L'AGRICOLTURA LOMBARDA
"È una scortese e sleale asserzione quella che attribuisce ogni cosa fra noi al favore della natura e all'amenità del cielo; e se il nostro paese è ubertoso e bello e nella regione dei laghi forse il più bello di tutti, possiamo dire eziandio che nessun popolo svolse con tanta perseveranza d'arte i doni che gli confidò la cortese natura". Abbiamo accennato a principio in quale stato la natura desse ai primi nostri progenitori questa terra che abitiamo: al basso, una vicenda d'acque stagnanti e di dorsi arenosi; all'alto un labirinto di valli intercette da monti inospiti e di laghi. Abbiamo detto quali popoli ci furono maestri, o almeno fratelli di cultura: i Liguri, gli Umbri, i Pelasghi, gli Etruschi, i Romani, i quali ne furono inciampo su la via della civiltà, la quale tre volte s'arrestò e decadde; nell'èra celtica, nella bizantina, nell'ispanica. Nessuna istoria offre una più frequente alternativa di beni e di mali, e una più manifesta prova di ciò che è veramente giovevole, o veramente avverso all'umana felicità; il nosto incivilimento tre volte tornò uno sfrondato tronco; e ogni volta nel rinverdire apparve più rigoglioso e fiorito. Noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani; sicché il botanico si lagna dell'agricoltura, che trasfigurò ogni vestigio della vegetazione primitiva. Abbiamo prese le acque dagli alvei profondi dei fiumi e dagli avvallamenti palustri, e le abbiamo diffuse sulle aride lande. La metà della nostra pianura, più di quattromila chilometri è dotata d'irrigazione; e vi si dirama per canali artefatti un volume d'acqua che valuta a più di trenta milioni di metri cubi ogni giorno. Una parte del piano, per arte che é tutta nostra, verdeggia anche nel verno, quando all'intorno ogni cosa è neve e gelo. Le terre più uliginose sono mutate in risaie; onde sotto la stessa latitudine della Vandea, della Svizzera, della Tauride, abbiamo stabilito una coltivazione indiana. Le acque sotterranee, tratte per arte alla luce del sole, e condotte sui sottoposti piani, poi raccolte di nuovo e diffuse sopra campi più bassi, scorrono a diversi livelli con calcolate velocità, s'incontrano, si sorpassano a ponte-canale, si sottopassano a sifone, s'intrecciano in mille modi. Nello spazio di solo duecento passi, presso Genivolta, la strada da Bergamo a Cremona incontra tredici acquedotti, e li accavalca coi Tredici Ponti. Alla condotta di queste acque presiede un principio di diritto, tutto proprio del nostro paese, pel quale tutte le terre sono tenute a prestarsi questo vicendevole passaggio, senza intervento di principe, o decreto di espropriazione. Non è questo un vincolo che infranga il sacro diritto di proprietà; ma una utile aggiunta al diritto per rendere più fruttifera ogni proprietà senza eccezione. Gli scoli di tutte codeste acque sono muniti ai loro sbocchi di chiuse, che arrestano il rigorgo dei turgidi fiumi. Un canale attraversa per mezzo tutta la provincia Cremonese da1l'Olio al Po; tutti gli acquedotti che corrono a fecondare la parte inferiore, lo attraversano con ponti di pietra, lasciandovi traboccare le acque che per avventura eccedano la prefissa misura; e se avviene che diuturne pioggie rendano superflua l'irrigazione, si chiudono con porte gli acquedotti, e le loro acque precipitate nel sottoposto scavo si deviano tutte nell'Olio e nel Po. La provincia mantovana è una terra conquistata sulle paludi; le stesse acque che accerchiano la città, sono una palude trasformata per arte in lago navigabile. Un paese al tutto mediterraneo come il nostro s'avvicina per questo aspetto all'Olanda. I nostri canali, navigabili ad un tempo ed irrigatori, sono costrutti sopra un principio speciale; ma sono veri fiumi, prima inclinati fortemente, poi progressivamente moderati, per accogliere di tronco in tronco le disuguali masse