IL LIBERALISMO DI L. EINAUDI

    Il pensiero di Luigi Einaudi si viene formando in anni torbidi per l'Italia; durante una crisi che ha estenuato tutte le nostre capacità creative e in cui la reazione dominante pare un'espressa rinuncia del popolo al suo compito europeo. La lotta politica si semplifica necessariamente intorno allo schema conservatori-progressisti. Il liberalismo più coerente alla tradizione di autonomia - preclusa la strada ad ogni azione positiva - deve limitarsi a postulare il riconoscimento della libertà come condizione e premessa necessaria e su questa via s'incontra e si confonde con il pensiero radicale e socialista. Einaudi collabora alla Critica Sociale.

    Ma la transazione pratica non importa confusioni ideali in chi ha coscienza storica della crisi. Nel 1900 in fatti vien pubblicato Un principe mercante: studio sull'espansione coloniale italiana, primo documento dell'attività pratico-economica dell'Einaudi, solidissima prova di una cultura politica superiore. Vi si ritrovano affermazioni che sintetizzano tutto il pensiero degli anni successivi e sulle quali si può costruire un sistema organico di politica.

    "Il nostro paese ha bisogno che i possessori del capitale non oziino contenti del quattro per cento fornito dai titoli di consolidato o dai fitti terrieri, ma si avventurino in intraprese utili a loro e alla nazione intera. Il paese ha bisogno che le classi dirigenti non continuino ad avviare i loro figli alle carriere professionali e burocratiche già ingombre di aspiranti insoddisfatti, ma li avviino alla fortuna sulla via delle industrie e dei commerci" (pagina 19). Qui c'è già il caratteristico stile dell'Einaudi, il suo modo di considerare le leggi economiche con rigorismo etico, di attribuire una validità educativa alla vita politica; l'ampia coerenza delle formule e dell'azione, l'identità del suo pensiero di scienziato e di individuo.

    L'uomo, appena conosciuto, ispira solida fiducia. Spoglio di qualità decorative, libero dagli atteggiamenti falsi - enfatici o conciliativi - che la società convenzionale impone a chi se ne lasci dominare. Esercita, senza teorizzarla, una morale di austerità antica di elementare semplicità. La sua visione etica comincia secondo un processo quasi primitivo, s'organizza intorno all'affermazione dei valori della famiglia, intesa come centro di uomini di caratteri e di indefessa operosità, si prolunga nella patria organo di valori spirituali e di azione economica. Più che una teoria l'Einaudi ha un sentimento della patria, la vede come esercizio di vita degli individui: attraverso la tradizione essa gli attesta la continuità dei nostri sforzi, il permanere della personalità dei singoli, la coerenza vitale degli affetti. Visione patriarcale e ristretta, ma assai feconda finché resti entro i limiti della vita sentimentale.





    Di qui senza angustie accademiche l'amore per l'operosità lo conduce a una visione nitidissima delle figure dello scienziato e dell'uomo pratico: non come distinti schemi, ma come classici ideali di vitalità umana. Nell'uno e nell'altro vuole la franca semplicità e il sereno sacrificio che soli possono fondare una responsabilità sociale. Esempi concreti la devozione con cui esercita la sua missione di maestro e la preoccupazione assidua dello scienziato per i pratici interessi e per l'attività dello Stato.

    L'esperienza della Scuola lo ha condotto ad un esame del problema che bene si conforma con le sue generali convinzioni. Dall'Einaudi la Scuola è affermata come liberistico contatto di idee da cui scaturisce lo sviluppo della scienza. Questo è il sostanziale valore educativo della Scuola, questa la sua utilità vera, corrispondente ad una necessità intrinseca. La scuola utilitaria non è scuola ed è economicamente un pessimo affare: su questa identità di morale e di economia l'Einaudi rivolgerà ancora più profondamente la sua riflessione. Le professioni non si studiano astrattamente, ma si imparano mentre si esercitano. La scienza deve valere come esperienza interiore che tempra le capacità e i caratteri. Le premesse dell'empirismo, rettamente intese conducono a idealistiche conseguenze. Il problema suscita anche nella pratica valori liberali. Non spetta allo Stato la costituzione di scuole per un'etica necessità, non deve l'attività generale sostituirsi all'iniziativa dei singoli. La scuola, come scuola etica, è organo di Stato: ma la sua eticità non scaturisce dal mero fatto della sua esistenza; è invece frutto dello sforzo creativo con cui la vogliono gli individui poiché ogni risultato vale per la fermezza e la serietà con cui ognuno lo ricerca. Perciò Einaudi crede a una scuola di Stato creata direttamente dal concorso economico di chi la frequenta (Gli ideali di un economista, Firenze "La Voce " 1921).





