NOTE DI POLITICA INTERNA
La vera crisiLo sciopero antifascista del Piemonte e della Lombardia è il fatto più caratteristico della presente situazione italiana mentre la fine del Ministero Facta non ne è che un sintomo pochissimo chiarificatore. Gli avvenimenti parlamentari sono, per loro natura, equivoci e superficiali in quanto nascono in un mondo artificioso e si esprimono secondo un linguaggio che deve prescindere dalle intenzioni e dagli interessi che li hanno determinati. Graziadei parla della rivoluzione mondiale mentre le sue parole hanno un senso solo se si riportano a speciali situazioni locali dell'Italia del Nord. Mussolini nasconde sotto il dilemma insurrezione-legalità il dissidio interno del fascismo che non riesce più ad esprimere la sua sostanza di agrario in una ideologia francamente reazionaria. La più tragica debolezza dell'Italia si avverte nella sua incapacità di creare e alimentare un partito reazionario. I clericali del centro destro sono diventati popolari di sinistra; i nazionalisti hanno parlato di sindacalismo rimanendo letterati; Salandra non vede la reazione che come ordine amministrativo; il fascismo parla di socializzazione e di democrazia. Ciò si riporta alla nostra immaturità politica che ci consente psicologie diffuse e tendenzialità ma non ancora, o non come si dovrebbe, il duro sforzo di una precisa responsabilità ideale. In Italia non fu e non è possibile nazionalismo perché fummo irrimediabilmente nazionalistoidi; in fatto di rivoluzione non giungemmo oltre il rivoluzionarismo; il socialismo invece di generare una lotta politica crea l'unanimità collaborazionista e socialistoide. La funzione di stimolo e di impulso moderno alla nostra vita economica può venire solo e contemporaneamente da un partito rivoluzionario e da un partito reazionario: oggi il partito comunista, il solo antidemocratico, deve essere insieme rivoluzionario e reazionario e qui è la sua debolezza. La Confederazione Generale del lavoro e l'organizzazione fascista sono gli istituti caratteristici con cui la tradizione italiana riformistica cerca di soffocare e nascondere le nuove situazioni rivoluzionarie nate con la nuova economia. Esaminiamo il fascismo. Esso indica molto chiaramente le incertezze dei nostri industriali e agrari nella loro azione politica. Gli agrari di Romagna avrebbero interesse a una decisa politica liberale (quella che Missiroli indicava loro in Satrapia) contraria al protezionismo operaio e al protezionismo industriale. Il fascismo ispirato da essi, avrebbe dovuto essere liberista e, di fronte agli operai, anticollaborazionista, reazionario. Una impostazione siffatta sarebbe stata chiara: la lotta, educativa. Alcune categorie di industrie metallurgiche e tessili avrebbero potuto accettare questi propositi: nell'equilatero Milano-Torino-Genova lo stimolo dell'opposizione operaia segnava chiaramente agli industriali questa linea di condotta. Certi atteggiamenti liberistici di Agnelli documentano incertezze e propositi analoghi. Ne sarebbe scaturita una situazione molto difficile in cui le due economie italiane si sarebbero nettamente distinte; il Nord moderno da una parte, deciso ad avere un'economia europea traendosi dietro, volente o no, l'Italia medioevale: Torino diventava un'altra volta con le officine Fiat-centro la capitale naturale dell'Italia non una. Dall'altra parte il Mezzogiorno piccolo-borghese che nutre la burocrazia romana. Il fascismo non ha saputo essere l'avanguardia dell'industria moderna. La nostra industria ha rinunciato alla sua modernità asservendosi alla siderurgia. Battendosi e salvandosi per mezzo dei dazi protettivi ha dovuto piegare e accordarsi col protezionismo operaio. In Piemonte e in Lombardia gli industriali preferiscono servirsi di Buozzi che di Mussolini. Il fascismo resta disoccupato, Grandi