LA CONFERENZA DI GENOVA

    Le arrabbiature a freddo del sig. Lloyd George erano amabili, perché erano argute: donde taluno ha potuto compiacersi di immaginare un Lloyd George sempre buon compagnone, così com'egli amava comparire nelle sedute pubbliche o nelle riunioni della stampa, con la solita provvista di metafore (del resto assai poco scintillanti) e di bons mots. Ma Lloyd George - ciò pare inverosimile - si arrabbiava anche sul serio, nelle riunioni private, nel club: e allora era assai poco amabile. Così, per esempio, in una riunione che fu tenuta al penultimo giorno della Conferenza, a Villa Spinola, con i diplomatici italiani e iugoslavi che non avevano concluso niente dopo aver discorso per un mese. Fu allora che Lloyd George disse chiaro e tondo a Schanzer, a Tosti, a Visconti Venosta, che "le domande italiane erano esagerate", che "era ora di definire questa curiosa faccenda": insomma ricompensò con una inaspettata sincerità quelle egregie persone, che per quaranta giorni gli avevano usato la cortesia di far finta di credere ai suoi mutevoli umori.

    È vero che - immediatamente all'indomani - egli mortificava gli iugoslavi con il discorso Stambulinsky, e carezzava gli italiani con una colazione di commiato al Miramare, in cui pronunciò quel discorso del "muro romano", pieno di moine e di complimenti, che li fece andar tutti in visibilio, diplomatici e giornalisti.

La colazione con Thomas.

    C'è un episodio, nella condotta di L. G. a Genova, che io non sono riuscito a valutare. Si tratta di una lunga e desolata conversazione ch'egli ebbe il sabato 13 maggio con Albert Thomas, segretario generale del Bureau International du Travail. Non so se quello ch'egli disse allora fosse l'espressione di un vero scoraggiamento, sia pure passeggero, o forse, più perfidamente, una circolare destinata... alla pubblicità.

    (Lloyd George doveva avere, quello stesso giorno, nel pomeriggio, quel colloquio con Barthou, in cui egli cedette sulle condizioni del lavoro all'Aja, e, sostanzialmente, liquidò la Conferenza).

    A Thomas, fra l'altro, egli disse: "Mio buon amico, la Conferenza è fallita. L'Europa è incorreggibile e inguaribile: essa non vuole essere arrestata sulla strada della reazione. Tutti gli stati nuovi, che sono sorti dalla guerra, sono per la reazione, sono dietro la Francia". Qui Lloyd George fece un vero elenco delle sue delusioni, da cui risultava che l'Inghilterra si trovava sola, con l'Italia. "La mia azione alla Conferenza non è riuscita a niente: io pago il fio qui, e forse lo ripagherò in Inghilterra, di aver voluto spingere l'Europa verso sinistra. Ma vi dico formalmente che, se si continua a sabotare la Conferenza fino all'ultimo, io sono deciso a lasciare Genova solo dopo una solenne vendetta. Io voglio pronunciare all'ultima seduta un grande discorso: an Europe speech, in cui dirò veramente come sono andate le cose e proclamerò il fallimento della conferenza e le colpe dei responsabili. Voglio difendere il mio nome e la mia posizione fin dove mi è possibile e con tutta energia. Mio caro Thomas, sapete qual'è il nostro vero torto? Che noi non abbiamo più venti anni. Soltanto i giovani di venti anni possono sperare di assistere alla fioritura di una Europa di sinistra, di potervi partecipare e di poterne profittare!".





    Tutte queste frasi: "Europa di destra", "Europa di sinistra" sono molto lloydgeorgiane, e dànno una idea della schematicità da gioco di scacchi in cui Lloyd George riduce, per suo uso e consumo, tutta la crisi europea.

I canonicati.

    Ma può anche darsi che tutto il discorsetto fosse destinato ad impressionare Thomas, la cui azione, alla Conferenza, si può paragonare a quella di un amplificatore telefonico ma di un amplificatore applicato ad una quantità di apparecchi. L'argomento usato da Lloyd George era, se mai, veramente ad hominem: "Solo i giovani di venti anni"!...

    Immaginarsi la faccia di Alberto Thomas, che, per quanto non abbia più vent'anni, spera di profittare - e come! - di una Francia di sinistra...