Storia e liberismo

    Come vede la scuola così vede lo Stato - dialettico risultato di singole volontà liberamente operanti; ma la complessità di questa funzione sociale sfugge talvolta alla sua teoria, ed è intesa limitatamente secondo parziali elementi empirici. Le ragioni dell'inadeguatezza della sua visione generale si devono ricercare nei limiti della formazione della sua cultura.

    Confessa l'Einaudi di essere stato nella giovinezza "lettore appassionato, quasi monomaniaco di libri inglesi " (op. cit. p. 153). Una misura a questa intemperanza gli è venuta soltanto dall'amore per la pratica che già nel Principe Mercante corregge con una diretta esperienza le astratte formule apprese. Infatti il centro fecondo del pensiero einaudiano che gli permette di superare agevolmente gli schematismi teorici consiste in un intimo scetticismo verso tutte le formule (anche le proprie) e in una fiducia assoluta nella inesauribile attività degli uomini. I fatti superano le idee, nella praxis c'è la verità. Questo concetto, frutto naturale dell'esperienza dell'industrialismo inglese, non accettato semplicisticamente a mo' dei pragmatisti, non è elevato a canone di interpretazione filosofica, ma resta verità aderente all'individuo che l'ha pensata, nei limiti delle esperienze che l'hanno generata, reazione alle pretese degli intellettualisti nel mondo dell'economia, necessaria premessa di un libero esame dei fenomeni sociali. Pieni di interesse sono gli sviluppi che l'Einaudi ne ha tentato nelle sue indagini storiche - Gli studi sulla formazione dell'impero britannico sono, per così dire, il prolungamento ideale di una professione di fede.

    Nella franca coscienza di una giustizia immanente ineluttabile, la vitalità dell'Inghilterra può essere pensata solo in rapporto ad una funzione di necessità che essa abbia nella vita internazionale. Einaudi (educatore) considera il contenuto ideale del mito Inghilterra in relazione alle esigenze degli Italiani. In un'Italia di letteratura e di accademia, ingenuamente sprezzante i valori dell'economia in nome di non so quali disinteressate funzioni dello spirito, egli dimostra la grandezza ideale dell'utilitarismo inglese che, assumendosi per tutti i popoli la funzione del risparmio con uno sforzo che è sacrificio ed eroismo, ha accumulato ricchezze per virtù di infinita intraprendenza e operosità.

    E alle meccaniche concezioni dei nostri industriali, protezionisti perché provinciali, oppone l'esperienza storica la quale prova che nulla importano le fortune materiali, le dotazioni naturali di materie prime. "Non c'è nessuna industria che sia veramente indispensabile alla vita di un paese. La società deve seguire i tempi e mutare continuamente, cosicché l'industria "indispensabile" di un periodo può scendere senza danno ad un grado affatto secondario di importanza e forse scomparire del tutto, lasciando il luogo ad altre industrie "indispensabili" (op. cit. pag. 81). Ossia - per tradurre in linguaggio teoricamente valido queste affermazioni - la pratica si crea gli ideali e le formule di cui ha bisogno e li sostituisce e li distrugge: la serietà dell'uomo di azione consiste nel franco riconoscimento del valore ideale che è intrinseco a tutti i fatti.





    Da questa psicologia è nato l'impero inglese. Rovinarono tutti gli imperi coloniali costruiti in nome di una legge di dominio, di egoismo, di intolleranza (Portogallo, Spagna, Francia, Olanda.) Cadde il primo impero inglese, sorto per l'ideale di uno Stato mondiale di nazioni protezionisticamente legate da vincoli politici ed economici. Ma contro Chamberlain trionfarono Cobden e Bright. L'impero britannico per una curiosa ironia - poiché la storia non si fa con le parole e coi discorsi ma con gli atti e coi fatti (pag. 85) - è nato in nome di una politica nemica dell'imperialismo e della conquista. L'unità dell'impero britannico è valida e operosa anche ora in quanto le varie colonie sono rimaste libere e padrone di sé; hanno potuto trovare con autonoma iniziativa la loro via e la loro legittima funzione storica nella dialettica delle forze moderne.

