti erano corruttibili, duttili e sfuggenti, dalla mano leggera ma dominatrice, dalle fughe tempestive, sicura del punto di arrivo perché fondata soltanto su non fallace intuizione degli uomini e delle cose e non su programmi o su schemi, il Salandra, schematico, programmatico, convinto, astratto, non corruttibile, ostinato, resta una figura di sfondo, un estraneo, 1a sua arrochita opposizione non è affatto pericolosa: ricorda quelle tigri da vetrina da confettiere, che muovono tutto il giorno la testa e aprono la terribile bocca ritmicamente. Nei calcoli giolittiani doveva anzi essere un elemento di sicurezza l'avere una opposizione fidata, sempre sullo stesso tono, da cui non ci si poteva attendere colpi impreveduti; che si poteva spingere senza pericolo al potere nei giorni di stanchezza o di difficoltà, con la certezza di poterla abbattere senza sforzo dopo cento giorni, a cui si potevano affidare gli ingrati compiti della repressione, le responsabilità delle posizioni nette. Poiché il gruppo salandriano ha fatto proprio un motto del multiforme Giolitti: "In Italia la libertà corre un solo pericolo: la licenza", lo si lascia ogni tanto alle prese con la licenza, in situazioni anormali, quando la piazza urla.

    Le tendenze filoagrarie determinano la politica economica del Salandra, che anche in questo campo è a parole un grande, ma non fortunato, amatore della libertà "primo economico" che la piovra burocratica può soltanto soffocare. "L'elevamento della moralità e della cultura, e l'accumulazione del capitale... sono innanzi tutto opere di libertà". L'azione economica dello Stato ha dei limiti oltre i quali diventa deleteria: "Non lo Stato, né associazioni comunque fondate sulla costrizione e sulla menomazione della libertà, sola creatrice di ricchezze e di benessere, potranno mai sostituire i loro meccanismi pesanti e stridenti alle feconde iniziative individuali". Ottimi spunti polemici antiburocratici e antisocialisti.

    In pratica è poi tutt'altra cosa. Il primo discorso di qualche peso del giovane Salandra alla Camera, pieno di tutti i possibili sofismi, è, a questo riguardo, istruttivo. Di fronte allo Stato, liberismo e protezionismo sono dichiarati pregiudizi: lo stato deve intervenire a sanare le "ingiustizie " della libera concorrenza. Se la potenza politica ed economica degli agrari è un grave pericolo di fronte a industriali e burocrati, lo Stato - lo Stato equo - deve intervenire (sarebbe infatti un'opera di puntello reciproco). Poiché non si tratta di tornaconto ma di giustizia soltanto lo Stato deve essere arbitro indiscutibile.





    Perciò si propone un'inasprimento del dazio sul grano, (contro cui si schierarono piccole minoranze, Sonnino e Fortunato) per mantenere la giustizia nei riguardi degli industriali già tanto protetti; inaugurandosi così una tattica di ritirate strategiche, di rinculi che servono di slancio, di dondolante pendolo di cui deve essere molla lo Stato, intesa ad accordar sempre nuovi dazi agli industriali per poter richiedere in nome della giustizia pacificatrice sempre nuove protezioni per gli agrari. Di nuovo nel 1901 il Salandra "rappresentante di granicultori" potrà contemporaneamente richiedere provvedimenti protettivi per il vino e per gli agrumi, ed annunciare il proprio voto favorevole ai provvedimenti per le industrie settentrionali; perché egli non vuole la lotta, nè si piega al contratto; chiede soltanto si riconosca il diritto.

    Con questa base sociale essenzialmente reazionaria, illiberale, Antonio Salandra si accinge alla ricostruzione del morto partito liberale. Si può dubitare della stessa possibilità di un partito liberale come tale, dove compito dei partiti è l'esasperazione, l'esagerazione di una parziale verità. Ad ogni modo il Salandra risolve preventivamente la questione della coesistenza nello stesso corpo di due anime: radicalismo e conservazione, cacciando per la finestra la funzione rivoluzionaria, e intendendo il partito come semplice partito conservatore; e tenta di ridargli una tradizione, affermandolo figlio e continuatore della vecchia Destra, del partito moderato.