    Alberto Thomas è un capolavoro. Bisognava ascoltarlo, nella splendida sala del palazzo Mackenzie, alla Meridiana, mentre spiegava perché egli aveva creduto opportuno di assistere davvicino alla Conferenza! Con quale tatto egli si scusava di aver accettato l'offerta di una splendida sede di lavoro (?); con quale tempestività gli si inumidivano gli occhi al ricordo del suo collaboratore italiano Dott. Pardo, morto in Russia; con quale compunzione parlava della documentazione sulla Russia che il Bureau International metteva a disposizione dei diplomatici: con qual brio si faceva rimproverare dal suo segretario Palma di Castiglione per la sua cattiva pronuncia italiana! Egli è il francese che sa meglio sedurre gli italiani: se le intese cordiali con la Francia hanno probabilità di ricomparire, è Thomas che le varerà, una volta rientrato nella vita politica del suo paese, e diventato Presidente del Consiglio, com'egli aspira a diventare. Agli italiani poi Thomas incontra, perché fra la barba, gli occhialoni e il vestito alla buona credono che egli sia diversissimo dalla gente del Quai d'Orsay, che mette soggezione per la sua inimitabile grand'aire diplomatica. (Carteron, Poncet, ecc.). Ma Thomas, da latino bonaccione si trasforma spesso in gaulois a doppio taglio.., a tavola. Thomas, a Genova, diede dei pranzi. Pranzi ai pezzi grossi della Confederazione del Lavoro, ma pranzi: e pranzi solidi. E, a tavola, fra la bonne chère e la conversazione arguta, Thomas prende dei saporiti anticipi sulle soddisfazioni che un giorno egli vuol cogliere in Rue de Grenelle o al Boulevard Saint-Germain.





    Comunque, per adesso Thomas ha trovato il suo posto. E con lui lo hanno trovato altri uomini di indiscusso valore e di qualche avvenire politico, come il ministro plenipotenziario Attolico. Attolico (più propriamente: Gr. Uff. Bernardo Attolico, "Sotto-Segretario Generale alla Società delle Nazioni, incaricato delle questioni di transito": testuale!) aveva impiantato non so quale ufficio della Lega delle Nazioni nel Palazzo dell'Università, e frequentava con discrezione e discernimento gli ambienti della Conferenza. Questo antico professore di università è un finissimo osservatore, e dev'essere un arguto critico: dico dev'essere, perché da lui c'è ben poco da cavare, come giudizi. Ma fa piacere incontrare nelle anticamere delle riunioni internazionali, la lunga figura occhialuta di Attolico; leggermente impacciata nel tratto e nella pronuncia, di quell'impaccio tutto proprio dei meridionali vissuti a lungo nei paesi anglofoni, e che sono riusciti a ricoprirsi di una vernice di impossibilità, ma soltanto di una vernice. E fa piacere udirlo dire, riposato e tranquillo: "Ah, io sono qui del tutto a coté... La nostra Lega non è ufficialmente rappresentata..." oppure: "La nostra Lega non ha che una semplice rappresentanza tecnica...". In questi momenti si ha una idea assai precisa di ciò che è la Lega delle Nazioni.

       "In stuol d'amici numerato e casto

        fra parco e delicato al desco assido

        e la splendida turba e il vano fasto

        lieto derido".

    Parco, dicono i maligni, quel desco non lo è tanto. Infatti molto spesso si lanciano insinuazioni poco benevole contro le prebende di cui godono Thomas, Attolico e i signori della Società delle Nazioni. Io credo che questi sono milioni benissimo spesi. Nel modo bestiale con cui si deve svolgere l'attività politica, oggi è provvidenziale che ci siano delle sinecure dignitosissime e legalissime, da poterle donare a uomini come Thomas o Attolico, i quali, per una ragione o per l'altra, vogliono per qualche anno sottrarsi alla corrosione della vita politica attiva. Tanti secoli fa, agli uomini di valore che si trovavano in questa condizione si usava dar titolo e piatto cardinalizio: oggi si dà un impiego presso la Società delle Nazioni, o se ne darà uno presso quell'altra grande fondazione che sarà il Consorzio Internazionale per la Russia. Gli espedienti sono sempre gli stessi. Ma intanto, S. E. Attolico - che, tra parentesi, ha lavorato di schiena per il passato - viaggia, conosce uomini e cose, indipendente e ben pagato: condizioni ideali per diventare un uomo politico stile inglese. Da qui a qualche anno sarà colpevole di negligenza grave chi, essendo alla Consulta, non si ricorderà di lui: cioè di un uomo con una forte esperienza di affari internazionali, e non logoro dalle attese romane.





    E con questi possibili risultati, volete che io ripeta le accuse contro i canonicati?

Francia aulica e accademica.

    Alberto Thomas, nonostante la sua posizione inofficiel ed eterodossa, era certo un po' la lancia spezzata della delegazione francese, che per formazione e per sistema, era la più aulica, la più procedurale, la meno flessibile fra le grandi delegazioni.