    L'impero inglese è sorto senza una teoria (pag. 103), per caso, opera d'avventura e di iniziativa continuata instancabilmente attraverso numerose generazioni che hanno realizzato un superiore organismo di vita non per la forza delle leggi e delle armi, ma per il sentimento di una unità imperiale. E qui anche nell'incerto linguaggio di chi muove dall'osservazione economica s'avverte un poderoso pensiero filosofico. L'empirismo nella sua stessa capacità di sussistere e di continuarsi è superiore a se stesso: al disopra degli eventi di ogni giorno l'Einaudi scopre la gran trama della storia. Appassionatamente desideroso di indagare gli intimi risultati dell'azione, la psicologia sociale sotto le formule, l'Einaudi riesce a un insegnamento di profondo immanentismo. Nell'attività, nell'individuo operante, nella spontaneità già esiste inizialmente un'idea, una teoria; alla relazione tra iniziativa e risultato l'Einaudi guarda con una coscienza di eticità quasi solenne e nella sua ammirazione c'è qualcosa di religioso.

    La storia insegna perennemente la fecondità del sacrificio, celebra il trionfo della spiritualità, si serve di tutti gli egoismi per affermare una integrità sociale. La formula dell'imperialismo inglese supera la contingente politica provvisoria di un gabinetto ed ha la sua validità nel suo significato antiutilitarista. "La madre patria deve tutto alle colonie, le colonie non devono essere obbligate a dar nulla alla madre patria". Se questa formula può parere idealistica ai nazionalisti dei sacri egoismi è invero la sola pratica, la sola che possa definire una linea d'azione essenzialmente nazionale; i popoli sono grandi in quanto hanno grandi responsabilità, in quanto vivono e lavorano per chi non lavora, soffrono per chi si accontenta della pace e della mediocrità, si stancano per imprimere un nuovo indirizzo alle cose, per arricchire la società dei loro sforzi.

    A questi ideali realisticamente, l'Einaudi vuol informata la nostra politica di grande nazione, la nostra politica coloniale. I valori morali della religiosità, dell'autonomia, della dignità non valgono solo nel mondo dell'individuo. Einaudi li sa cogliere con tatto squisito nel loro significato sociale e nazionale; sa che i grandi popoli li rispettano anche nei selvaggi.





Socialismo e iniziativa

    Questa fede liberistica, la quale modestamente preferisce rimanere la descrizione o l'autobiografia di un'esperienza psicologica che irrigidirsi in una teoria, è, per logica conseguenza, schiettamente antisocialista e antidemagogica. Repugna all'Einaudi il retorico abuso che tutti gli scribi, ignoranti di ogni savia esperienza economica e tecnica, fanno delle frasi già costrutte, delle magiche parole libertà, progresso, democrazia. Tanto gli repugna che si rifiuta di indagare sotto quelle frasi fatte un senso qualunque e ne contesta ogni spiegazione o giustificazione.