    Ma le condizioni che rendevano necessario il partito moderato, non valgono più per il novello partito, poiché, pur continuando il dissidio chiesa-stato, i cattolici sono entrati a vele spiegate nella politica attiva. Il Salandra si affanna a cercare una "alta idealità", una "anima nuova" al corpaccio inanimato del suo partito conservatore che ha cosi poco da conservare, ma anche qui la ricerca è vana. Egli non trova di meglio che le solite vacue generalità della "idea di nazione", mentre la nazione non può servire di base o di vessillo ad alcuna parte, risultando essa invece dalle libere lotte delle parti, nazionali tutte anche a lor dispetto. Anche qui la via del nostro è sbagliata, i tentativi sterili. La politica dei conservatori si riduce a una pigra difesa, non ha fisionomia propria, ristagna e si impaluda.





    Monarchico per sentimento e per necessità logica, il Salandra è più atto a comprendere la politica umbertina, desiderosa di grande e sprezzante delle forze popolari, che quella di re Vittorio, demagogicamente aristocratica. Non a caso fu con Pelloux nel famoso ministero, ch'egli disse poi non avere peccato di intenzioni, ma solo di misura.

    Nei lunghi anni giolittiani di politica sonnacchiosa non risalì al potere che per volontà d'altri; per poco tempo, e non ai primi posti. Allorché nel 1914, pel ritiro volontario di Giolitti, egli ottenne la presidenza, era, al pubblico italiano, quasi uno sconosciuto, e fu Totonno. Certo, la sua figura non poteva essere popolare, così rigidamente chiusa in un cerchio di concetti astratti, così ostilmente conservatrice, cosi cattedratica; spiacevole agli uni per il troppo reazionarismo, agli altri per i troppi appelli alla libertà, ai più incognita e nuova. Tra gli italiani tradizionalmente amanti del successo e della astuzia non poteva la sua coerenza suscitare entusiasmi; coloro che andavano cercando tra i partiti nebbiosi una possibilità di liberazione non potevano trovare nella sua "politica nazionale" che un generico e falso schema che sempre più avrebbe allontanato l' "Italia politica " dall' "Italia reale", inteso a costringere un corpo in crescenza nelle fredde forme di istituzioni invecchiate e non sentite.

    Non di qui poteva venire la parola nuova, mentre tutti i problemi ingigantiscono nelle incapacità dei solutori, e l'indifferentismo, i riformismi, le camorre, suscitavano in tutti una accorata tristezza, uno sconsolato fastidio. Ma ecco, impreveduta e imprevedibile, la guerra. Fu capovolto ogni calcolo. Per essa nacquero nel popolo i primi germogli di una salda coscienza di stato, attraverso il comune sacrificio, la vita e l'opera comune, i ravvicinamenti educatori; mentre apparve con una tragica chiarezza la vanità delle formule del nuovo ingombrante politicantismo prebellico, e la necessità della rinnovazione. Tutto questo moto sorgeva per il fatto stesso della guerra, indipendentemente o in violenta contraddizione con le ideologie che alla guerra ci spinsero, con gli scopi che alla guerra furono proposti. Non poteva essere e non fu la guerra attuazione di un programma. Perciò coloro che l'avevano fatta le si opposero poi, e la negarono in una disordinata guerra civile, attraverso la quale, pur con stento, errori e lentezza, si va oggi foggiando la nostra vera unità.

    Antonio Salandra aveva preveduta la guerra come conseguenza della propria "politica nazionale", di quella politica che dà luogo a una condizione "di continua possibilità di conflitto fra gli Stati che la attuano. Non dunque premessa, liberazione, redenzione, ma risultato; compimento, termine.





    Non ci fermeremo a giudicare i singoli atti politici del nostro, né a discutere del momento dell'intervento, o della sua maggiore o minore utilità. Troppo è più facile oggi il dire che allora il fare, né l'esame di questioni di questo genere ci sarebbe di alcun vantaggio. Ci preme soltanto di chiarire la concezione che il Salandra ebbe della guerra, cui egli diede tutto sé stesso; distinguendola dalla sua azione politica, che se da questa concezione fu influenzata (guerra alla sola Austria) fu dagli avvenimenti quasi fatalmente tratta, strumento suscitatore di non prevedute realtà.

