L'AGRICOLTURA PIEMONTESE

V.

Prati e pascoli.

     1. - Dall'annuario del 1864 desumiamo che la superficie di prati naturali e artificiali nell'attuale Piemonte, era pressapoco di 300.000 ettari; e la produzione complessiva quasi 10 milioni di quintali di foraggio.

     Le statistiche recenti (1909-14) dànno una superficie di prati naturali, artificiali, e erbaj (questi ultimi occupano un 20.000 ettari in media) di 545 mila ettari con una corrispondente produzione di 27.300 milioni di quintali di foraggio ragguagliati in fieno normale. Ammesso, come io ammetto, che le cifre riportate siano confrontabili, non c'è da stupire del grande incremento del prodotto, assai più grande di quello della superficie: quando si pensa alle innovazioni introdotte: rotazioni, di concimazioni, di irrigazione; ai dissodamenti di incolti, alla riduzione della superficie coltivata. a cereali, riduzione che io credo avvenuta in base a quello che già dissi addietro parlando del grano. Cause queste, che hanno contribuito all'aumento della superficie e della produzione. Quello che fa meraviglia è il non proporzionale aumento nel bestiame. La quantità di foraggio indicata non era sufficiente alla quantità di bestiame esistente in Piemonte nella stessa epoca; invece la quantità prodotta ora, stando alle cifre, sarebbe esuberante pei bisogni del bestiame.

     La cosa non pare molto credibile, tanto più che non risulta che il bestiame sia mantenuto in maniera opulenta, tutt'altro, ma le cifre son là, io le ripeto come le trovo; e per poter dire qualche cosa di chiaro sull'argomento, bisognerebbe avere notizie sicure sul commercio interno dei prodotti agricoli.

     La superficie dei prati irrigui, assai importanti in Piemonte, raggiunge i 75.000 ettari. Essi sono - dice il Lissone "la base della. produzione foraggera, e rappresentano un cospicuo valore, perché costituiscono il perno dell'industria zootecnica".

     In Italia i prati irrigui occupano complessivamente 310.000 ettari: di qui si vede subito il posto principale tenuto dal Piemonte. Appunto perché essi costituiscono qui il perno dell'industria zootecnica - scriveva lo stesso autore - al tempo del famigerato decreto I0 maggio 1917: "Nel Piemonte più che altrove è viva l'opposizione contro il dissodamento dei prati e non si può seriamente sperare di indurre gli agricoltori a rompere i prati stabiliti, senza la promessa di un compenso il quale copra almeno in parte la grande differenza del prezzo che corre tra la superficie prativa e quella arata".





     E riferendosi ai prati artificiali, aggiunge: "Grave difetto dell'agricoltura piemontese, che si riverbera sulla difficoltà in cui si dibatte l'allevamento del bestiame, e sulla stessa scarsità della produzione di cereali, è la lamentata deficienza di prati artificiali, in alcune zone quasi sconosciuti". "È perciò saggio e provvido consiglio intensificare la semina del trifoglio nei campi a frumento". Di questo argomento ho parlato a proposito del grano e quel poco che ho detto là può anche valere qui. Certo è che, rispetto alle altre regioni della pianura padana il Piemonte, quanto ai prati artificiali, è molto indietro:


Piemonte

ha.

198.000

Lombardia

"

355.000

Veneto

"

248.000

Emilia

"

432.000


     Queste cifre rappresentano la media del dodicennio 1909-20; ma seguendo, pel Piemonte le cifre dal 1909 al 1920, sì può notare il successivo restringersi della superficie di prati artificiali: ciò vorrebbe dire che durante la guerra fu data ai cereali una prevalenza maggiore di prima, anche ottenendo in complesso una produzione minore. E benché non sia diminuita l'area dei prati irrigui è molto scemata in complesso la produzione complessiva (compresa quella degli irrigui medesimi). Infatti comprendendo i pascoli e gli erbaj l'Annuario Stat. It. 1917-18 riporta i seguenti dati di produzione complessiva ragguagliata in fieno normale per il Piemonte:


Media

quinquenn.

 1910-14

Ql.

32.198.000

    "

anno

     1915

"

33.089.000

    "

"

     1916

"

29.856.000

    "

"

     1917

"

29.634.000

    "

"

     1918

"

24.529.000


     Se si tien conto che la produzione data dai pascoli e dagli erbaj è calcolata in media 2.500.000 quintali di fieno normale, si può subito vedere la grande diminuzione della produzione dei prati avvenuta nel periodo bellico. La quale si spiega oltre che per la diminuzione di superficie, anche per le concimazioni più scarse e la meno accurata lavorazione a causa delle circostanze già dette.