    Critica e ironia perfette in uno stile preciso e penetrante di grande scrittore (leggere l'articolo Il governo delle cose) si ritrovano nell'esame del socialismo di stato e del collettivismo, dove l'odio per le vuotezze declamatorie lo conduce addirittura ad un vizio di unilateralità e di esclusivismo. Marx resta pur sempre per l'Einaudi soltanto il tipo del cattivo ricercatore, il negligente raccoglitore di dati che generalizza senza sufficienti basi analitiche, l'economista o ingenuo o in malafede che si è fermato alla formula semplicistica e demagogica del plus valore: un movimento politico ispirato a una figura di cattivo scienziato suscita nel nostro una meditata diffidenza. Né dal punto di vista economico noi sappiamo dargli torto o se con il suo anti-marxismo l'Einaudi intende offrire qualche buona lezione di scienza economica ai saccenti apostoli di nuove pseudo-teorie che in nome di Marx sacrificano Smith e Ricardo, il progresso industriale e il buon senso, siamo volentieri con lui. Ma forse il suo torto sta nell'aver secondato i pregiudizi di falsificatori seguaci e nell'aver guardato a Marx come a economista mentre egli è filosofo, storico, profeta, agitatore politico, ma non può essere economista, perché l'economia si fa sul terreno della realtà e del passato, è l'arte dei governi - ed è ignorata inizialmente dai grandi movimenti che sorgono in nome di un imperioso dover essere. Il semplicismo di Marx economista favorisce la grandezza di Marx costruttore di miti. E anche volendo condannare il mito si deve capire e ammirare la concretezza operosa in cui egli fissò la via della realizzazione - facendone un problema di volontà e di forza. Non pare all'Einaudi che - a guardare acutamente - una vicinanza ideale (quella che unisce tutti i grandi tentativi eroici della storia) si possa ritrovare tra lo sforzo che conduce, in piena libertà e indipendenza, alla creazione dell'impero britannico e la libera iniziativa da cui sorge il movimento operaio in corrispondenza dei reali bisogni e delle reali aspirazioni della civiltà moderna oltre le generiche premesse dogmatiche? E il marxismo non è esso pure, come il liberalismo inglese, una fede formale, un'interpretazione del mondo, un metodo che si oppone validamente ai varii comunismi utopistici appunto in quanto ne nega le formule moralistiche? Anche il movimento operaio è un mirabile esempio di liberismo, anch'esso nasce senza una teoria. E noi pensiamo che il non aver riconosciuto questo fatto (non tanto nell'empiria quotidiana quanto nell'interpretazione storica del mondo moderno) sia il torto essenziale della visione politica di Luigi Einaudi che spesso si è fermato a dare utili consigli tecnici quando si poneva un problema di forza politica e di esperienza popolare. Non si nega che la sua opposizione sia stata effettivamente più utile ai proletari di molte chiacchiere ortodosse: e io penso che proprio per lo stimolo della sua polemica il problema del risparmio e del lavoro tecnico (disprezzati dai vecchi demagoghi del socialismo) siano diventati preoccupazione e oggetto di indagine dei comunisti torinesi: ma forse una più franca simpatia avrebbe meglio chiarito, aiutato ad intendere.





    Avendo identificato il movimento operaio con le sue statiche formule collettivistiche, l'Einaudi lo ha discusso come una forma di socialismo di Stato. Ciò gli poteva essere consentito dall'esame di alcuni risultati empirici d'azione socialista, gli era contestato dallo spirito autonomista e antiburocratico che presiede al risveglio operaio.

    Certo gli ideali del socialismo di stato si possono con molta ragionevolezza definire gli ideali dell'incapacità. Spiacciono all'Einaudi soprattutto i caratteri diseducatori della dottrina: il riformistico e quietistico utilitarismo, l'abdicazione allo spirito di responsabilità e ad ogni effettivo differenziarsi e specializzarsi delle energie produttrici. In uno stadio inferiore di vita sociale, ammessa l'incapacità dell'uomo a pensare da sé, può acquistare un valore provvisorio una pratica di governo che - quasi a preparare un modello - costringa le masse ad un'opera di previdenza, organizzazione, solidarietà. Ma se si deve porre l'antitesi tra Inghilterra e Germania, tra libertà e organizzazione l'Einaudi sta col primo elemento del dilemma. Negare che qui vi siano i residui di astrattismo del "lettore appassionato quasi monomaniaco di libri inglesi" non sarebbe possibile. Poiché appunto in quanto l'antitesi è così recisamente posta, trattasi più di una questione di linguaggio che di una questione sociale. Libertà e organizzazione son termini correlativi che non si distruggono, ma reciprocamente s'inverano e non si possono ipostatizzare o quasi identificare con due diverse nazioni dove la stessa parola ha una diversa storia e i rapporti tra due identiche designazioni sono profondamente diversi. La "libertà" degli inglesi non è sinonimo della "libertà" dei tedeschi, anzi piuttosto dell' "organizzazione" e viceversa.

    Anche qui la spiegazione della preferenza dell'Einaudi è di natura teorica e si manifesta poco dopo. "La esperienza storica prova essere impossibile governare secondo "ragione"; ed essere un fatto incontroverso che i sentimenti, le passioni ed anche i pregiudizi degli uomini sono una forza di valore grandissimo di cui devono tenere assai conto la scienza e l'arte di governo" (op. cit. pagina 212).