d'acqua, che l'irrigazione viene successivamente emungendo. Una volta impresso il moto, quest'ordine di cose si continuò uniforme attraverso alle più varie vicissitudini dei tempi. Ogni anno segnò sempre per noi qualche nuovo grado di prosperità; ogni anno più vasta la rete stradale; ogni anno più folta la piantagione dei gelsi, prima riservata ai colli, poi distesa in veri boschi sui piani dell'Olio e dell'Adda, e salita fino a mille metri d'altezza nelle valli alpine, produttrice di un'annua raccolta di cento milioni di franchi, in un territorio che corrisponde alla ventiseiesima parte della Francia. Sempre più diffuse, ma più accurate e quindi meno insalubri, le irrigazioni; si mutano in buone case i tuguri dei contadini; penetra in tutte le comuni rurali il principio dell'istruzione; tolta cogli asili dell'infanzia 1'abbietta ferocia e la rozzezza ai figli della plebe; gli studi delle lettere e delle arti accumunati al sesso gentile; e colle solenni mostre diffuso l'amore delle belle arti nel popolo, e un abito di eleganza negli utili mestieri. ***
Su la nostra pianura tutti gli abitanti si collegano con buone strade, che ragguagliano in circa un chilometro di lunghezza per ogni chilometro di superficie. La rete stradale involge ormai tutte le colline, sino all'altitudine di ottocento metri; trafora con gallerie le rupi verticali che interrompono le riviere dei laghi; s'insinua nelle valli alpine, raggiunge i sommi gioghi; difende contro le valanghe i più alti passi carrozzabili che siano sul globo. La via del Sempione, che fu il modello di tutte, è opera dei nostri ingegneri che condussero anche quelle dello Spluga e dello Stelvio. Ingegneri nativi di quell'antica parte del nostro territorio che aggregossi alla Svizzera, tracciarono le vie del Gottardo e del Bernardino. I nostri imprenditori sono sparsi per le terre dei Grigioni, dei Tirolesi, degli Illiri, dei Boemi; dei Galiziani, insegnando loro a protendere attraverso ai monti i vincoli d'una crescente civiltà. Le nostre opere stradali portano tratto tratto i segnali d'una magnificenza romana; il ponte che congiunge le due rive del Ticino, a Buffalora, si stende per trecento e più metri con undici arcate di granito. Le strade ferrate non ci sono ignote; una linea è compiuta da quattro anni; due sono cominciate; altre sono studiate e discusse. L'uomo, con tutte queste opere d'acque e di strade, ha preso possesso di tutte le terre coltivabili; e ad ogni condizione di terreno adattò un ordine proprio di coltivazione, un più ampio o più minuto riparto nella possidenza, un proprio tenore di contratti. ***
È assai malagevole porgere una succinta idea della nostra agricoltura nelle nostre provincie, per la strana sua varietà. Mentre in una parte d'un territorio il riso nuota nelle acque, un'altra non può abbeverare il bestiame se non di vecchie acque piovane o colaticcie, o tratte a forza di braccia da pozzi profondi fino a cento metri. Un distretto è continuo prato, verde anche nel verno, folto d'armenti, ridondante di latticini; un'altro raduna a stento poco latte caprino, coltivando piuttosto a giardini che a campi l'olivo e il limone, la più elegante di tutte le agricolture. Nei monti si coltiva la canapa ed è quasi ignoto il lino; intorno a Crema ed a Cremona il lino è primaria derrata campestre, e la canapa è negletta. La pianura pavese si allarga in ampie risaie, poco cura il gelso; e la pianura cremonese ne ha le più folte e robuste piantagioni. Il vino è la speranza dell'agricoltura in ambo le opposte estremità del paese, nella boreale e alpestre Valtellina, e nelle australi pianure di Canneto, di Casalmaggiore, e dell'oltre Po. L'agricoltura bresciana solca profondamente a forza di bovi un terreno tenace; la lodigiana sfiora i campi con un lieve aratro tratto da solleciti cavalli, per non smuovere le povere ghiare, sopra