Era debito nostro di onestà culturale tener conto dal punto di vista dei comunisti sul problema del fascismo. Non avendo essi partecipato all'inchiesta proposta dal Mondolfo, avremmo dovuto risalire ai dispersi articoli di A. Gramsci, di P. Togliatti, di A. Bordiga, ecc. Abbiamo preferito rivolgerci al nostro amico A. Viglongo, redattore dell' Ordine Nuovo, che ha scritto per noi gli appunti di un saggio che sarà presto ampliato e rielaborato. Eccone la prima parte, che spiega anche un poco come questo punto di vista teorico non abbia avuto tutta la sua fecondità pratica (e questa è la sua debolezza e la sua critica immanente nella lotta politica).




APPUNTI DI UN COMUNISTA

I.

    I comunisti considerano il fascismo nè come un particolare fenomeno della crisi italiana del dopo guerra nè come degenerazione di un movimento politico: entrambi questi errori di valutazione sono da attribuirsi ai socialisti, il primo a quelli di destra, il secondo ai cosiddetti massimalisti che hanno l'aspetto di prevalere nel Partito. Non è sfuggita ad alcuno la preoccupazione di Turati e degli altri riformisti di svalorizzare la portata rivoluzionaria e di classe del fenomeno fascista, riducendolo ad una pura e semplice manifestazione di quella psicologia di irresponsabilità e di violenza creata da quattro anni di guerra. Per i riformisti italiani non esiste differenza sostanziale tra la violenza antiproletaria dei fascisti e la violenza, almeno verbale, degli operai e dei contadini nell'illusione massimalista dei primi anni dopo l'armistizio. Questo punto di vista non è accettato dai socialisti di sinistra i quali compiono però un errore logicamente e storicamente assai più grave quando dimostrano di ritenere il fascismo un movimento "politico"(e nel senso che i socialisti massimalisti italiani dànno a questo termine, un Partito organicamente costituito, su basi democratiche, con un potere centrale responsabile e delle direttive generali e delle azioni di tutti gli organismi, anche periferici del Partito. Tale errore gravissimo di valutazione ha portato i dirigenti massimalisti del Partito socialista alla firma di quel patto di pacificazione risoltosi soltanto in una beffa dei contraenti socialisti, i quali avevano creduto, nella infinita loro ingenuità, di liberarsi a buon mercato da un terribile movimento di reazione con un semplice impegno sottoscritto da Mussolini e dal gruppo parlamentare fascista!





    Per i comunisti il valore sostanziale del fenomeno fascista (la forma, il movimento di Partito, le manifestazioni esteriori non sono trascurate, ma valutate subordinatamente e sempre in quanto espressione di quell'azione diretta antiproletaria, che analizzeremo in seguito) è quello di essere un movimento di difesa di classe della borghesia, il primo episodio di seria reazione alla lotta per l'instaurazione del potere politico proletario.

    I comunisti non possono limitarsi ad un esame di carattere storico generale e teorico del movimento fascista: essi si ritengono, in quanto Partito, l'organo specifico di lotta dall'avanguardia rivoluzionaria del proletariato italiano, e per questa loro posizione di dirigenti della massa operaia - non spettatrice; semplice, ma attrice nella battaglia in cui i fascisti rappresentano l'esercito aggressore - i comunisti debbono trarre dall'esperienza della situazione anche insegnamenti tattici per utili applicazioni nell'azione ventura.

    Ma anche avendo del fascismo una visione generale, anche inquadrandolo in tutto il vasto quadro della lotta tra le classi, anzi appunto per questo, i comunisti non possono ridursi di fronte ad un fenomeno di tanta importanza a considerazioni di carattere puramente teorico sulla violenza, od a formulare qualche ricetta da spacciare per infallibile ai contadini della bassa padana, della Toscana o del Veneto, riducendosi all'empirismo demagogico dei funzionari socialisti.

II.

    Sarebbe puerile il credere che la situazione creatasi nella vasta zona agricola che si estende da Vercelli ad Udine, da Mortara a Grosseto, da Roma ad Arezzo a Bologna; tutta l'Italia agricola quasi, debba essere esclusivamente attribuita a degli sgherri pagati dalle associazioni padronali agrarie per colpire i dirigenti delle organizzazioni operaie e la saldezza delle organizzazioni stesse.

    Esaminiamo particolarmente il caso dell'Emilia.

    La situazione emiliana non sarebbe così grave, ne meriterebbe tanta attenzione da parte nostra, se davvero consistesse soltanto in una forma offensiva adottata dai capitalisti contro gli uomini più in vista del movimento operaio, come avviene tipicamente in Sicilia.

    Il fascismo ha colpito nel bolognese e nel ferrarese le organizzazioni, perché queste mancavano di reale consistenza, perché ha trovato per la sua azione distruggitrice una certa rispondenza in parte della stessa massa organizzata.