    In questo riconoscimento della praxis consiste dunque sostanzialmente il suo liberismo che è una fede non una dottrina, e perciò intollerante ma non dogmatica. In siffatta concezione il liberismo economico benché rimanga talora astratto e limitato tende a inverarsi in un superiore liberismo spirituale. "È preferibile di gran lunga uno stato di libertà di scambi raggiunto in seguito alla esperienza di errori protezionisti, che non un libero scambio imposto dalla civiltà della barbarie". L'intima natura spiritualistica del liberismo dell'Einaudi riesce infine a esprimersi in termini teorici precisi e adeguati, superando le difficoltà dei pregiudizi antifilosofici, nella limpida e vitale professione di fede: Verso la città ideale. Qui all'ordine, all'autorità, alla disciplina, al dogma viene contrapposto il mito della lotta, del disordine, della disunione degli spiriti. Certi spunti addirittura hegeliani, indipendenti da Hegel e consci della propria importanza, stupiscono in un empirista. "L'idea nasce dal contrasto. Se nessuno vi dice che avete torto, voi non sapete più di possedere la verità... Il giorno della vittoria dell'unico ideale di vita la lotta ricomincerebbe perché è assurdo che gli uomini si contentino del nulla... La Storia insegna la fine di tutti gli Stati che vollero imporre un unico ideale di vita". E se l'ordine (dogma) potrebbe essere il regno della felicità, l'Einaudi vede nella guerra europea la sua negazione, la sua repugnanza con la concreta responsabilità degli uomini. Perciò "milioni di uomini morirono per allontanare dall'Europa l'amaro calice della felicità e dell'unità spirituale". Non si saprebbe trovare altrove una critica più esplicita e più solida a tutti i dogmatismi - dal cattolico al democratico.





Lo Stato

    Ora si può esaminare la teoria dello Stato in cui conclude il pensiero di Einaudi. Lo Stato dei moralisti, è negato in nome di una più profonda eticità nazionale. Accetta dal Treitzsche l'esigenza dello Stato-forza e interpreta accuratamente "non forza fisica come fine a se stessa: forza per proteggere e promuovere i supremi beni dell'uomo". Critica poi l'assenza in Treitzsche di un positivo ideale etico e l'attribuisce alla mancanza di spirito filosofico. Qui la critica è incongruente e la mancanza di spirito filosofico rimproverata è invece la negazione, che Treitzsche coscientemente instaura, di ogni filosofia dell'essere, d'ogni filosofia non dialettica. L'eticità di Treitzsche è quella stessa che altrove pressa l'Einaudi, ossia formale: etica di attività (Kant contro la morale cristiana).

    Lo Stato di Einaudi è morale in quanto aderisce alla morale attività dei cittadini e ripudia ogni funzione distinta da quella dei singoli, ogni astratto compito di elevazione e di illuminismo. Di questa teoria egli scopre soprattutto i motivi polemici e ne mette in chiaro le conseguenze empiriche. II suo Stato è concepito come "ente il quale assicura agli uomini l'impero della legge ossia di una norma esteriore puramente formale, all'ombra della quale gli uomini possono sviluppare le loro qualità più diverse, possono lottare tra loro per il trionfo degli ideali più diversi" (op. cit. pag. 345). "Noi vogliamo l'unità, ma conquistata vivendo e soffrendo, elevandoci al di sopra della materia, del godimento bruto". Volendo essere anche più espliciti l'unità come mito, come ideale "l'impero della legge come condizione per l'anarchia degli spiriti"; la forza nella vita estrinseca; l'unità limitata alle forme e alle condizioni di vita. Posta questa visione dialettica e relativistica il criterio di ogni esame è nell'intima lotta: lo Stato democratico non si può più accettare come governo del numero, delle maggioranze, ma come risultato di un perenne dissidio in cui la maggioranza sussiste in funzione di una minoranza. Così si deve intendere la sua polemica contro ogni forma di ostacolo alla libera discussione, che giunge anche ad accettare 1'ostruzionismo (non per un vuoto libertarismo).





Anglofilismo e tradizione piemontese

    Spiegata ed esposta organicamente la parte viva dell'anglofilismo di Luigi Einaudi resta - affinché la visione sia completa - che se ne caratterizzino i limiti e se ne indichino i punti deboli e le contraddizioni.