non trova eco, la maggioranza è per un gorgoliniano programma riformista. Fermo alla pregiudiziale di modernità resta l'Ordine Nuovo che scriveva in questi giorni: "Lo Stato maggiore fascista, che ha tra i suoi capi il generale Giardino e il Duca d'Aosta, vuol fare il colpo di Stato militare e perciò punta dritto su Novara. Il Duca d'Aosta è là dove, nel 1849, c'era Radeski". Invece la sconfitta di Novara, come prima lo sciopero, serve ai collaborazionisti. Nell'Alleanza del Lavoro i comunisti invece di essere l'avanguardia direttrice sono perpetuamente giocati dall'accordo Buozzi - Olivetti. Mussolini, conscio ormai dell'impreparazione degli industriali, stronca repubblicanisimo tendenziale e propositi di reazione, sfrutta tutta la forza della sua tradizione di demagogia e si serve del fascismo come massa di manovra, per il suo arrivismo personale, per inserirsi nel processo collaborazionista. Le nostre previsioni si verificano matematicamente. Confederazione Generale del Lavoro e Partito Popolare salvano la pace e l'unità d'Italia e soffocano col legalitarismo tutte le nostre iniziative rivoluzionarie moderne, La classe industriale e operaia di Milano, Torino e Genova non avendo avuto il suo Cavour, cede le armi davanti a Nitti, diventato borbonico, rappresentante del parassitismo piccolo borghese e burocratico. La plutocrazia cede le sue posizioni avanzate adattandosi alla vecchia politica di ricatto. Torino è vinta ancora una volta dal mito unitario. Giolitti, mentre il giolittismo trionfa, avverte con un eroico sforzo di ripensamento la povertà del suo trasformismo e si ritira in sdegnoso esilio, apparentemente per ragioni parlamentari, in realtà per la dissoluzione del liberalismo che la sua politica ha prodotta senza affermare un principio di educazione economica e politica. I nemici di oggi sono uniti domani. Facta cade per una manovra antifascista, e i fascisti aderiscono alla manovra antifascista per avere in compenso il sabotaggio dell'Alleanza del Lavoro. L'eredità di Facta è difficile perché tutti a Montecitorio sono d'accordo: tutti infatti hanno rinunciato alle più specifiche differenze regionali di interessi e di psicologia. I partiti sono sconvolti dall'unanimità e si disgregano nelle questioni personali. L'economia italiana è assente in questa lotta di persone: se la plutocrazia al governo ha portato al dissesto della nostra finanza il socialismo non la potrà assestare perché della plutocrazia è complice e successore. Hanno inventato il fascismo per trovare un punto artificioso di contatto. Ma il fascismo è armai uno spauracchio per tenere a bada i comunisti: Mussolini sa che in Italia la Rivoluzione è un mito e aderisce al collaborazionismo accrescendo la confusione. La situazione si viene sempre più svelando nel suo carattere anti-liberale. L'interrotto processo di emigrazione dal Sud fa pesare in modo sempre più grave la catena ai piedi dell'Italia e non consente speranze immediate di redenzione. Il collaborazionismo è la fermata necessaria, un esame di coscienza che ci può costar caro, ma che oggi come oggi non è evitabile e che forse prepara per un'astuzia della storia la rivolta anti-riformista. Socialisti e popolari uniti sono il nuovo blocco delle democrazie, le classi medie educate e illuminate, che sentono la loro personalità politica nel voto parlamentare. Sono il numero che si sforza di diventare persona e incerti tra carità e giustizia s'appigliano alla politica della beneficenza e allo Stato consigliere, impresario e socializzatore. La lettera di Giolitti alla Tribuna indica forse le prime pregiudiziali antisocialiste che lo stesso padre del riformismo attuale sente il bisogno di suscitare. La Rivoluzione liberale sarà la conseguenza logica e l'antitesi storica della palingenesi collaborazionista. 26 luglio 1922. p.g.
|