     Ma è sopratutto nei prati artificiali che la diminuzione è avvenuta, riducendo il prodotto complessivo di due quinti.

     Tuttavia osservando che al 1918 la quantità di bestiame era alquanto superiore a quella del 1908 malgrado la falcidia delle requisizioni militari nel bestiame stesso e nel foraggio prodotto; bisognerebbe concludere, salvo la veridicità delle cifre ufficiali, che non sì è avuta da lamentare, da parte degli allevatori, una vera scarsità di foraggio.





     2. - I pascoli si trovano specialmente nella regione di montagna, a notevoli altitudini, dove salgono dalle valli le mandre a pascolare nella stagione calda. Essi occupano complessivamente in Piemonte un'area da 400 a 450 mila ettari; e si calcola per essi una produzione di foraggi che oscilla intorno a due milioni di quintali in fieno normale.

     Essi sono, in gran parte, di proprietà pubblica, e tenuti quasi sempre in estremo disordine. Su di essi la pastura si esercita di solito in modo promiscuo, senza nessuna organizzazione degli abitanti locali; e per conseguenza è facile immaginare quali debbano essere le condizioni di tali terreni, dei quali assai poco si occupano le pubbliche amministrazioni e nulla, come è naturale pensare, i montanari.(1)

     Questi pascoli sono sorti spesso là dove sempre, data la posizione del terreno, avrebbe dovuto rimanere il bosco e perciò la loro esistenza è stata effimera essendo che le intemperie e i frammenti ne hanno prodotta la degradazione. Notevoli estensioni di pascolo sono state trasformate in prati falciabili, ai quali si prodigano grandi cure; ma quanto al pascolo rimanente, sia pure di privata proprietà, bisogna dire che in generale, o per il sovraccarico dell'Alpe, con quantità di bestiame superiore a quella che il pascolo di una certa località può alimentare, o per la trascuranza di quegli elementari precetti che i pastori dovrebbero seguire per la conservazione o la ricostituzione dei pascoli stessi: esso è lontano dal dare in modo pieno quei vantaggi che l'allevamento del bestiame potrebbe ritrarre dall'alpeggio.

     "Prati e pascoli sono generalmente scaglionati a diverse altitudini dal fondo della vallata all'alto pascolo alpino, alla malga, che si spinge oltre il limite superiore del bosco.

     Il bestiame, migrando dalla valle al monte, segue il successivo inizio della vegetazione alle varie altitudini, per migrare poi di nuovo dal monte alla valle, dalle sedi estive a quelle invernali. Di qui la moltiplicità delle abitazioni e dei ricoveri, scaglionati alle varie altitudini; di qui anche la frammentazione in più appezzamenti della proprietà di ciascuno: frammentazione la quale dovuta anche a consuetudini ereditarie, va poi spesso molto più oltre di quanto le ragioni della diversa stagione vegetativa, in rapporto alle altitudini, richiederebbero"


(Serpieri).




     La mancanza di proporzione tra il prodotto degli alti pascoli e quella dei prati a piè del monte, fa sì che non di rado il bestiame deve trasmigrare verso la pianura.

     Cosí si vedono mandrie e greggi che tendono a svernare al piano; la pratica tuttavia, nota il Serpieri, è in decadenza e non abbiamo a dolercene. Perché i mandriani non dimostrano poi uno zelo eccessivo a trattenere sulle strade le bestie che hanno in loro custodia, senza che facciano incursioni nei terreni coltivati che le strade attraversano; e la cosa non deve far molto piacere ai contadini danneggiati. Tanto più che non di rado avvengono vere e furtive invasioni in campi e prati.

     In conclusione c'è da augurarsi che si faccia di tutto perché ai pascoli siano prestate più cure che ora non si faccia; sia dal lato della coltivazione che da quello dello sfruttamento, il quale, là dove si esercita in comune su proprietà pubblica, dovrebbe essere fatto da consorzii di comunisti che provvedano anche al miglioramento, nonché alla conservazione del pascolo che loro serve.

BESTIAME

     1. - In epoche diverse la quantità di bestiame esistente in Piemonte è rappresentata dalle seguenti cifre:


1876-81

1908

1914

1918


Cavalli

33911

60044

51039

Asini

29626

14739

115000

15922

Muli e

bard

24176

26749

18447

Bovini

842940

961436

1076000

1008143

Bufali

113

20

43

Suini

85301

186137

215000

146489

Ovini

365354

252745

255814

Caprini

141473

149716

188640

(2)


     L'allevamento degli equini ha quasi nessuna importanza: "Considerando che nel Piemonte la proprietà è molto frazionata e che i lavori agricoli si compiono mediante i bovini si comprenderà facilmente come questa non sia regione dove l'allevamento degli equini possa esercitarsi su vasta scala; opponendosi l'agricoltura intensiva ed il maggior tornaconto dei coltivatori-allevatori di curare il bestiame bovino che riesce più rimunerativo" (3).