    Ma era anche la più chic. Due subalterni davano il tono al Savoy e mantenevano in briglia giovani addetti, giornalisti francesi, dattilografe e forestieri: erano M. Carteron, nominalmente Chargé des Services interieurs in effetto capo del Cerimoniale, e Poncet, capo dell'Ufficio stampa. Soltanto pochi hanno sospettato tutta l'influenza di questi due signori: specialmente del signor Carteron, accompagnatore di Briand a Cannes, di Barthou a Genova, con un incarico solo apparentemente formale. Ma se la delegazione Francese ha resistito alla crisi interna che la minava, se ai forestieri essa è apparsa sempre senza incrinature di opinioni, se nulla o quasi nulla si è saputo fuori delle loro gravi discussioni fra i delegati, delle ribellioni rabbiose di Barthou contro Poincaré, delle opinioni frondiste di Seidoux, molto si deve al signor Carteron, che se ne stava sempre nell'hall del Savoy come in un salotto, alto biondo, tirato a piombo, cortese ma a distanza con gli avversari maliziosi, concedendo il "privilegio della bella signora" agli amici arrabbiati, sventando interviste e soffocando indiscrezioni.

    Tutta la delegazione gli era intonata. M. Réné Massigli, già Segretario Generale della Conferenza degli Ambasciatori, compilava i documenti ufficiali che poi erano letti nel club, dando ad essi una forma letteraria addirittura classicheggiante, non priva di distinzione e di significato frammezzo a tutte le affrettate banalità scritte e dette, ma sopratutto dette, nel club.

    Gli esperti davano lezioni di bel portamento, e ostentavano una "fiducia ricostruttrice" a tutta prova evidentemente dietro una vera parola d'ordine venuta dall'alto e disciplinatamente seguita. Più di una delle sedute delle Sottocommissioni fu una. vera accademia diretta dai francesi, che facevano finta di credere alla somma importanza di una miserabile raccomandazione.





    Per esempio, nella Sottocommissione per i trasporti, sezione trasporti di terra, si durò due ore e mezza a discutere e a votare una cretineria di questo genere: "che se le ferrovie di uno stato sono in cattive condizioni, lo stato confinante può concedere un prestito per migliorarle: ma che, se lo crede, può anche accertarsi con una inchiesta, se le condizioni sono realmente cattive: sempre, s'intende, d'accordo con lo stato vicino". Questa proposizione umoristica (del resto, non più umoristica di tutte le altre deliberazioni delle Commissioni economiche) suscitò le proteste vivaci del delegato italiano (on. Canepa), il quale giustamente osservò che non c'era spesa a riunire una conferenza internazionale per votare simili banalità. Ma il rappresentante francese Du Castel rispose subito con un bel discorsetto, facendo presente "il prestigio enorme che una tale raccomandazione avrebbe ricevuto dalla sanzione della Conferenza!". I francesi avevano imparato la lezione perfettamente, e sorpassavano gli inglesi quando si trattava di recitarla, unendo alla fraseologia ricostruttrice di marca anglo sassone, la compostezza aulica di marca francese.

    La delegazione francese era anche - si noti - la più accademica di tutte. Ma in Francia, pare, i professori di università sono persone di spirito. François Poncet è professore di università, Massigli è un normalien, Camerlinck è un professore di università, Siegfried e Fromageot, rappresentanti del Ministero degli Affari Esteri, erano universitari anch'essi; per non contare poi la brillantissima équipe di universitari che, sotto la discreta guida di M. François Poncet, si erano divisi il compito delle informazioni alla stampa straniera: Eisenmann, Rivet, Hazard, Hesnard, Leger, Crémieux. Nella delegazione tedesca l'unico effettivo professore .... faceva l'interprete! Viceversa, come vedremo, la delegazione tedesca aveva la sua venatura speciale nei delegati-giornalisti.

    Basata su questo reclutamento mezzo diplomatico-di-carriera e mezzo universitario, con evidente postergazione degli uomini di affari, degli alti burocratici e dei giornalisti, la delegazione francese, nel funzionamento dei subalterni, apparve ad ogni osservatore spregiudicato la più composta, la più aliena da dietroscena affaristici, la più pronta a rispondere al minimo cenno dei capi. Non so se tutte queste siano qualità politiche-ricostruttrici; ma so che qualche ora passata al Savoy dava un'idea di quel complesso di qualità che i francesi indicano con la locuzione: "avoir du crâne": dava un'idea di quello che può essere "le crâne" diplomatico.

