GLI EROI CAPOVOLTI
Meglio cominciar dagli eroi, anzi che dalla plebe. Sullo sfondo grigiastro del popolaccio anonimo, il lampeggiare degli occhi, il luccichio degli elmi e delle corazze, il gioco elegante e perverso dei rasi trine sete velluti, i grandi gesti, le voci gonfie e le ombre enormi degli eroi impressionano e invitano. Questo corteo di gente urlante e gesticolante sul serio, malata di genio e di passioni come di tumori senza rimedio, armata di spade vere o avvolta in legittime toghe, mi concilia coi servi di scena, coro ignobile di maschere ladre e infingarde. Spesso, con l'aiuto di arti magiche non ignote ai filosofi, io mi diletto a farmi sfilare davanti agli occhi, lungo la parete che mi serve da palcoscenico, tutti i più strani eroi della terra e del tempo, senza temere, quando mi piaccia di conversare con loro e di accompagnarli per un tratto, mescolandomi al corteo. Fantastica parete, questa che mi sta di faccia, ostacolo opaco fra me e l'oriente: vastissima e d'un colore verde-celeste che ha riflessi d'acqua o di erba, male illuminata e popolata di grandi ritratti enigmatici e di paesaggi sorprendenti, mi sembra che discenda da settentrione e scivoli di continuo verso mezzogiorno, solo per caso attraversando la mia camera e prolungandosi poi all'infinito, fatalità implacabile eretta a dividere l'oriente dall'occidente. Per chi la sappia guardare, essa ha una varietà di aspetti che direi geografica, tante sono le persone che vi si muovono entro cornici dorate e i paesi che v'appaiono e spariscono, con lor valli e montagne e ampie distese verdi. Io immagino che viva e sia un aspetto misterioso e cosmico della natura, desiderosa di mostrarsi in breve spazio qual'è tutta, nella sua varietà infinita. Più di una volta, al passaggio d'eroi pallidi e febbricitanti o di filosofi magri e biechi, fratelli di Spinoza, mi sono lasciato vincere dalla mia stessa magia fino a seguirli fuori dell'alto silenzio della mia camera, nel loro viaggio metafisico. Le terre vedute e i cieli scoperti in quei viaggi sono ornai divenuti per me un ricordo di strani sogni e nulla più, né ora saprei ridire quanto ho visto o sognato. Ma spesso avviene che le apparizioni abbiamo voce e figura d'uomini vivi, quasi fossero di carne, e mostrino di avere in dispregio le qualità metafisiche delle ombre. Allora m'è facile riconoscerli per italiani e intrattenerli, risuscitando in loro le antiche passioni col parlar delle cose di casa nostra. Questi colloqui straordinari mi rimangono nella memoria col peso vivo delle parole, nè mi sarebbe impossibile dimenticarli. Poichè la natura degli eroi nostri è quanto di più umano si possa immaginare, e non ha nulla di comune con quella della razza che li ha generati. Sembrano fatti di pietra, in confronto dei consanguinei; e il passo di alcuni é pesante e pieno di fatalità come quello della statua del Commendatore. Li diresti nati da un popolo duro e cupo, nemico d'ogni leggerezza o vanità, iroso e corrucciato con tutti e con sé medesimo, disgustato di quest'obbligo di vivere, e dominato dal pensiero continuo della morte, se tu non sapessi che hanno lo stesso sangue delle maschere nostrane. Il che ti meraviglia e t'inorridisce, pensando che la madre di Vico poteva anch'essere quella di Pulcinella. Tanto che nel tuo amore per gli eroi nazionali finiresti con lo scoprire un principio d'avversione e di disprezzo per il popolo che li ha generati, cioè per il tuo popolo e per te medesimo, se non ti soccorresse il pensiero che la, miseria e indegnità dei molti sono condizione prima e indispensabile per la grandezza e degnità dei pochi; ciò che per noi italiani sembra essere legge assoluta. In quanto a me, l'essermi trovato, come ho detto, nella possibilità di avvicinare gli eroi nostri e di ragionare con loro, m'ha permesso di tenermi lontanissimo da ogni specie d'avversione o di disprezzo per il nostro popolo; (non dall'ira, si badi: ma in questa tutti sanno che l'amore ha gran parte). Poiché ho avuto modo, da quegli straordinari colloqui, di trarre la certezza che la miseria e indegnità nostre sono il segno tragico di una elezione divina, che ci fa miserabili perché da noi nascano uomini e cose grandi. E questa non è una maniera di consolazione, ma di superbia; come si vedrà. ***