     Quanto ai suini l'allevamento è più esteso, ma non come nelle altre regioni dell'Italia settentrionale nella Toscana e nella Campania, regioni dove l'allevamento stesso ha un indirizzo uniforme e si sviluppa attorno a pregevoli razze locali. Durante la guerra la produzione è assai discesa per il difetto di adeguati mezzi di alimentazione (4) ma ha fortemente ripreso in questi ultimi tre anni, dopo il censimento: molti improvvisati allevatori si sono dati a questa industria, con nessuna preparazione, per l'attrattiva dei prezzi elevati; ma non so se l'attuale voga possa consolidarsi e mantenersi. Certo è che nella nostra regione esistono le condizioni d'ambiente per una vasta suinicoltura, tanto più se saranno seguiti i nuovi metodi di allevamento all'aperto, ma si richiede anche una certa istruzione tecnica in coloro che vi si dedicano, istruzione che pochi hanno.

     In generale la popolazione ovina piemontese è molta degenerata e ben poco conserva della fama che già ebbe in altre epoche. Fa eccezione soltanto la razza Biellese non molto dissimile dalla pregevole razza Bergamasca; è una discreta produttrice di carne e latte, ma la lana che rende è di qualità scadente.

     Un importantissimo posto occupa invece l'allevamento dei bovini, e a questo riguardo si può dire che il Piemonte, sia per le sue razze che per il numero dei suoi capi (per questo viene dopo la Lombardia e l'Emilia ma a piccola distanza, dopo l'ultimo censimento) è una delle prime regioni dell'Italia.

     Sulla distribuzione topografica delle varie razze scrive il Couin: "Nous pouvons nous figurer le Piémont comme constitué par un croissant de montagnes entourant une vallée centrale qu'arrose le Po. En descendant des cimes où ils prennent naissance les nombreaux affluente du fleuve creusent des vallées dans chacune des quelles vit une famille bovine, plus ou moine distincte, qui va en s'améliorant au fur et à mesure que le niveau s'abaisse, et vient fusionner avec la race améliorée qui occupe un grand cercle limité par Chivasso, au nord, Vigone à l'ouest, Fossano au sud, Bra à l'est, et, au centre, Carmagnole dont elle à pris le nom". (5)

     Fra le razze bovine allevate in Piemonte, scrive il Vezzani, la più notevole e più diffusa è la razza piemontese della pianura che si suddivide da alcuni in varietà scelta della Pianura o varietà di Carmagnola, che è appunto quella testè indicata, ed in varietà ordinaria della pianura, che vive nelle valli della provincia di Cuneo specialmente.





     Le razze piemontesi hanno in generale attitudini per il lavoro e la produzione di carne e latte. Dato l'allevamento ancora non molto intenso del bestiame in Piemonte, questa triplice attitudine si adatta bene alla struttura agraria della regione.

     Ma l'una o l'altra ha la prevalenza a seconda delle forme e dei bisogni dell'agricoltura nelle varie località; e la tendenza alla specializzazione diventa sempre più notevole, orientandosi verso la produzione di lavoro in provincia di Alessandria e intensificandosi verso la produzione lattifera nelle rimanenti province.

     Quest'ultima specializzazione ha contribuito a rendere più acuta la crisi della carne manifestatasi ed accentuatasi nell'ultimo decennio, e per questo motivo non incontra grande favore presso una grande classe di consumatori, e presso gli studiosi che si preoccupano degli interessi di costoro e delle diminuite esportazioni e delle aumentate importazioni di animali.

     Lo svilupparsi e l'estendersi del caseificio "la crescente richiesta dei prodotti di questo, non ha tardato ad indirizzare l'allevatore su di una via più sicura e più lucrosa, quella della produzione del latte. Ed oggi, infatti, in molte parti dell'Italia settentrionale non solo non si ingrassano più bovini, ma a centinaia i giovani vitelli, prima ancora che raggiungano un certo sviluppo vengono sacrificati al macello".(6)

     Così si è scritto e non senza ragione. Ma il fatto non si è sempre considerato colla dovuta obbiettività; e le critiche si sono fatte in opposto senso, senza avere una esatta conoscenza del problema.

