GLI ULTIMI CONSERVATORI
I popolari possono essere un partito di masse solo in quanto si differenzino - con una netta negazione - dal socialismo rivoluzionario! (per rivolgersi ad altre masse); i riformisti possono diventare un partito di governo in quanto rinuncino alle proprie premesse marxiste (a cui non hanno mai creduto) e accettino del proprio passato solo l'esperienza di parlamentari e di condottieri. La lotta politica degli ultimi anni ha precisato dei nuovi interessi conservatori che sono distinti dagli interessi rivoluzionari (comunisti) e dai reazionari (fascismo agrario): i partiti che le incarnano - essendo state le democrazie liquidate di fronte al fascismo - si riducono al P. P. I. e il P. S. U. Questo è ciò che non si vede nella lotta politica-presente. Ciò che si crede di vedere è più clamoroso. P. P. I. e P. S. U, continuano esasperatamente demagogiche gare e non riescono ad assumere le responsabilità reciproche. Ostentando popolarità credono di portar le masse al governo: invece vi portano le proprie individualità e sono ancora i ceti medi, esauriti dalla propria maggioranza numerica, che ve li mandano, in un ultimo sforzo penoso. Quali sono gli stati d'animo dei due partiti di fronte al collaborazionismo? I socialisti, non hanno suscitato rispetto ai popolari altri problemi se non quelli che erano suggeriti dalla loro stessa ignoranza (intransigenza formale, libertà della scuola): ed è naturale perché il P. P. I. offre loro ben sufficienti garanzie (masse e uomini di governo). Dal punto di vista reciproco le opinioni sono più complesse: le preoccupazioni più ragionevoli, almeno, apparentemente. La demagogia riformista è condivisa dai popolari, ma può sembrare più pericolosa e intemperante. Il problema si mostrò subito così urgente che dovette muoversi Meda il gran tattico dell'erudizione ministeriale. E ne è nato questo libriccino (1) assai succinto, che ha la sua brava morale e la sua dogmatica conclusione rassicurante: Turati e compagni meritano il premio di buona condotta: possono essere degni colleghi dei popolari ai quali porteranno il dono del tramonto di ogni socialismo d'opposizione. Che proprio Filippo Meda si sia assunto questo compito e che l'abbia assolto sino ad ingannarsi sulla reale efficienza popolare del riformismo può sembrare strano solo a chi guardi la superficie. In realtà il risultato era già implicito nella sua forma mentis e nella sua metodologia. Benché l'opuscolo rechi il sottotitolo dalla prima alla terza Internazionale gli ampi orizzonti europei a cui il movimento nazionale si collega sono ignorati e la storia finisce col ridursi a una cronistoria superficiale e sommaria dei congressi del Partito. Ora questo metodo stesso per sé suggerisce alcune considerazioni e un netto giudizio. Caratteristicamente e grettamente politica è la pretesa di valutare un movimento nei suoi risultati prescindendo dal movimento stesso che li determina tutti. Genera poi errori profondi quando si applica ad un fenomeno che è in piena praxis formativa e che non si può valutare per ciò che fa, ma essenzialmente per ciò che ispira, per le correnti di azione e di pensiero che vi sono implicite o iniziali. Ma la concezione della storia di Filippo Meda è astratta e statica e non sa penetrare la dialettica delle forze e l'autonomia delle iniziative, ma intellettualisticamente si appaga di un esame delle formule e della logica comiziesca. Il suo cattolicismo lo conduce, a priori, a ridurre il progresso della storia entro gli schemi di una esaurita rivelazione e con siffatte premesse è logico che si ignori la spontaneità dei movimenti di popolo. E la sua mente di popolare, ossia di politico di governo, può guardare con interesse le forze capaci di esprimersi in termini e valori di conservazione, ma gli fa negare ostinatamente tutto ciò che alla normalità della formula conservatrice, dedotta a rigore dal passato, si opponga con la spontaneità di uno sforzo rivoluzionario e di un ardore creativo. La posizione del politico limita e comprende quello del cattolico; evita la logica rigoristica del dogmatico che condurrebbe ad una negazione violenta del mondo moderno, si appaga di uno pseudo realismo che meglio si direbbe riformismo e che tende ad eliminare dalla storia 1'imprevisto e la lotta per sostituirvi un ottimismo senza asprezze e senza intransigenze. Perciò il movimento del Partito Socialista Italiano non è negato a priori, come eresia, ma è studiato nel suo movimento empirico, dove le rigidità e le posizioni nette sono attenuate dalle transazioni ineluttabili. Atteggiamento caratteristicamente riformista che nonostante tutte le professioni di oggettività, spinge inesorabilmente il Meda ad esaminare con benevolenza e a mettere in valore le tendenze gradualiste e antirivoluzionarie, senza che egli senta i1 bisogno di una netta critica ideale alla dottrina di estrema sinistra. Il presupposto del Meda è che il partito popolare sia nel vero con la sua netta svalutazione di ogni movimento non contenutisticamente tradizionale e la premessa implicita si converte in una visione turatiana dei movimenti delle masse. Don Sturzo e Turati sono in una identica posizione di democrazia demagogica. Il tenue liberalismo di Meda serve alla visione di Don Sturzo e ne teorizza le premesse ideali studiando le esigenze delle masse attraverso le patriarcali discussioni dei signorotti (capi-partito e capi-tendenze). Se dall'atteggiamento iniziale passiamo ad una analisi.. alquanto più minuta ed accurata, gli