Generalmente fra noi si ha l'abitudine di considerare i grandi uomini come la schietta e naturale espressione della nostra razza, eticamente d'accordo, non già contrari, con le virtù e i difetti del sangue comune. Lo stesso avviene per quegli avvenimenti, o imprese nelle quali agisce la volontà determinante degli uomini, non quella del destino. Dato il carattere popolaresco e sentimentale di questo ordinario modo di giudicare, non è meraviglia se in Italia abbondano, più che altrove, quegli "eroi" e quegli "uomini rappresentativi" che Carlyle e Emerson penarono a introdurre nella mentalità anglo-sassone, puritana e democratica, la quale è naturalmente avversa a qualunque specie di prevalenza, anche postuma e filosofica. Però, se nei paesi anglosassoni, paesi senza Dio e senza tragedie dove nessuna forma di mito è accettata o capita, gli "eroi" son tenuti in considerazione di gente fuor dalla legge comune, degna di rispettosa indifferenza ma non d'entusiasmo, da noi godono invece la stima e l'ammirazione di tutti, essendo naturale negli italiani la tendenza a onorare negli altri quelle virtù, e spesso quei vizi, che essi pure credono di possedere. In quest'ammirazione del popolo nostro per gli eroi nazionali sarebbe vano, perciò, voler trovare qualunque specie di buone maniere e di riguardosa sottomissione, perché nessun italiano si sente inferiore agli idoli propri e tutti sono d'accordo nel trattarli da persone di famiglia, nate sotto lo stesso tetto e nutrite alla stessa tavola. C'è molta aria domestica e molta ostentazione di parentela nell'entusiasmo nostro per i grandi concittadini, come v'è molto orgoglio ferito e amore offeso nella nostra matta furia contro di loro: quasi direi che in ogni grande italiano cacciato in esilio o portato in trionfo c'è sempre la stoffa di un figliol prodigo. Il tempo sa poi rimediare a tutto, in questi nostri odii famigliari; ciò che non avviene mai, per esempio, fra gli anglosassoni, i quali non si sanno ancora dar pace di Shakespeare e non si pentiranno mai d'aver lapidato Oscar Wilde. Poiché nel furore popolare contro certi eroi nostri non v'è mai odio di razza o di religione, come nel furore puritano contro Wilde, irlandese, ma la passione del sangue, e nell'entusiasmo v'è sempre la compiacenza di chi si crede e si sente "rappresentato". Ma, in realtà, l'ufficio degli eroi è ben diverso e più tragico. Essi non rappresentano le virtù o i difetti di un popolo, ma quei difetti e quelle virtù che questo popolo non possiede; non affermano, ma negano; sono l'espressione contraria, di un popolo, eccezione e non regola; essi sono in contraddizione, non d'accordo, con la razza dalla quale sono nati. Il compito di "rappresentare" è dato ai mediocri, non ai geni, Vincenzo Monti è più italiano di Dante o di Leopardi, Boileau più francese di Pascal o di Descartes, Swinburne più inglese di Shakespeare o di Shelley, Hauptmann è piú tedesco di Goethe o di Wagner. I geni di un popolo sono la prova di ciò che questo popolo non è. Pietro il Grande è la prova dell'incapacità a fare del popolo russo, non perché egli stessa non abbia agito, ma appunto perché ha agito. Napoleone prova che il popolo italiano non ha genialità nè attitudini militari; Pascal, che il francese non è un popolo mistico e tormentato; Spinoza, che gli ebrei hanno nessuna originalità creatrice. Gli esempi di quanto dico abbondano in ogni nazione, nè