CAILLAUX
Giuseppe Caillaux, deputato, ministro, Presidente del Consiglio, finanziere, accusato davanti all'Alta Corte di giustizia, è una delle figure più notevoli della Francia contemporanea. Contro di lui si è scatenata, da anni, la furia delle passioni partigiane. Durante la guerra, si udirono al suo indirizzo accuse disonorevoli. Poi fu arrestato, rinchiuso in carcere tra assassini e malfattori comuni, sorvegliato continuamente, sottoposto alla più torturante e umiliante inquisizione. Il suo nome fu avvicinato a quelli di Bolo pascià e di Lenoir, entrambi affidati al carnefice come rei di commercio con il nemico. Fu condannato, alfine, dal Senato riunito in Alta Corte, mercè uno stratagemma dell'ultima ora, di cui è sempre dubbia la legalità. Questa lunga e dolorosa avventura è narrata dallo stesso Caillaux, in un volume di recente pubblicazione: Mes prisons (1), nel quale le accuse che formarono oggetto della duplice istruttoria e del pubblico giudizio, sono accuratamente esaminate e confutate. L'opposizione a Giuseppe Caillaux non si è manifestata, in Francia, nelle sue forme più acute, solo dopo l'inizio della guerra mondiale. Essa rimonta a molti anni prima, e, secondo l'autore di queste note autobiografiche, fu determinata dalla politica finanziaria da lui svolta, quando teneva l'ufficio di ministro, rigidamente avversa alle illecite speculazioni ed intesa ad accrescere le imposte sulle classi ricche. Nel 1911, Caillaux era Presidente del Consiglio, quando scoppiò il più acuto dei ricorrenti conflitti franco-tedeschi, che preludevano all'inevitabile scoppio delle ostilità. Egli si mostrò subito favorevole ad una politica conciliativa; e s'oppose alla proposta del ministrro per gli affari esteri, De Selves, che voleva inviare nelle acque marocchine una nave da guerra francese, in risposta all'invio di una cannoniera tedesca ad Agadir, già effettuato dal governo di Berlino. Caillaux afferma che persistette in questo atteggiamento pacificatore: e quando s'avvide che De Selves, ch'egli aveva chiamato al Quai d'Orsay per consiglio di Clemenceau, intendeva adottare una politica aggressiva, che avrebbe sboccato ben tosto alla guerra, egli, Caillaux, intervenne decisamente nella contesa e, con l'autorità di capo del Governo, iniziò trattative dirette con Berlino, che portarono all'accordo del 4 novembre 1911, in virtù del quale parte del Congo francese fu ceduto alla Germania, il cui Governo s'adattò finalmente, a riconoscere i diritti francesi sul Marocco. A Berlino l'accordo fu accolto a malincuore dai pangermanisti: ognuno ricorderà gli applausi che lo stesso Kronprinz tributò all'oratore che espose vivacemente le critiche dei tedesco-nazionali, dalla tribuna del Reichstag. Con non minore avversione fu giudicato dai nazionalisti francesi: e Clemenceau, allora presidente della commissione per gli affari esteri del Senato, in una memorabile discussione, investì il presidente del consiglio, che fu costretto a dimettersi. L'accordo franco-germanico fu bensì approvato dalle due Camere: ma, da allora, si notò in Francia un risveglio di passioni, di cui il nuovo Presidente del consiglio, Poincarè, fu la manifesta espressione. Contro Caillaux continuarono gli attacchi: e la campagna assunse forme di eccezionale asprezza, quando, nei primi mesi del 1914, egli tornò al potere, in qualità di ministro delle finanze. L'opposizione scatenatasi contro la sua persona, Caillaux crede fosse originata dalla fermezza della sua politica finanziaria, dalla precisione dei suoi obiettivi pacifici e dall'aver egli, più volte, osteggiato oscuri maneggi borsistici. Egli narra che si oppose nel 1910 a che fossero ammessi alla quotazione di Borsa certi valori stranieri, contrariamente alla legge. Si oppose più tardi a un tentativo illecito da parte di un consorzio, detto della N'Goko Sangha. S'oppose a un tentativo fatto nel 1911 dal Figaro, quando questo giornale suggerì l'ammissione di valori tedeschi alla quotazione della borsa di Parigi. È questo giornale, diretto da Calmette, che nel 1914 combatte Caillaux nel modo più violento: l'ex-ministro mostra di dubitare che gli attacchi non dispiacessero allo stesso Presidente della Repubblica, Poincarè, giacché certe espressioni che il Presidente usò in privati colloqui, si ritrovarono negli articoli del Figaro. Quanto alle fonti cui attingeva il giornale avversario, Caillaux afferma che, molti anni or sono, la Dresdner Bank potè introdurre persona di sua fiducia nel gabinetto direttoriale del Figaro: nel 1911, altro governo straniero, che aveva motivo di disaccordo con la Francia e che momentaneamente si trovò nell'orbita della politica tedesca (la Spagna?), potè influenzare le direttive del