le quali il lavoro dei secoli ha disteso uno strato artificiale. Le circostanze naturali che vogliono questa varietà nel modo di coltivar le terre, la vogliono anche nel modo di possederle. Nella pianura irrigua un podere che non avesse certa ampiezza non si potrebbe coltivare con profitto, perché rinchiude complicate rotazioni, culture molteplici, difficili giri d'acque ed una famiglia intelligente che ne governi la complicata azienda; quindi ogni podere forma un considerevole patrimonio. La famiglia che la possiede è già troppo facoltosa per appagarsi di quella vita rurale e solitaria, in luoghi non ameni; dimora dunque in città; villeggia sugli aprichi colli e sui laghi, e sovente conosce appena per nome il latifondo che la nutre in quell'ozio. La coltivazione trapassa alle mani d'un fittuario, il quale per condurre debitamente l'azienda debb'esser pure lui capitalista; e ve ne ha taluni più ricchi dei proprietari, e talvolta possessori essi d'altre terre, confidate ad altri coltivatori. Vivendo nel mezzo d'ogni abbondanza domestica, circondati da numerosi famigli e cavalli, formano quasi un ordine feudale in mezzo a un popolo di giornalieri, che non conoscono ulteriori padroni. Qui sorge un ordine sociale affatto particolare. Un distretto che abbia una ventina di comuni e misuri un centinaio di chilometri, conta, in ogni comune quattro o cinque di queste famiglie, che spesso vivono in casali isolati, a guisa degli antichi Celti. Sono sparsi fra mezzo a loro alcuni curati, qualche medico, qualche speziale, il commissario, il pretore che amministra la giustizia e le tutele famigliari. Questa é l'intelligenza del distretto; tutto il rimanente è numero e braccia. Ogni coltivatore vende grani e compra bestiami, e occupa fabbri e falegnami; ma il commercio e l'industria non vanno oltre; appena qualche bottega serve al rustico apparato del contadino. Si direbbe che questo è l'antico modello su cui si formò l'agricoltura britannica. Ecco gli uomini che sotto le mura di Pavia e appiè del castello di Binasco andavano senz'armi ad affrontar Bonaparte vincitore di Montenotte e di Lodi. ***
Se dal fondo della pianura saliamo ai monti, troviamo un ordine sociale infinitamente diverso. Le ripide pendici, ridotte in faticose gradinate, sostenute con muri di sasso, sulle quali talora il colono porta a spalle la poca terra che basta a fermare il piede di una vite, appena dànno la stretta mercede della manuale fatica. Se il coltivatore dividesse gli scarsi frutti con un padrone, appena potrebbe vivere. La terra non ha quasi valore, se non come spazio su cui si esercita l'opera dell'uomo, e officina quasi del lavoratore; e il paesano è quasi sempre padrone della sua gleba, o almeno livellario perpetuo; con altri patti le vigne e gli oliveti ritornerebbero ben presto selva e dirupo. Mentre una parte della famiglia vi suda e alleva all'amore del suolo nativo la povera prole, un'altra parte scende al piano ad esercitarvi qualche mestiere, o si sparge trafficando oltremonte, e riporta alla famiglia i risparmi che le dànno la forza di continuare la sua lotta colla natura e colla povertà. Un distretto di questa fatta conta tante migliaia di proprietari quante sono le famiglie; ma la ricchezza non viene dal suolo, e vi s'investe come frutto delle arti e del traffico. Laonde si vide una singolar mistura di costumi rusticali e d'esperienza mondana, l'amore del lucro e l'ospitale cordialità, la facilità di saper vivere in terra straniera, e l'inestinguibile affetto di paese, che presto o tardi fa pensare al ritorno. In alcuni monti la possidenza privata è ancora un'eccezione; il comune possiede vastamente i pascoli e le selve e le acque e le miniere; né basta sempre l'esser nato da gente nata in paese; ma bisogna appartenere ai patrizi del comune, agli originari. Senza avvedersi, essi conservano