mi sembra necessario insistervi; tanto più che mi preme restare nel cerchio delle cose nostre, per non correre il rischio di giudicar gli italiani alla stregua dei barbari. Spesso i così detti "uomini rappresentativi" altro non sono se non una reazione allo spirito della razza o del secolo; il che appare chiarissimo specialmente fra noi, a cominciare da Dante, il quale è da considerarsi come il primo, implacabile nemico del comune spirito italiano, allora sorgente. Gli altri grandissimi, che vennero dopo lui, non fecero se non continuare e inacerbire il contrasto e l'avversione. Non bisogna dimenticare, come è stato fatto a proposito dell'ultima commemorazione, che Dante reagisce allo spirito nazionale, non lo rappresenta: di fronte allo sgretolamento, al provincialismo, alle manifestazioni più varie e più basse della meschinità e della ristrettezza del secolo, egli riafferma la grandezza e la vastità dei principi eterni, rimette in luce gli eterni valori della vita e, in difesa della continuità tradizionale di sé e della sua cultura, rinnega quel che di contingente, di provvisorio e di incerto è nello spirito del suo tempo. Personaggio importuno, mal compreso e male a posto nel dramma del suo popolo, Dante si urta e si batte con gli altri mimi e, cacciato a furia dal coro, plebe "oppidana" che non ha inquietudini di nazione ma soltanto furori di sangue, parte pel gran viaggio, alla ricerca del suo dramma e della sua razza. Eroe pieno di aspirazioni e di tormenti, disgustato della sua gente ma fiero della sua terra, egli è così il primo personaggio del vero dramma italiano, antico e moderno, che mette gli eroi senza razza a fronte del coro senza patria; contrasto inconciliabile fino a tanto che l'avversione e il disgusto degli eroi non si mutino, per il popolo, in sofferenza e in sottomissione. Questo è il dramma, torbido e feroce, che la violenza e la tenacia delle passioni in contrasto fanno continuo e storicissimo, e che l'attenzione interessata dei barbari aizza e prolunga. Poiché se si volesse considerare la storia dello spirito italiano come il prodotto di una conciliazione avvenuta, nell'oscurità del medioevo, tra il popolo e gli eroi o di un pacifico predominio di questi su quello, se si volesse giudicarla, cioè, secondo il concetto della rappresentazione e non della reazione, tutte le nostre vicende non avrebbero significato e il tormento di cui tutti i grandi italiani hanno sofferto e delirato saprebbe di finzione e di maschera. Se questo fosse il criterio, Dante medesimo, con la sua grandissima ira e il suo doloroso amore, apparirebbe ridotto alla statura di un qualunque uomo di parte, "florentinus natione et moribus", né si saprebbe vedere dove in lui finisca il fiorentino e cominci l'italiano, o dove il ghibellino diventi cattolico. Ciò che mi sembra indispensabile vedere chiaramente per poter giudicare di Dante e del suo popolo. ***
E non solo di Dante, ma di tutti i condottieri e asceti, navigatori e sommovitori di plebe, poeti e filosofi, scopritori di cieli e donatori di regni, che hanno seguitato in ogni tempo la lotta intrapresa da lui contro il comune spirito nazionale. Troppo lungo sarebbe parlare di ognuno di questi grandi, nei quali l'amore fu pari al disgusto e l'ingegno grande e turbinoso come le passioni. Né mi sembra necessario addurre esempi nuovi a riprova di un fatto chiarissimo, qual'é senza dubbio l'inimicizia, direi quasi di razza, che animava quei grandi contro il popolo dal quale erano nati. Mi basta, prima di soffermarmi su l'ultimo eroe nostro, nemico dello spirito della sua gente e del suo secolo, ricordare la simpatia che Machiavelli aveva pel Valentino, da lui creduto unico fra tanti tiranni e appunto per la sua crudeltà senza pari e le sue nefandezze, capace di affrontare la lotta e di combatterla sino in fondo e con