    Si trovano le contraddizioni tutte le volte che l'ideale psicologico diventa ideale politico concluso ed esplicito. L'anglofilismo ha i suoi torti a priori: per l'arretrata economia italiana una formula di vita inglese, culturalmente accettata e assimilata, diventa un ideale trascendente, una norma d'azione non giustificabile in quanto non esistono tra noi quelle forze che la rendono vitale nel suo luogo d'origine. L'aristocrazia tecnico-borghese che governa l'Inghilterra è tra noi in uno stadio appena iniziale: le parole che l'Einaudi rivolge a questo nucleo nascente (trascurando gli altri sforzi moderati) devono tragicamente diventare nella situazione generale italiana prediche senza effettuazione. Pare di sentire talora l'eco del Ferrara.

    In verità la posizione dell'Einaudi ha storicamente i suoi punti di coincidenza con la posizione di Ferrara e di Cavour. Il problema di Ferrara: creare nel piccolo Piemonte la scienza inglese della modernità, è connaturato al progresso della nostra scienza e della nostra industria: ma nell'Einaudi il lungo studio amoroso della vita economica piemontese (I) e la comprensione ferma dell'opera empirica cavouriana cercano di dare ai termini teorici dell'esigenza una pratica concretezza adeguata alla nostra tradizione. Volendo chiarire drammaticamente queste note esegetiche - lottano in Einaudi lo storico e l'economista, il pratico e lo scienziato; insomma due liberismi: Cavour e Ferrara. L'Einaudi supererebbe il dissidio quando nel suo giudizio sulla personalità cavouriana si levasse al disopra delle intenzioni e dei pregiudizi dell'uomo, sino a intenderne in una nuova teoria tutta l'azione reale. Finché egli valuterà Cavour secondo una visione ferrariana alcuni intimi motivi del Risorgimento Italiano gli sfuggiranno inesorabilmente e il suo tradizionalismo, la sua politica storica che vuol muovere da "concrete e precise esigenze nazionali" saranno soffocate da un astratto anglofilismo. C'è nell'umile realtà del Piemonte dell'800 (da cui è nata l'Italia) qualcosa che supera gli elementi della cultura inglese.

    Nell'esame dei grandi problemi internazionali l'Einaudi, accettando l'impostazione inglese, ha dimenticato talvolta, momentaneamente, le più care idee della tradizione e persino la più vigorosa: l'idea di una monarchia forte come la sabauda del '600 e del '700. Questi errori sono dovuti al concetto che egli si è fatto della funzione dell'Inghilterra nel mondo moderno. Seguendo il Beer, l'Einaudi è disposto a scorgere nella nazione imperiale la pacifica unificatrice dei popoli, l'annunziatrice della Società delle Nazioni. Ma l'Inghilterra ha una funzione a patto di esplicarla sempre nuova; è un risultato della storia e avrà il suo valore nella storia futura in relazione alla sua volontà e agli imprevedibili eventi, non per uno schema metafisico prefisso. Questo noi abbiamo imparato dall'Einaudi: quando egli deprecava un disastro navale dell'Inghilterra come selvaggio delitto, noi avremmo potuto ricordargli, quasi con parole sue, che l'Inghilterra è immortale finché sa esserlo, e non ha da temere disastri navali finché possiede una funzione nella storia, ma la sua rovina sarebbe indeprecabile quando altri fosse più adatto a soddisfare il suo stesso compito.





    Le simpatie per il federalismo inglese e per la Società delle Nazioni, muovono dalle stesse premesse della teoria di Normann Angel. Ma Luigi Einaudi è meno dogmatico e sola raramente astrattista. Anche nella sua enunciazione di un pregiudizio si sente lo sforzo di andare oltre, di non irrigidire il pensiero in un luogo comune.

    Se lo Stato isolato è economicamente impensabile nella società moderna - superato del pari - ne deducevano gli economisti - deve essere l'antico Stato sovrano assoluto e indipendente entro i limiti del proprio territorio. Si sostituiva ad una concreta esperienza politica, ricca di una storia, la generalizzazione di uno schema economico.

    Il fatto notato per l'economia è vero: e all'esigenza stanno provvedendo, dovranno provvedere i reali fattori tecnici della produzione mondiale. Il liberismo economico è in questo terreno perfettamente valido e sicuro. Ma le conseguenze politiche che se ne vogliono trarre definiscono generiche aspirazioni e rettoriche letterarie. L'Einaudi si è sforzato di porre in un organismo politico concreto questi ideali, ma s'è dovuto arrestare a indicazioni di attività, comuni ad altri Stati e di indirizzi diplomatici preferibili. Quando ha compreso che la Società delle Nazioni si sfasciava di fronte alle concrete individualità nazionali il teorico dell'Inghilterra ha ceduto il posto allo storico. La Società delle Nazioni è diventata per lui la formula comprensiva di una politica realistica da attuarsi nella relatività della pratica: riconoscimento della reciproca dipendenza delle nazioni nel campo economico, liberismo, collaborazione produttiva. L'esperienza di astrattismo prima descritta è nettamente superato e rimane come documento storico di incertezze teoriche.