Figaro: nel 1913, questo giornale accettò una sovvenzione dal conte Tisza, Primo ministro d'Ungheria, per sostenere la politica triplicista, che il partito dell'indipendenza ungherese combatteva. Caillaux presume che, se fosse rimasto al potere nel 1914, avrebbe forse potuto rifare la politica conciliatrice del 1911, risolvere le difficoltà internazionali, transigere, guadagnare del tempo: ed egli soggiunge che i partigiani della guerra sapevano che il tempo avrebbe lavorato contro le loro speranze. Ma il desiderio dei nazionalisti francesi, allora, era quello medesimo dei pangermanisti. Contro il ministro radicale furono moltiplicati gli attacchi: uno scandalo fu minacciato: la signora Caillaux, al colmo dello sdegno, avvicinò il direttore del Figaro, e lo uccise; sicché l'uomo politico fu costretto a ritirarsi dal governo. In tal modo il capo del partito radicale fu messo nell'impossibilità di aver qualunque influenza sugli avvenimenti che maturavano: e come la mano assassina del Vilain, armata dai rancori del nazionalismo, s'avventò su Giovanni Jaurès alla vigilia della guerra, così si pensò di uccidere, in quel giorno medesimo, Giuseppe Caillaux. Secondo quanto il ministro Viviani disse a Caillaux, l'uccisore del tribuno socialista cercò invano, per due giorni intieri, l'odiatissimo capo dei radicali, per sopprimere anche quella voce molesta. Ma poiché questi non potè essere ucciso, gli avversari cercarono di raggiungere lo stesso risultato per altre vie insidiose: questo pensa Caillaux. Non appena incomincia la guerra, i partiti francesi trovarono opportuno di momentaneamente riconciliarsi, in nome della sacra unione. Solo Caillaux fu messo al bando e contro di lui non cessarono attacchi ed ingiurie. Si diffondevano voci strane ed assurde: ch'egli, ancora nel 1914, volesse por fine alla guerra, a qualunque costo, e stringere alleanza con la Germania ai danni dell'Inghilterra: che obliqui rapporti fossero intercorsi tra lui ed emissari stranieri. A più riprese il suo nome fu fatto come quello di un nemico della patria, di un irreconciliabile avversario dell'Inghilterra, tanto che i giornali austriaci e tedeschi poterono impadronirsi di questa leggenda e consolidare lo spirito interno di resistenza, affermando che correnti pacifiste stavano per prevalere nei paesi nemici, e che assertore autorevole di questa politica di timidezza e di rinuncia era anche l'antico capo del governo francese. I nazionalisti, raggruppati intorno all'Action Française, che pure non cessarono di complottare contro la stabilità della Repubblica, furono i più implacabili accusatori di Caillaux. Per un singolare fenomeno, per l'amore della critica e dell'opposizione, per il rimpianto di essere tenuto lontano dal governo, Clemenceau aveva assunto atteggiamenti paralleli a quelli tradizionali agli uomini del nazionalismo monarchico. Il giornale di Clemenceau pubblicava attacchi fierissimi contro i governanti e la fiacchezza dell'azione politica e militare: critiche che poi venivano sistematicamente riprodotte dalla Gazette des Ardennes, il quotidiano edito dai tedeschi nei territori francesi occupati, di cui, in questo modo, Clemenceau poteva essere considerato il più prezioso collaboratore. Nel 1917 la crisi morale andò manifestandosi dovunque, fra i popoli belligeranti: la rivoluzione russa, l'insuccesso dell'offensiva francese e lo sfondamento del fronte italiano, avevano acuito il disagio e la trepidazione nei paesi alleati. Caillaux, fin dal 1915, riconosce di aver pensato alla possibilità di pervenire alla pace: con tanta maggior consapevolezza e fervore vi pensava nel 1917. A suo giudizio, dopo la vittoria della Marna, dopo che il piano austro-tedesco di una rapida definizione della guerra era fallito, la Francia poteva accingersi a trattare onorevolmente la pace: nel 1917 le condizioni dei due gruppi belligeranti permettevano nondimeno di addivenire alla fine della guerra, giacché la rivoluzione russa costituiva un pericolo anche per la saldezza interna dei paesi avversari e l'adesione dell'America all'Intesa assicurava un potente contributo alla causa della Francia. Le vittorie memorabili della Marna e di Verdun assicuravano ormai all'esercito francese un'aureola gloriosa, cosicché la Repubblica poteva decidersi ad interrompere la terribile lotta. "Non sarebbe stata certamente la pace di annientamento degli Imperi centrali che si ebbe nel 1918 - avverte Caillaux - ma se si fa il bilancio delle ipotesi e delle realtà, se si esaminano le cose, escludendo la passione e con la preoccupazione degli interessi del nostro paese, è necessario constatare che la pace, dopo la Marna e l'Yser, avrebbe assicurato l'egemonia, l'egemonia morale s'intende, alla