    Non è il caso di insistere su certi episodi di intere leghe contadine rosse, passate senz'altro al fascismo - fenomeno questo che risale a moltissimi mesi prima della creazione dì un regolare movimento corporativo a fianco del Partito Nazionale Fascista, e per questo appunto di maggior valore, sintomatico - o di accettare a priori come spontanei moltissimi atti compiuti invece sotto la minaccia delle più spaventate violenze. E' indubbio però che crisi di defezione vi furono e che comunque l'uso della violenza da parte dei fascisti non distrugge completamente la base delle mie osservazioni. Se l'organizzazione socialista fosse stata veramente una forza alla violenza fascista avrebbe opposto se non violenza per lo meno resistenza.

    Da qualche anno in Emilia - specie per i lavoratori della terra - i sindacati avevano persa la loro più bella caratteristica, quella cioè di essere organizzazioni volontarie.

    Da una parte, in seguito a lotte fortunate, si era imposto agli stessi proprietari di ritenere obbligatoriamente le quote sindacali a tutti i dipendenti, dall'altra coi boicottaggi ed altre misure di rappresaglia contro i disorganizzati, si obbligavano questi ultimi ad entrare poco a poco nelle organizzazioni. Quale contributo attivo potevano portare costoro allo sviluppo concreto, non soltanto numerico, dei sindacati? Essi si organizzavano per terrore e non per convinzione; è naturale che in simili condizioni essi dovessero considerare l'organizzazione e gli organizzatori come forme dittatoriali e brutalmente autoritarie. Ma contro esse non avevano forze sufficienti per reagire e difendersi.

    Appena contro le organizzazioni si è scatenata la furia fascista, la massa, causa la sua eterogeneità non corretta neppure da una saldezza degli organismi dirigenti, si è sbandata, precipitando la situazione. Così avvenne nelle campagne bolognesi e ferraresi e non altrimenti nelle stesse città. L'organizzazione era accentrata nella persona o nel piccolissimo gruppo di dirigenti. E' bastato colpire pochi individui per portare lo sconquasso nei sindacati e, quel che è peggio, senza provocare una seria reazione nella massa senza che da essa spontaneamente sorgessero forme e forze nuove connettive e dirigenti. Perché l'organizzazione ampliandosi nel modo colossale e burocratico degli ultimi tempi, diventando soltanto più un ufficio centrale amministrativo mastodontico aveva perso ogni contatto con la massa, al punto che questa non la considerava più arma e frutto della sua fede.





    L'organizzazione aveva lentamente acquistato tutti i caratteri di una forma politica, di uno Stato. I sindacati locali boicottando i disorganizzati (considerati come renitenti alle contribuzioni finanziarie imposte dallo Stato), colpendo con taglie chi contravvenisse alle norme stabilite dall'organizzazione (leggi e decreti), imponendo tassi e norme per gli scambi ed il consumo (come per il vino), e avevano gradatamente acquistato tutti i caratteri di una organizzazione statale: si era venuto sostituendo un vero e proprio Stato nello Stato.

    La forma del "potere" dei sindacati era quella più assolutamente, più bestialmente, dispotica. Il "potere" era accentrato nella persona del dirigente, senza che neppure la massa esercitasse un'opera di controllo, senza che attivamente in alcun modo al "potere" della "sua" organizzazione partecipasse.

    Tutto questo non era neppure dovuto alla volontà dei dirigenti, ma ad un andazzo di cose la cui ragione era forse appunto da ricercare nella mancanza di spontaneità nell'organizzazione per cui si lasciava ai funzionari -considerati già come rappresentanti di un lontano e sconosciuto "potere" centrale ch'essi sentivano soltanto senza conoscere e senza neppure desiderare di conoscere - ogni cura dell'organizzazione, ridotta così ad un semplice "ufficio".

III.

    Come potè cadere, in si breve tempo ed in modo tanto disastroso l'edificio costruito in lunghi anni di incontrastato potere socialista nella zona emiliana? Vi contribuirono indubbiamente: la mancanza di omogeneità di molte leghe le lotte che per molti anni divisero tra di loro le maggiori categorie di lavoratori della terra (la lotta delle organizzazioni dei braccianti agricoli contro la mezzadria in Emilia e Romagna è cosa importante da meritare da sola uno studio tanto ampio da comprendere più volumi), l'inettitudine dei capi, l'insensibilità di classe dovuta a vari anni di incontrastato potere, ecc. Ma la ragione vera, l'essenziale, che spiega non soltanto quel fenomeno ma la cui conoscenza è indispensabile per comprendere tutti gi sviluppi della lotta di classe in Italia fino ad oggi è l'assoluta mancanza di una coscienza storica, di un programma politico, di un qualsiasi fine, nell'azione del Partito Socialista e dei vari organismi sottoposti alla sua influenza.

    Ma questa parte sarà oggetto di più ampio esame in un prossimo articolo.


ANDREA VIGLONGO