tutte le armi, cioè fino alla liberazione e alla sottomissione degli italiani, principi e plebe. Il che dimostra, fra l'altro, come il gran fiorentino, con quell'asciuttezza di cuore e durezza di volontà che in certi toscani danno a vedere l'origine etrusca, intendesse l'amore dovuto ai consanguinei e come, secondo lui, bisognasse agire verso loro per operare il bene d'Italia. Questo che ho detto di Machiavelli e del Duca non vuol essere un inutile richiamo storico, a riprova di un fatto manifesto ad ognuno, ma vuol sopratutto mostrare quanto nel trattar delle cose nostre sia facile, anche alle intelligenze più sperimentate, confondere gli eroi con i tiranni. Poiché tutti i grandi uomini nostri han molto che assomiglia al tirannico, specie in quel loro spietato amore per l'Italia che li spinge in guerra contro il comune spirito, sempre insofferente e contrario a ogni forma di vera grandezza nazionale. Ciò prova come il furor popolare agisca saggiamente scagliandosi contro di loro: è questo un istinto di difesa delicatissimo in noi, che dei tiranni abbiamo 1'insofferenza nel sangue. Tanto più che non di stranieri si tratta, ma di tiranni domestici, con i quali, come ho detto in principio, ogni italiano si sente imparentato e perciò mal disposto a venire a patti, essendo più facile a tutti noi di sopportare gli insulti degli stranieri che dei famigliari. Questo, si badi, non contraddice al già detto, poiché sa ognuno che noi, pure odiandoli, ammiriamo i tiranni e gli eroi del nostro sangue: c'è molto orgoglio ferito e amore offeso, ripeto, nella nostra matta furia contro di loro. ***
Qui, dopo aver parlato del primo nemico degli italiani, non mi sembra fuor dì luogo parlare dell'ultimo, e cioè di Garibaldi, soprattutto per mostrare quanto v'è di fatalità in questa nostra ininterrotta tradizione. Che il parlarne sia eccessivamente opportuno non credo, tenuto conto della maniera romantica oggi in uso fra noi nel giudicare i grandi dell'ultimo secolo. Ma senza pretendere di voler precorrere i tempi, nei quali il nostro modo tradizionale di pesare schiettamente i fatti avrà ripreso il sopravvento sul modo retorico di questi ultimi anni, mi sembra che il mostrare fin d'ora semplicità di giudizio non debba essere riprovevole. Tutto sta in non parlar male di Garibaldi. Del quale è facile riconoscere che tutta la sua vita, tutte le sue imprese, tutti gli avvenimenti che su lui s'imperniano, sono stati una continua lotta contro gli italiani suoi contemporanei, la continua negazione, nei fatti, del loro spirito. Calatafimi è un urlo, Mentana è un'ingiuria, Caprera è una protesta, l'ultima. Ma qui m'è necessario andar cauto per non attribuire al vincitore di Bezzecca un continuità logica, ch'egli non ebbe, e non confonderlo col pallido e sdegnoso Genovese, apostolo della lotta nascosta contro, la maggioranza degli italiani, avversa all'unità e all'indipendenza, non della guerra aperta contro i barbari. Poiché non bisogna dimenticare che Garibaldi, eroe decadente, è una specie di tiranno romantico e democratico, riguardoso e di cuor debole, col quale la bontà e la pietà, interrompendo la bella tradizione tirannica degli eroi aristocratici, spietati e senza riguardi, italiani fino all'odio per gli stessi italiani, entrano da maestre nella storia delle nostre contese. In maniera che la ragione del disprezzo di Mazzini per Garibaldi e del dissidio nato fra loro, è da ricercarsi soprattutto nella tenace e tradizionale avversione del primo per i consanguinei, ch'egli considerava alleati degli stranieri e indegni di compassione, e nella tendenza singolarissima in Garibaldi a lasciarsi impietosire e addomesticare dalla retorica, dagli applausi e dall'entusiasmo del popolo. Questo raffronto è di grandissimo aiuto per capire lo spirito di decadenza del Nizzardo e la ragione delle sue