sola nazione allora vittoriosa: alla Francia". Ma il desiderio di Caillaux appare manchevole e poco convincente, quando egli soggiunge che, qualora in quell'epoca fosse stato al Governo, in nessun caso avrebbe acconsentito alla pace senza il ritorno alla Francia dell'Alsazia e della Lorena: è mai possibile credere che, nel 1915 e nel 1917, gli sarebbe riuscito di attuare questo disegno? Sia perciò lecito di ritenere che l'ex Presidente abbia esposto queste sue convinzioni, senza la necessaria cautela; necessaria, quando si tratti di un personaggio rappresentativo com'egli era e di un paese come la Francia, impegnato in un'azione temibile e decisiva. Giuseppe Caillaux dovrebbe volgere il pensiero ad un altro Uomo di Stato, che, durante la lunga guerra, fu fatto segno ad atroci accuse ed a tentativi sinistri, a Giovanni Giolitti, sul cui capo furono riversate incolpazioni abbominevoli, contro il quale si tentò anche di aprire un'istruttoria giudiziaria. Pure, la prudenza, il riserbo, l'abilità dello statista italiano, impedirono ai suoi avversari di concretare le accuse, di dare aspetto di veridicità alle millantate prove della perduellione e della simonia. Caillaux non seppe usare, la confessione è nelle stesse pagine della sua difesa, la medesima riservatezza e la stessa meditata prudenza: cosicché gli avversari del capo del partito radicale ebbero motivo di approfittare della sua abbondanza e vivacità di linguaggio e della sua passionalità troppo spinta. Il fatto che egli aveva avvicinato talvolta l'avventuriero Bolo pascià, nonché i traditori Duval e Lenoir; il fatto che la coppia equivoca Lipscher-Duvergé abbia tentato più volte di avvicinare l'ex-Presidente e di corrispondere con lui, senza che una denunzia scritta, precisa e regolare, sia stata presentata alla polizia; che, allorquando fu in Argentina, egli abbi parlato troppo liberamente con il conte Minotto, rivelatosi più tardi come un agente del ministro tedesco Luxburg; che, alfine, in Italia, abbia frequentato la compagnia di Cavallini e Brunicardi, e in un colloquio con Ferdinando Martini esposto i suoi pensieri intorno all'ulterior corso della guerra; e in una cassaforte lasciata a Firenze abbia affermate non ortodosse convinzioni circa le origini e le responsabilità della conflagrazione; tutto questo dette alimento alla campagna che, da anni, la stampa avversaria coltivava contro la sua persona e la sua politica; e motivo, o sia pure pretesto, alla persecuzione giudiziaria. Già durante il dibattito davanti all'Alta Corte, si ebbe la sensazione che il processo fosse principalmente animato dall'avversione che la politica dell'uomo di parte potè suscitare intorno a sé. Ad uno ad uno i più gravi motivi dell'accusa furono invalidati: e la più gran parte del processo fu dedicata all'esame del carattere delle trattative che Caillaux, nel 1911, essendo Presidente del Consiglio, aveva promosso con la Germania: trattative che condussero ad un accordo internazionale, il quale, a suo tempo, ottenne pure l'approvazione del Senato e della Camera francesi. Cosicché, all'ultima ora, crollato l'edificio della pubblica accusa, i nemici di Caillaux ricorsero all'articolo 78 del Codice e crearono una figura di reato, il quale, prima di quel momento, non fu mai contestato all'ex-Presidente, che perciò non ebbe modo di produrre testimonianze a sua discolpa o di discutere la fondatezza di quest'ultima accusa. Caillaux pensa che egli doveva essere condannato ad ogni modo: il suo processo politico non poteva condurre ad un'assoluzione, che avrebbe suonato condanna per i potenti dell'ora, per Clemenceau e per i suoi amici. Alla stessa guisa, con le stesse arti, Danton fu condannato quando Robespierre imperava. E anche Danton fu l'assertore di una politica di transazione e di conciliazione internazionale, opposta a quella sfrenata e violenta di Massimiliano Robespierre. E il condannato dall'Alta Corte di Giustizia presume di essere il Danton dell'epoca che corre, perché anch'egli si dichiara fautore di una politica che non rinneghi nel mondo le pacifiche idealità della rivoluzione francese. Forse perché Caillaux ritiene che il ciclo della Rivoluzione si fosse potuto chiudere prima dell'avvento del Bonaparte. Ma chi può immaginare la prima Repubblica senza l'Impero? Una repubblica borghese, pacifica, rinunziatrice, tutta dedita ai lucri mercantili, non avrebbe, comunque, resistito: fu travolta dall'ambizione napoleonica, ma, altrimenti, sarebbe stata soffocata dal ricordo della grandezza politica e militare dell'antico regime. Chi può pensare che Napoleone I avrebbe trionfato, se, in precedenza, Luigi XIV non fosse stato il più significativo re dei francesi? CESARE SPELLANZON. |