ancora una comunanza, la quale rimonta alle genti celtiche; appena ha fatto luogo qua e là al possesso romano; e non mai sofferse vera signoria feudale, ma onorò solo negli antichi conti e capitani il nome del principe e l'autorità delle leggi. Alcune di queste comunanze, pochi anni sono, tenevano ampie valli; la Levantina, lunga più di tanta miglia, era un solo comune, e si suddivise prima in otto e poscia in venti; il distretto di Bormio era un solo comune e ancora conserva indivisa fra i nuovi comuni molta parte dell'antica proprietà. In molti luoghi il comune piccolo si distingue dal comune grande, o diremo la moderna parrocchia dal primitivo clano. Questo regime appare più puro ed assoluto in quelle valli che si aggregarono alle leghe dei Grigioni, e soprattutto nella Mesolcina, perché sfuggirono alle riforme dei governi amministrativi. Alcune delle estreme valli sono troppo alpestri per l'agricoltura; la neve le ingombra nove mesi dell'anno, ma le trova deserte e silenziose. Chiusi i poveri casolari il pastore discende per le valli coll'armento; gli uomini appiedi; le donne sui cavalli, cogli infanti nelle ceste, come le tribù dell'Oriente. A brevi giornate di cammino la carovana si arresta dove il contadino del piano l'aspetta; le vacche alpine stanziano qualche giorno a brucare gli esausti prati; poi, inseguite dalle brine, passano a più bassi campi, fino ai prati perenni. Quando la natura si riapre, la famiglia ritorna al suo viaggio, rivede fioriti i campi che lasciò bruni e squallidi; risale lungo i tortuosi torrenti, trova i pochi che rimasero nella valle a diradare le selve e sudare alle fucine, e si sparge sulle alpi che così chiama ancora quei pascoli dove la primitiva comunanza non conosce altra disegualità che il numero degli armenti. ***
Fra questi estremi, sono le belle colline coltivate come il monte, ubertose come il piano. Quivi una contadinanza la quale non possiede la sua terra, eppure non emigra, può tributare al padrone il frumento, divider seco il vino e i bozzoli, e serbar tanto per sé da viver colla famigliuola, e allevarla nel semplice tenore dei suoi padri. Quivi un comune è disseminato in venti, in trenta, in quaranta casali di vario nome, che la chiesa, posta sul poggio più ameno, raccoglie in un comune sentimento di luogo. Liberi di coltivare la terra a loro talento, purché non si defraudi del pattuito frutto il proprietario, essi le sono affezionati come se fosse loro proprietà. Se il padrone si muta, il colono subisce la legge del nuovo; e talvolta una famiglia dura da tempo immemorabile sullo stesso terreno. Tutto l'anno è un continuo lavoro; le viti, il gelso, il frumento, il granoturco, i bachi, le vacche, la vangatura e la messe, il bosco e l'orto dànno una perenne vicenda di cure, che desta l'intendimento, la previdenza e la frugalità. Lavorando sempre in mezzo alla famiglia, senza comandare né ubbidire, il contadino pur si collega al lontano commercio per il prezzo dei suoi bozzoli e per il lavoro che la seta porge alle sue donne. Nei siti meno lieti e più ripidi, dove il cittadino non ama investire capitali, l'agricoltore è spesso il padrone del suo terreno; e rappresenta quello stato sociale ch'era così sparso negli aborigeni, quando furono i secoli della maggior forza d'Italia e del più puro costume. Questi aspetti della vita rusticale nel piano, nel monte e nel colle, si spiegano talvolta in modo aperto e risoluto; ma trapassano per lo più dall'uno all'altro, con varia tessitura, che il commercio e l'industria rendono più complicata. Questa varietà palesa quanto l'agricoltura sia antica fra noi, ed in quanti particolari modi abbia sciolto i singoli problemi che le varietà naturali del paese le avevano proposto. 1884. CARLO CATTANEO.
Dalla introduzione alle Notizie naturali e civili sulla Lombardia, il capolavoro di C. Cattaneo |