    Appartiene il Salandra a quel gruppo assai numeroso di italiani che vedono nel Risorgimento il centro non solo della nostra politica passata, ma anche della futura, quasi la forma predeterminata sulla quale la nostra vita statale si debba foggiare; le sacre tavole della legge dalle quali tutti e sempre dobbiamo prender norma. A ciò si aggiunga il suo concetto di nazione che, come quello dei nazionalisti è primitivo, naturalistico, antidialettico (perciò soltanto si potè parlare di "sacro egoismo"). La guerra non mutò un briciolo negli schemi del Salandra, anzi vi entrò come una mano in un guanto.

    Concepita come continuazione e compimento del Risorgimento, da attuarsi con le stesse bandiere per la medesima idea, la guerra deve essere necessariamente guerra di Stato, o più precisamente di monarchia. La monarchia non è più piemontese: ma se un pugliese se ne fa il maggior paladino ciò non significa ancora che essa sia nazionale: essa è piuttosto neutrale. Ad ogni modo, se la guerra è guerra di monarchia, non può essere attuato che da forze veramente monarchiche, tradizionali, conservatrici; dal partito liberale-democratico.

    Era finita la lunga attesa, gli appelli senza risposta, l'opposizione paziente. Di colpo venivano rimesse in gioco tutte le possibilità. La guerra doveva ricreare il partito liberale non solo, ma dargli una tradizione ed una gloria; il partito liberale strumento di guerra monarchica, somma e unica difesa delle istituzioni, doveva riprendere con mano sicura il timone; fondare e definire l'unità monarchica nazionale.





    Questo sopra tutto importa al Salandra, che la guerra non esalta in nome del principio di nazionalità o di autodecisione, né delle fragili ideologie wilsoniane, né del diritto, della giustizia, della libertà; che non vede quasi la terribile unità della guerra, ma la concepisce divisa in tante guerre limitatamente parziali; che non fu mai irredentista. Il vero scopo della guerra è per il nostro, ripeto, il consolidamento dell'unità monarchica, cioè la definitiva conquista d'Italia da parte della monarchia. Le bandiere d'Italia sono le bandiere del Re: se sotto queste bandiere muoiono gli ex-rivoluzionari, ciò "è già una grande vittoria".

    Non è questa concezione gretto calcolo parlamentare, infame gioco di politica interna, inteso a resuscitare per interessi personali partiti oltrepassati. Il Salandra non ha tenaci ambizioni governative. E' invece il tentativo di attuazione della unica idea salandriana per tanti anni vagheggiata e tornita - per questo il pensiero e l'azione del Salandra in guerra erano facilmente prevedibili da chi conoscesse il suo passato. Egli fece il possibile per attuare con sicurezza e compiutamente la propria idea; nell'astrattismo, nella illiberalità della quale va ricercata la causa della sua caduta e del suo definitivo fallimento. Perciò il Governo si isolò dal Paese con la censura, con il poco sviluppo della stampa ufficiale, circondandosi di mistero, lasciando l'incertezza fino alla vigilia; scatenò per l'Italia l'offensiva di un interventismo piccolo borghese retorico e vuoto; nella sicurezza del proprio scopo trovò il Salandra la abilità del patteggiatore parlamentare, attraverso i molti rimpasti e rifacimenti ottenendo una insperata stabilità; servendosi a tempo degli uomini e della piazza, delle ideologie e degli interessi, delle minaccie e della adattabilità.

    Ma quando col discorso di Torino il suo giuoco fu chiaro ed egli si sentì stanco, subito cadde. Fu continuata la sua politica dai successori, non bene; e quando la guerra fu vinta la si esaltò per ciò che in essa, vi fu di peggiore, di inutile, di vistoso, Demagogia e incapacità continuarono la stessa politica nel dopoguerra, onde la rivolta. Salandra sta ancora con l'ordine, con gli agrari, con il fascismo "provvidenziale anarchia".. Ma il suo posto non é più nella lotta; ancora convinto che il proprio compito storico non sia finito, si sente tuttavia sorpassato; stanco per aver passato l'intera vita in vano ad un ideale non realizzabile. Egli non sa, come il Sonnino, ritirarsi del tutto e scrivere di Beatrice; avendo meno peccato sente meno il bisogno di espiare. Ma siede in silenzio, come chi è esaurito per sempre dopo aver raccolto ogni propria potenza ed averla gittata in vano nel supremo sforzo di attuazione del più dogmatico illiberale liberalismo.


Carlo Levi.