     Intanto sarebbe assurdo voler pretendere che gli allevatori non si disfacessero dei vitelli che per la loro cattiva conformazione non sarebbero suscettibili di proficuo sviluppo, oppure, nelle annate che il foraggio è caro per la sua scarsità, essi si sobbarcassero gravi spese per mantenere, senza convenienza 1a vita ai nuovi nati. Poi "in prossimità dei maggiori centri è certo che la domanda delle così dette carni bianche si accentua assai e l'agricoltura deve soddisfarla, come farebbe qualsiasi altro produttore, mentre d'altra parte i prezzi ivi acquisiti dal latte in natura sono tali da consigliarne il minor consumo possibile pei bisogni della stalla".

     In altri luoghi, dove tali circostanze non esistono, l'agricoltura seguirà indirizzi diversi: o trasformerà il latte in latticini, o alleverà i vitelli in maggior numero seguendo sempre strettamente il suo tornaconto.

     Non v'è nulla di strano in tutto ciò.

     Molto si è già fatto negli ultimi tempi per il miglioramento dei bovini piemontesi, se pure non sempre con ottimi risultati.





     Da tempo si introducono in Piemonte razze estere specializzate per la produzione del latte; sopratutto nelle aziende del Novarese e nelle vaccherie attorno alle grandi città s'importano e si allevano di preferenza vacche Schwiz, e in parte olandesi.

     Per il miglioramento dei bovini piemontesi di piano e di qualche razza montanina, gli allevatori piemontesi perseverano nella via della selezione; i bovini dell'Ossola si vanno invece migliorando mediante importazione di scelti riproduttori di razza bruna alpina, mentre per altre razze di montagna della provincia di Torino si importano riproduttori Tarini e Simmental.

     Altre razze estere pure importate in Piemonte, in piccola scala, furono la Durhann, la Brettone e la Charolaise.

     In Piemonte si può contare una media 34,8 bovini per Kmq. cifra inferiore di molto ai 50,3 della Lombardia e 51,9 dell'Emilia. Già ho accennato alla causa di tale inferiorità e ai modi della sua rimozione. Ma a comporre questa media concorrono cifre assai diverse a seconda dei luoghi: in taluni l'allevamento ha raggiunto un alto grado di sviluppo, in altri si svolge in condizioni arretrate. Altro è l'allevamento della pianura irrigata, altro è quello dalla pianura asciutta, della collina, e della montagna.

     Il Piemonte, delle regioni dell'Italia settentrionale è quella che meno s'accosta colla media per Kmq. alle cifre dei paesi più progrediti; e tuttavia in esse l'industria zootecnica ha pur sempre larghe possibilità di sicuro sviluppo.

     Il quale, però, non credo che sarà tanto presto raggiunto. Scriveva recentemente lo Zannoni che nell'allevamento del bestiame "purtroppo persiste una deplorevole stasi, una neghittosità ed una trascuratezza delle norme igieniche e tecniche le quali, eccezione fatta per alcune località, sono davvero impressionanti".

     Egli scrivendo queste parole si riferiva in modo speciale alla provincia di Alessandria, ma anche nelle altre province le condizioni non sono di gran lunga migliori.

     Tuttavia sarebbe ingiusto di non riconoscere che la buona volontà di avviarsi su migliori cammini c'è: quello che manca è un'uniformità di criteri, una guida sicura di norme razionali, una cooperazione efficace, fra gli allevatori; difetti questi che come vedremo sono difficili da eliminare più di quanto non sembri.


BERNARDO GIOVENALE.

(1) Per maggiori notizie, SERPIERI: La Montagna, i boschi e i pascoli; L'Italia Agricola ed il suo avvenire, fasc. 2.; e il bellissimo libro del compianto VOGLINO: Boschi e pascoli alpestri - Casale, 1912.
(2) Cfr. VEZZANI: Industria zootecnica. Produzione, commercio, regime doganale. - Roma, 1918 - Pagg. 24, 26, 30, 31, 32, 33- Annuario statistico italiano - 1917-18. Pagg: 177-178.
(3) Cfr. ALBERTI: Il bestiame e L'agricoltura in Italia - Milano, 1906, pag. 25.
(4) Cfr. PIROCCHI: Il patrimonio zootecnico italiano e i suoi più urgenti problemi. - Bologna, 1919, pag. 25.
(5) Cfr. Les bovines du Piémont in L'Agriculture en Italie, estr. della Vie Agricole et rurale - Paris, 1920.
(6) Cfr. GIULIANI: La crisi della carne in Italia. - Catania, 1911, pagina 15.