imprese, del loro successo e degenerazione attuale. Poiché, visti contro luce, Mazzini e Garibaldi perdono molto del loro aspetto di dioscuri: in Castore ti appare così il difensore della tradizione aristocratica, il restauratore della legge, nemico dei famigliari piuttosto che degli stranieri e preoccupato sopratutto di svegliare gli italiani per poter fare la guerra ai barbari, e in Polluce tu vedi il violatore della legge, tirannello democratico che non sa capire e continuare la tradizione, specie di eroe popolaresco avverso a' suoi senza saperlo, preoccupato di far la guerra agli stranieri per poter svegliare gli italiani e incapace di vedere nel suo successo la peggiore condanna dello spirito nazionale; del quale egli non si credeva nemico, ma "uomo rappresentativo". T'appaiono, cioè, l'uno contrario all'altro, sebbene fratelli: il che rientra nella tradizione e giustifica storicamente le ire e le ingiurie. Il volerli riconciliare nè allora sarebbe stato nè oggi è possibile, perchè ciò presuppone l'esistenza di uno spirito nazionale imposto dagli eroi e accettato dal popolo, cioè il raggiungimento di un equilibrio ancora lontanissimo. Soltanto Cavour avrebbe potuto riconciliarli, non asservendoli però ed eliminandoli in parte, come ha fatto: il che, senza dubbio, è ancora ragione dì rimpianti a quelli fra noi che vorrebbero il dramma chiuso da tempo e gli eroi finiti, per non vederli un giorno o l'altro risorgere. Ma il dramma continua, per fortuna, e minaccia di risuscitare, fra breve, gli stessi morti. Qui, però, mi preme ragionare di quel che è avvenuto e non di quello che avverrà, bastandomi per ora l'ufficio di storico e rimandando a più tardi quello di profeta. Tanto più che non bisogna lasciare, a chi l'ha, l'illusione che Garibaldi sia stato un "uomo rappresentativo" e non un nostro nemico. Si badi, dunque, a ciò che egli ha fatto. Quasi solo, seguito da pochi, egli ha agito contro l'Italia fuori delle abitudini quietiste e senza gloria degli italiani di allora, (e perché soltanto di allora, sia detto senza maligna intenzione di raffronto?) vilissimi e malfidi, borbonici e non garibaldini. Se Garibaldi fosse stato un "uomo rappresentativo", che è quanto dire un mediocre, se avesse cioè realmente incarnato lo spirito del suo popolo e del suo tempo, avrebbe senza dubbio continuato ad essere, dopo le prime disillusioni, un bravo e onesto emigrante fuoruscito per ragioni romantiche (allora la politica, in molti, era soprattutto un riflesso del romanticismo in voga) e a fabbricare candele steariche; sarebbe tutt'al più un buon "fazendero" come ve n'erano e ve ne sono a migliaia fra gli italiani dell'America Latina. Il suo ritorno in Italia sarebbe stato quello di un emigrante arricchito, non già quel che lo condusse al Vascello, alla Repubblica Romana, alla tragica pineta di Ravenna. "Chi non ha paura di soffrire, mi segua". Dette a un popolo che si dà vanto di non voler soffrire, queste parole sono una dichiarazione d'inimicizia, rimprovero e condanna al tempo stesso; sono un elogio dei pochi, degli sbandati, dei senzafamiglia, dei magnifici pazzi e dei santi avventurieri che lo seguivano da anni attraverso tutta l'Italia, laceri e affamati, invincibili e perseguitati, alla ricerca di una razza e di una patria. Certo, non sono un elogio degli italiani. "Bisognerebbe aiutare gli austriaci a bastonare questa gentaglia"; ruggiva Bixio, questo capitano di ventura del cinquecento, nato in ritardo. Ma Garibaldi, eroe decadente e umanitario, ammalato di retorica e di compassione, tirannello democratico figlio del popolo, era incapace d'ira spietata e tirannica e si lasciava addomesticare dagli applausi della folla, che vedeva in lui il buon nemico senza rancori e sentiva di poterlo vincere non a bastonate, ma con la coreografia dell'entusiasmo. Questa sua mansuetudine