NOTE SULLA POLITICA FRANCESE
I.La politica francese nel momento attuale è legittima, logica e perfetta per chi, trascurando le necessità superiori di una ricostruzione europea, la consideri a parte, secondo il carattere e la storia del popolo che la fa. Perché in primo luogo occorre persuadersi che il governo ha con sé, in linea generale, il paese: è noto che la concordia della stampa è dovuta ad un'unica fonte ufficiale, si sa che le voci isolate dei giornali comunisti e dell'Oeuvre di Téry non hanno seguito, che il gruppo Clarté non trascurabile come manifestazione di individualità interessanti, non ha nessuna risonanza profonda. Udrete pure, parlando, delle disapprovazioni per la maniera rude, forte, di Poincaré. L'uomo ha delle antipatie anche in certi ambienti moderati di borghesi, che lo trovano eccessivo: le linee direttive della sua azione non sono invece criticate. Se qualcuno ha rilevato l'esagerazione di coloro che cominciavano a biasimare aspramente Barthou come troppo remissivo, si contrappone tuttavia l'operosità del Presidente del consiglio odierno alla seducente pigrizia di Aristide Briand. I comunisti stessi, più che pensare a un piano organico di assestamento dell'Europa, si espandono in clamori contro il pericolo di guerra o conservano con amorosa cura il "cliché", della rivoluzione russa. Ripercorrere, a qualche giorno di distanza, il fascio di tutti i giornali contenenti lo svolgimento della conferenza non è consigliabile a coloro che nella politica vedono uno dei più nobili e più alti giuochi dell'intelligenza. Sembra che gli avvenimenti siano stati determinati da forze oscure, e gli svolti e le crisi appaiono procreati dal caso. La Francia ha avuto un proposito solo: non collaborare alla Conferenza, e vi è riuscita. Visto da Parigi, il corso dei lavori consiste in una lunga, interminabile serie di discorsi noiosi, rotta qua e là dall'opposizione francese, bramosa di rovesciare ogni cosa per ritornare al problema impellente: la Germania, i pagamenti della Germania. Anche la Russia è stata, più che altro, un pretesto: qui della Russia si ha ancora la visione terroristica delle corrispondenze Vaucher, Naudeau: le informazioni, i commenti, le inchieste non sono spassionate, non tendono a rendersi conto, a comprendere, ma a biasimare. Su questo terreno cresce e fruttifica la pianta Mereskosvsky, trionfo dell'apocalissi. Lo spirito francese non è curioso delle novità straniere: per sua natura refrattario alle civiltà diverse, egocentrico, attaccato alla sua nazione, intensamente "proprietario". È ormai corrente l'opinione che i popolani sono in fondo piccoli borghesi: il socialismo non alligna che in misura ridottissima. Orbene, chiuso raccolto nei suoi interessi e nella sua terra il francese non ha sentito punto le preoccupazioni di un problema più ampio di quello che lo riguardava personalmente. Se vi sono ancora spiriti europei nessun spettacolo deve averli resi pensosi quanto questa mancanza di apertura che si traduce in difetto di sensibilità dell'intelligenza. Ad una persona molto colta di studi e di dottrina non soltanto francese la mia domanda: "perché nessuno pensava ad una politica europea" suonò ovvia e quasi ingiustificata. Mi rispose testualmente: "Finché non ci saremo sbarazzati della questione tedesca non potremo fare della politica filosofica". Le critiche potrebbero dunque continuare cominciando dalle abitudini giornalistiche per finire col più testardo e ristretto nazionalismo. L'enfasi naturale e spontanea il donchisciottismo patriottico che formano la parte più aspra ed ingrata, scabra e inintelligente del carattere francese hanno magnificamente cooperato al superbo isolamento prodotto altresì dalla coscienza di poter bastare a sé stessi anche economicamente. Sola tra tutti gli altri stati la Francia non aveva che un problema economico interno e particolarissimo: la ricostruzione delle regioni devastate: la disoccupazione inglese e italiana non l'interessavano. La tesi francese è la seguente: abbiamo conosciuto tre aggressioni tedesche in nemmeno un secolo, e ne siamo stanchi. Al principio della guerra in ciascuno di noi è sorto spontaneo il senso di liberazione dell'incubo, è nato ardente il desiderio di chiudere la partita. Ora, dopo l'armistizio, ci siamo accorti che la lotta, anziché terminata, verrà ripresa domani, da una Germania appoggiata alla Russia, e pronta ad assorbire la Polonia e i nuovi piccoli stati. Siamo da capo Si aggiunge che le nostre regioni devastate lo furono in modo così metodico ed infernale che a tutt'oggi, in parecchie zone, le famiglie vivono ancora nelle cantine. La Germania ha pagato ben poco, e