    Isolata in mezzo alla Conferenza, circondata da osservatori acuti e ostili, la delegazione francese non conta; - neppure da parte del personale in sott'ordine - né una parola disgraziata, né una scorrettezza, né una gaffe, né una esitazione, né la manifestazione di un dissenso. Nei primi giorni della Conferenza, alcuni giornalisti berlinesi, basandosi su un avviso che parlava di "heures de réception pour M.M. les journalistes de langue allemande", si azzardarono di mettere piede al Savoy: ma l'accoglienza dei due gran maestri François Poncet e Carteron non lasciò loro dubbio che l'avviso si indirizzava ... agli svizzeri e agli austriaci: e come per una parola d'ordine, i rapporti furono pressoché interrotti con tutti i giornalisti tedeschi: intendo dire anche i consueti rapporti di cameratismo, che i tedeschi sarebbero stati volenterosissimi di iniziare. Se lo stile, nelle azioni umane, ha un valore, la delegazione francese - compresa la stampa relativa, e anche la stampa, di opposizione - era la prima e la più bella, delegazione della Conferenza.





Barthou e Pertinax.

    Barthou era del resto il primo "sorvegliato speciale" nell'ambiente della delegazione. Se ne temeva la impulsività che avrebbe anche potuto tradursi in adesioni e accondiscendenze pro-Conferenza. Per dissimulare il suo disagio, in talune riunioni pronunziava con tono vibratissimo le dichiarazioni più innocenti. Nell'ultima seduta pubblica egli pronunciò con tale gallica prosopopea le parole di pacifica e, in fondo, conciliativa risposta a Rathenau, che Wirth, il quale non comprende il francese, chiese tutto allarmato a un addetto cosa stava succedendo, e se per caso la Conferenza non finisse a male parole. L'irritazione di Barthou contro Poincaré era profonda: e convien dire che Poincaré non gli risparmiava reprimende ed addirittura mortificazioni. Alle 5 o alle 6 del mattino, Barthou si sentiva chiedere conto da Parigi di documenti presentati la sera precedente alla Segreteria Generale della Conferenza, e non ancora trasmessi in forma ufficiale alle varie delegazioni: questo buongiorno non è il più adatto per conferire un felice umore. Di più, a Barthou dispiacevano vivamente gli attacchi sui giornali, anche italiani e, sbagliando completamente tattica, più volte (come in occasione della sua gita a Parigi) fece, per mezzo di giornalisti francesi meno legati a François Poncet, intercedere per qualche complimento. Tattica completamente sbagliata, perché i complimenti dei giornali italiani erano altrettanti capi di accusa per lui. E l'accusatore publico, per Barthou, era Pertinax. Ho potuto assistere una volta a un dialogo fra Barthou e un gruppo di giornalisti francesi, fra cui Pertinax. Non dimenticherò l'aria provocante di quella faccia da bull-dog di Pertinax, uomo dalle mascelle quadrate e dal cattivo sguardo, e tutte le prevenienze appena dissimulate di Barthou per l'oracolo dell'Echo de Paris, Pertinax era effettivamente temuto alla delegazione francese: e molte delle sue intonazioni particolari, delle boutades da lui riferite, delle botte e risposte di cui egli si valeva nei resoconti delle sedute più riservate, erano l'umile omaggio di Barthou o di qualche altro delegato, offerte a questo individuo "dal cattivo sguardo", e sostanzialmente il frutto del ricatto continuato in danno dei diplomatici. Nessun altro giornalista francese ha informazioni di prima mano come questo signore, convinto di mendacio. Egli le drammatizza, cioè le sa far valere: ma sempre, nel suo papier, ci sono gli spunti da lui solo conosciuti, e predati della sua spregiudicatezza e delle sue aspre critiche.





    Il fenomeno Pertinax è interessante per conoscere usi e costumi della stampa francoitaliana. La figura del giornalista dei giornali d'ordine, anzi nazionalistoidi: su cui aleggiano sospetti di sovvenzioni Governative... o Consultive: e che lungi per questo dal servire docilmente il pagatore, si fa temere dal personale diplomatico, dai Ministri e dal delegati, ha anche da noi qualche bellissimo campione. E siccome, per ragioni ovvie, non posso fare noni, me la piglierò un po' con l'on. Sforza: il quale fu il primo nostro ministro che avrebbe potuto evitare il ridicolo che la Consulta debba pagare i critici dei ministri, e i telegrammi stroncatori spediti dalle riunioni internazionali; e non lo fece: non lo fece per quella sua strafottenza mezza da toscanaccio e mezza da grand seigneur che di queste cosaccie se ne frega. L'onorevole Schanzer, lui non é proprio il tipo da fare piazza pulita: non parliamo dell'on. Tosti sottosegretario, che verso i Pertinax nostrani ha addirittura una specie di timore reverenziale. Ma torniamo a Barthou.