errori di metodo (volendoci fermare alla considerazione formale e rispettare i limiti che lo studioso si è deliberatamente proposti) si ritrovano numerosi. Una storia del socialismo che non esamini il fondamento ideale e pratico della dottrina è destinata ad essere gretta e imprecisa raccolta di formule. Idealmente, il socialismo marxista, è la dottrina dell'azione popolare diretta, della lotta di un'aristocrazia operaia per l'ascensione delle classi lavoratrici. La mancanza di una elaborazione dottrinale sufficiente in Italia ha impedito di scoprire subito questo nucleo centrale che è la base del socialismo ed ha generato le oziose polemiche sul collettivismo e sull'internazionalismo: concetti mitici che non è possibile determinare come realizzabili perché valgono come meri strumenti di lotta. Le brevi note di cronaca del Meda avrebbero dovuto pertanto essere precedute da un giudizio su questa antinomia ideale, e dall'esame dei rapporti tra marxismo e socialismo, tra socialismo europeo e italiano. E il carattere astratto della dottrina, la superficialità e l'inadeguatezza di tutte le formule gradualiste, integraliste, sindacaliste, anarchiche e rivoluzionarie (echi lontani ed imprecisi di teorie maturate altrove), prive di una specifica esperienza politica doveva aprire la via a chi non fosse governato nella sua ricerca da una negazione aprioristica dell'infezione rivoluzionaria a cogliere il sostanziale dualismo che travaglia il partito socialista italiano e che diventa l'equivoco della sua azione pratica. Esiste in Italia sin dai primi tentativi del Risorgimento una specifica situazione rivoluzionaria, potenziale durante il travaglio dei tecnici nell'opera d'arte della creazione della Stato italiano; esplicita quando lo stato compiuto si trova vuoto di significato ideale e deve ricorrere alle masse perché lo vivifichino. Esiste d'altra parte, fuori dal Governo, un'aristocrazia più o meno sapiente, che professa a priori una funzione di assistenza e di aiuto al popolo, e tenta ogni possibilità di conciliazione, richiede ogni riforma per impedire un'azione diretta del popolo, per illuderlo con pacifiche offerte che a lei conservino la sua illuministica funzione di educazione e di elevazione. Codesto riformismo corrisponde in sostanza a quella posizione di falsificato liberalismo che si dovette inaugurare durante il Risorgimento e che si corruppe nella pratica della Sinistra. Abbiamo dunque nel partito socialista una forma dell'ineluttabile antitesi che separa nell'immatura Italia governo e popolo; abbiamo un'infiltrazione di pseudo-liberali e quindi in seno al partito una riproduzione della lotta tra liberalismo e azione popolare. Di fronte a Crispi e a Pelloux si tratta di lottare perché si affettuino le più elementari condizioni di libertà, di possibilità d'azione il partito ha perciò la sua unità (che poi ricercherà invano e dovrà ad ogni tratto genericamente proclamare) e il punto d'accordo è essenzialmente formale e le richieste si riferiscono solo al riconoscimento della possibilità e necessità che ognuno esprima il proprio pensiero. Turati è vicino alle rivendicazioni rivoluzionarie come vi sono vicini Papafava, Einaudi, Croce. Ma superato il pericolo, Turati non si può più distinguere da Giolitti che per la più intensa demagogia: la linea d'azione è identica, non lottano più due principi, ma due persone. In questo senso Bissolati è stato più coerente e più sincero di Turati accettando la responsabilità di governo che è ineluttabile, date le premesse ideali. Le pose antigovernative sono anche esse posizioni di governo, modi di lotta parlamentare; la rivoluzione è passata dalla piazza a Montecitorio ma si è convertita in una diplomazia. Il comizio è l'arma dell'illusione dei nuovi capi, il sistema adottato per rafforzare una posizione personale: è naturale che costoro tendano all'unità, tendano ad apparire rappresentanti di un forte movimento e perciò ricerchino tutte le formule intellettualistiche di equivoco e di nascosto arrivismo. La vuota eristica dei congressi - dalla negazione delle tendenze (Imola 1902, Bologna 1904) all'integralismo (Roma 1906) al riformismo o di destra o di sinistra (Firenze 1908 - Modena 1911) cela soltanto questo riposto calcolo. Gli sforzi autonomisti delle masse sfuggono ad ogni esame, fermentano in cerca di una espressione che viene soltanto timidamente a Reggio (effetto della guerra libica) ed esplicitamente a Roma e a Bologna, per la guerra europea che ha condotto alla responsabilità sociale nuclei sterminati di operai e di contadini. Negli ultimi anni si pone chiaramente il dissidio di riformisti (ossia giolittiani, nittiani) e di rivoluzionari: Livorno è l'eredità di un equivoco durato trent'anni e l'incertezza dei Serratiani, assolutamente incapaci di ogni visione realistica, disorganizza definitivamente le forze popolari. Il marxismo italiano comincia assai esiguamente col Partito Comunista non del tutto libero dalle incertezze demagogiche meramente negative del misianismo; i riformisti sono esplicitamente chiamati alla responsabilità di governo: gli unitari impotenti a chiarire la loro origine restano ad attestare un passato e una tradizione non vitale. In questo risultato Turati diventa elemento valido della contingenza politica, egli solo é anche secondo una visione di governo una realtà empiricamente adeguata a un compito parlamentare. Anche nella freddezza della cronaca si sente che il Meda - studiandolo - vi trova un'anima sorella. PIERO GOBETTI. |