Economia e morale

    L'ultima forma di questa sempre identica incertezza (che contribuisce sostanzialmente a caratterizzare l'Einaudi e ne fa uno spirito inquieto, ricco di problemi complessi, lontano dalle aridezze dei tecnici della economia) esula dal nostro esame specifico e solo si può brevemente studiare come ritratto del dissidio tra scienziato e politico, tra moralista e osservatore di fatti economici. La soluzione è data dalla filosofia che definisce scienza e morale come valori di forma, come assoluti che governano il mondo dello spirito e sono anzi propriamente la descrizione del mondo dello spirito e del suo processo e considera la politica e 1'empiria come risultati della libera operosità degli individui suscitata di momento in momento da tutta una realizzazione storica passata. Le leggi della morale si effettuano nei fatti politici ma non li determinano a priori nel loro contenuto. Ha ragione l'Einaudi quando dice che "la scienza economica è subordinata alla legge morale e nessun contrasto vi può essere tra quanto l'interesse lungi veggente consiglia agli uomini e quanto ad essi ordina la coscienza del proprio dovere verso le generazioni future". E certo, senza pretendere di giudicare qui l'attività dell'Einaudi scienziato, tutta la sua importanza nella storia della dottrina consiste essenzialmente nell'aver riportato la Scienza delle Finanze dalla molteplicità disorganica della raccolta di fatti ad un organismo unitario ove sono spiegati i motivi di azione e la genesi della realtà economica secondo un processo aderente alla dialettica della società.

    Questa considerazione formula dei fatti economici è la sola che possa giustificare il concetto di una economia scientifica non abbandonata all'arbitrio dell'empiria. Ma se è al disopra dell'empiria questa scienza non la potrà afferrare e prevedere e il giudizio che pretenderà dare a priori del fatto singolo dovrà avere soltanto un valore astratto di esempio; ogni rigorosa deduzione sarebbe ridicola ed erronea; il fatto singolo in quanto si deduce da una legge non è più fatto singolo, ma scientifico; il concetto economico che è concetto a patto di non avere contenuto contingente ed intero vale per il singolo ma non è legge sociale penetrabile. La pratica insomma è spiegata, non creata dalla teoria della pratica.





    L'Einaudi ha visto questo problema più chiaramente di ogni altro con l'identificazione (formale) di economia ed etica (a parte ogni ulteriore distinzione che l'indagine debba introdurvi): ma non sempre ha abbandonato la pretesa di prevedere la realtà sociale secondo la sua scienza economica: Onde le prediche e le disillusioni.

    L'esperienza gli ha dato, quasi tragicamente, il senso del farsi della storia, superiore a tutte le leggi, coerente solo a se stessa. L'oggetto universale ed esterno della scienza può consistere soltanto in questa coerenza. Di qui la sicurezza e la serenità, (rara in un economista) con cui l'Einaudi viene giudicando in questi ultimi anni la realtà e la sua opera stessa. Lo studiare a priori fatti singoli del mondo pratico è ancora fatto singolo pratico; lo scienziato diventa e deve diventare uomo, coerente a se stesso: ma tutta la sua scienza acquista solo più il valore di esperienza individuale; non gli si può chiedere l'infallibilità. La praxis dell'uomo di scienza parrebbe contraddire la sua teoria. La storia soltanto invera i due momenti, inquadrando quello che era un fatto singolo, irrealizzato, non valido che come fatto psicologico, nelle leggi di un processo eterno. Di questa coerenza superiore, senza altre intellettualistiche preoccupazioni deve appagarsi il teorico che ha saputo ascoltare la responsabilità e l'imperativo categorico che lo traevano all'azione. Luigi Einaudi ha aiutato tutti gli studiosi alla soluzione del problema, affrontandolo nei suoi termini morali e risolvendolo indipendentemente dalle antinomie filosofiche.


PIERO GOBETTI.