Le bonhomme Colrat.

    Nell'ambiente del Savoy, la stampa italiana ci bazzicava poco: et pour cause. Paul Hazard, addetto ai giornalisti italiani, e il suo successore non facevano che lamentare 1'assenteismo quasi completo delle persone da "informare". Finché, l'ultimo giorno, Barthou decidette di prendere congedo con un ricevimento offerto ai giornalisti italiani. Anche questo ricevimento fallì. Sotto gli occhi indagatori di M.M. Poncet e Carteron si intrufolò nel salone del Savoy il fiore del cafonismo conferenziale e stampaiolo. Barthou pronunciò un discorso assai sciocco, coi soliti ritornelli dell'amore per l'Italia: ma la buona educazione più elementare imponeva di starlo ad ascoltare. Invece ci fu un tizio che cominciò ad approvare, gravemente, col capo: un altro tizio, che aveva già dato saggi cospicui di villaneria, replicò al primo, mentre il ministro parlava: "Ma la smetta! Non mi pare che in questo discorso ci sia tanto da applaudire!... " II povero Barthou fu il primo a ripigliare fiato dopo questo record della faccia rotta, e volgendosi gentilmente ai due interruttori, disse: "vous comprénez, Messieurs, que nous ne sommes pas a Palais Bourbon, je ne peux pas répondre à des polemiques": e tirò via, con gran sollievo di M. Carteron, che aveva per un minuto temuto uno scatto di Barthou.





    Quando, pochi minuti dopo, l'incidente fu riferito a Colrat, l'altro delegato francese, questi, col più amabile dei suoi sorrisi, commentò la risposta di Barhtou così: "On voit bien que la failite de la Conférence lui a détendus les nerfs". Botta che coronò degnamente tutta una serie di motti di spirito cui M. Colrat ebbe cura di infiorare i "lavori" della Conferenza.

    Il signor Colrat, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, aveva preso il suo partito fin dal primo giorno della Conferenza. Egli e Barrère rappresentarono la estrema destra della Delegazione: ma mentre Barrère, incartapecorito e arido, mandava avanti il lavoro di sabotaggio con mala grazia, Colrat rappresentava veramente, di fronte alla mitologia conferenziale e ricostruttrice, le bonhomme Margaritis di Balzac. Quando, bien repu de bartavelles et de vin de Bourgogne se ne usciva verso le due dal Savoy per avviarsi ai lavori della commissione economica, lo stecchino fra le labbra, godendosi il sole, era assai amichevole e alla mano, e parlava volentieri. "Ne touchez pas cette question la monsieur: quant à moi, je réconstruis l'Europe (e qui boccheggiava comicamente) et je n'en sais rien. Vous voyez: j'ai travaillé de ce matin à dix heure jusqu'à midi a réconstruir l'Europe (altro vario boccheggiamento) et je vais maintenant encore à cette lourde tache". Dopo che avevate ascoltato questi frizzi del signor Colrat, voi eravate fixés sulle sue opinioni.

    Tutti i giorni il "comunicato Colrat"faceva il giro di circoli discreti, e dei giornalisti francesi. Sua, per esempio, la definizione di Cicerin: "Il me parait un pion de collège, maltraité par les camarades"; una definizione che esaurisce tutta la posizione e tutta l'azione del delegato russo alla Conferenza. Ed ancora suo il motto sintetico della situazione, quando Lloyd George si arrabattava per far venire Poincaré a Genova: "Oh oui, je le comprends bien: après nous avoir culbertés, nous il voudrait culbertér aussi Poincaré". E tanti altri, che non ricordo o che sarebbe ozioso aggiungere.

    Io penso che nel bonhomme Colrat Lloyd George abbia avuto, in Genova, il suo più ostinato e più forte avversario. Colrat riusciva a nascondere tutto il vuoto della condotta francese, tutta la meschinità della paura, tutte le miserie del misantropismo francese, tutta l'aura antipatica che esalava da ogni telegramma di Poincaré. Per lui, il fallimento della Conferenza é stato qualche cosa di sicuro, fin dal primo giorno: e, comunque andassero le cose, egli era tanto saldo nel suo convincimento, che riusciva a diffonderlo attorno a sé, senza lunghi discorsi, col prestigio di un buon senso apparentemente terra terra, e con l'arma di una arguzia bonaria e di buona lega.

    (Continua).


GIOVANNI ANSALDO.