piena d'amore m'ha l'aria di una istintiva riconoscenza. Poiché la storia del nostro ultimo secolo non ha nulla di più paradossale del fatto che Garibaldi non sia finito, a Marsala, come Pisacane a Sapri, trucidato dagli italiani normali di allora, e che Mentana non si sia risolta in un'altra Villa Glori, dove i buoni latini del Lazio moderno s'accanirono sui moribondi dopo che gli svizzeri, a baionettate, avevano fatto rientrare i fratelli Cairoli nella dolorosa realtà della storia. Io non intendo di giustificare, ma di chiarire; stimando cosa impossibile 'il voler stabilire oggi se Garibaldi, naturalmente nemico del comune spirito nazionale appunto per le sue qualità contrarie a quelle della razza, avrebbe potuto o no continuare la bella tradizione tirannica degli eroi, fieri a cavallo e soli, combattenti disperati e traditi, e giungere a creare questa Italia potente e delicata pur senza cercar di riconciliare gli eroi col popolo, cioè d'umiliarli, annegandoli, nel gran battimani assolutore. Tanto più che la storia sembra avergli dato ragione, con quelle logiche conseguenze, a tutti manifeste, delle quali ormai non possiamo se non consolarci col pensiero della loro inevitabile attualità. Ma il voler chiarire, nelle mie intenzioni, non ha bisogno d'altra consolazione all'infuori di quella che mi viene dal fatto, che Garibaldi è stato senza dubbio il primo a scendere da cavallo e ad umiliarsi. Poiché si badi, quella ch'egli credeva, un'incoronazione per mano di popolo, non è stata poi se non una spoliazione accortissima e sommamente politica, una specie di burla perfida e sapiente della quale soltanto la plebe è capace, e solo a danno dei re buoni. Tutto, anche la spada, gli fu tolto, in cambio d'una corona di latta. Psoi, senza artigli, senz'armi, pettinato e infiocchettato, impugnando a guisa di scettro la stessa canna che a Luigi il Decollato, l'ultimo dei Capeti, era stata messa in mano per ispregio in una sala del Castello di Versaglia, fu portato in trionfo, unto ed acclamato re da tutto un popolo in delirio. Visto cosi, nella gazzarra, alto sulle spalle dei facchini e dei plebei negatori d'Italia, baciato dagli uccisori di Pisacane e dagli ultimi borbonici, salutato a gran voce dai codini di Leopoldo, coperto di fiori da quello stesso popolino che, dopo le cinque giornate milanesi, era andato incontro a Radetzki umiliandosi e implorando ("sem minga sta num, in sta 'i sciuri") egli doveva aver l'aria di un re di Piedigrotta. Pietosa decadenza, questa d'un eroe che aveva creduto di perdonare ed era stato perdonato; non degna certo di chi s'era, come lui, trovato solo più d'una volta, tradito e rinnegato dal suo popolo ancora prima che il gallo cantasse. L'essere divenuto materia di canzonette e di discorsi, pretesto a cortei e a bicchierate, l'essere stato digerito in modo così liscio dal gran ventre plebeo, mostra ch'egli non era d'ossa dure e non apparteneva a quella razza sdegnosa di tiranni, dei quali il nostro popolo commemora le imprese con una cautela rispettosa e diffidente che sa di soggezione e di paura, ed evita di parlare per non averne ancora a temere. La tradizione degli eroi è finita, e male, con Garibaldi. Che il loro spirito sia morto non sembra, sebbene oggi non si possano far nomi e ricordare imprese. Poiché la missione storica degli eroi, tragica e necessaria, dolorosissima, di antitesi e d'inimicizia verso il comune spirito nazionale, sembra piuttosto esser passata da tempo agli avvenimenti. Ma qui entra in gioco la fatalità, dicono, gli italiani "liberi e uni", quelli di Custoza e di Lissa, d'Adua e di Caporetto: questa fatalità vuol essere tenuta in conto di scusa e di giustificazione, perché gli italiani son tutti in quei nomi, nè altri ve ne sono da poter incolpare. C. E. SUCKERT
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