quel poco è stato preso dall'Inghilterra; a noi non è toccata che una minima parte in natura. Il compito di ricostruzione è immenso: abbiamo miniere da rimettere in efficienza, e d'altronde il contribuente è oberato da imposte. La nostra camera dei deputati ha origine da elezioni fatte poco dopo la pace, e quindi ha una mentalità di guerra: noi del resto abbiamo, e possiamo avere, una politica estera che non si basi su quella interna. Della guerra di domani abbiamo la sensazione precisa: la Francia si sente minacciata e si difende. Altri due elementi contribuiscono: il ricordo del rapido versamento dei cinque miliardi nel 1870, il fatto di possedere attualmente l'esercito più forte. Da questo punto di partenza - che, come dicevo, è in sè legittimo, corrisponde mirabilmente al temperamento nazionale e si rafforza di una logica stringente sebbene angusta - le conseguenze serie e irragionevoli, meditate e paradossali, false e calunniose, brulicano. La Francia teme tuttora il pericolo comunista e se ne guarda. Il primo ministro inglese non è celebrato per il suo equilibrio, e la sua condotta è apprezzata come ripercussione di necessità di politica interna, diretta a rompere tutte le alleanze di guerra, e questo paese così scarsamente e male informato di ciò che avviene all'estero prevede che il contegno di Lloyd George sfascierà l'Impero. E verso l'Italia assume un'attitudine di diffidenza, diffusa ormai nella maggioranza. Riconosce di aver mancato verso di noi, non vuol dar valore a continui attacchi personali di pubblicisti, ma ci sente lontani ed estranei, forse ostili. Reciprocamente. Gli appunti che ho tracciato risultano da un esame spassionato compiuto sul luogo, da conversazioni, da lettere, da testimonianze. Hanno il torto di non prospettare le due teorie vigenti: l'una che ammira la Francia come sola potenza che è sulla verità, l'altra che la pone alla testa della reazione. Il dissidio tra la luce internazionale che per un momento brillò a Genova e la tenebra nazionalistica si spiega studiando la mentalità del popolo francese. Noi non pretendiamo punto determinare a priori i segni caratteristici e immutabili di una razza, e crediamo più che a una somma di rassomiglianze a una miriade di differenze individuali. Ma esistono -e specie negli istanti critici - quelle reazioni significative che consentono di porre in chiaro i sentimenti profondi di una collettività. Nel periodo politico che ci occupa è mancata ogni forza spirituale che uscisse dalle linee che abbiamo abbozzate: nessuna voce importante si è alzata a chiedere un cambiamento di rotta. La Francia difficilmente (vorrei piuttosto scrivere, mai) potrà comprenderci: siamo troppo liberi e complessi e non ci lasciamo ridurre al semplice schema di un erotismo alla Stendhal. La mobilità italiana non muore nel cinquecento, e la facoltà di adattamento, il dono di rendersi ragione vivono in noi fortissimi. Le metamorfosi della nostra politica sono qualificate sottigliezze, e ci viene rimproverata l'incostanza: quel che di disinteressato e di aperto è in noi riuscirà sempre misterioso allo spirito francese, chiaro e logico, ma preciso e fondato. A nostra volta, vediamo di comprendere la Francia. Bando alle fraternità e alle fratellanze latine, alle leghe italo-francesi, alle nazioni più o meno sorelle. Per mettere le cose in chiaro è necessario osservare che sino ad oggi, ed anche ora, l'Italia si è divisa in due correnti: quella appiccicata alla Francia come un'ostrica allo scoglio, che l'ha presa quotidianamente a modello e che va dal partito dei principi dell'89 e dell'anticlerical-radicalismo alla setta nazionalista che, osteggiandolo, copia il corrispondente gruppo francese; quella che è oscuramente, ma risolutamente nemica della Francia. Tra i due estremi noi crediamo che sia possibile, equo, e desiderabile cercar di raggiungere non una conciliazione, ma una posizione superiore, che una cultura intelligente dovrebbe suggerire. La nostra parola è: comprendere la Francia, ossia studiarla con imparzialità accurata. Allorché le nozioni acquistate avranno sorpassato i due momenti elementari che abbiamo segnalato noi non ci sentiremo punto invasi da sconfinato amore o da sdegnoso odio. Rimedio di un intellettuale, si dirà, ma non credo che ve ne sia un altro. Il poi non è esente da constatazioni maliziose: oggi andremo a vedere la statua di Giovanna d'Arco adorna delle bandiere della repubblica laica, e non ci stupiremo se, mentre l'Europa è in crisi, i giornali recano in prima pagina il panegirico della vergine di Orléans. Parigi, maggio 1922 BRIGHTON.
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