L'AGRICOLTURA PIEMONTESE
IV.1. - VITE E VINO - Attualmente la cultura della vite occupa in Piemonte una superficie di ha. 290.000 all'incirca, dei quali da 70 a 80.000 a cultura specializzata, e la produzione, in complesso assai variabile da anno ad anno, si aggira in media attorno ai 6 milioni di ettolitri, (1909-14). Per quanto incerti siano i dati delle epoche passate, pure si può dire che verso il 1880, la produzione del vino in Piemonte ascendeva a circa 4 milioni di ettolitri con una cifra notevolmente superiore a quella che si può desumere dall'annuario del 1864, non superiore ai 3.500.000. Ma nel quarantennio, come si vede, l'incremento è stato notevolissimo e, ciò, malgrado che il commercio coll'estero, abbia avuto un contraccolpo assai grave dalla chiusura del mercato francese nel 1887, e dalla forte diminuzione dell'esportazione italiana verso l'Austria-Ungheria dopo il 1901. L'aumento della produzione complessiva è stato più rapido che l'aumento della superficie coltivata (quest'ultima intorno al 1880 saliva a circa 250 mila ettari) quindi è stato anche notevole l'aumento della produzione unitaria (da 16 a 21 hl. per ha. in media). All'incremento della produzione vitifera, si accompagna pure un progresso importante nella coltivazione e nell'industria enologica. È nota la forma dei vitigni Piemontesi. Scrive a proposito il Bonnefon-Craponne: "les meilleurs crus de vins rouges se produisent en Piémont. Nous connaissons peu, en France, le barolo, le gattinara, le grignolino, le barbaresco, le barbera. Ils ressemblent trop à nos bordeaux ou à nos bourgogne, sans toutesfois les égaler: le palais de nos gourmets; habitués au velouté et au bouquet du château-lafite, du pommart, du vougeot, n'a aucune raison pour leur préférer l'arome plus rude, la saveur plus agreste des vins piémontais"(1). Indicati alcuni dei principali vitigni, e precisata la qualità dei loro prodotti, rimane da dire che si è attivamente lavorato negli ultimi decenni per adattare i vitigni alle qualità dei varii terreni, eliminando quelli che in certi territori non possono prosperare, e migliorando quelli che vi attecchiscono bene. Cosicché taluni vitigni si vanno affermando in certe zone in modo predominante con progressiva esclusione di altri vitigni, e le pratiche culturali sempre migliori che si vanno introducendo contribuiscono senza dubbio a migliorare la produzione di ciascuna qualità (2). Non solo, ma questo concentramento dei vitigni nelle zone più adatte al loro prosperare contribuirà sicuramente ad ottenere quella costanza di tipi che tuttora ci manca e che non poco ci nuoce nel commercio coll'estero. E ad ottenere questo scopo occorrerà una solida costituzione di industrie enologiche, ed un maggior sviluppo di cooperative di produzione per la lavorazione del vino con quella modernità di criterii e di mezzi che è indispensabile per conseguire un esito sempre più largo e più proficuo. Non si può negare che in Piemonte si sia ben avviati verso tale condizione di cose, e che per merito di varie nostre case produttrici alcuni nostri vini abbiano acquistato all'estero una fama ormai indistruttibile, ma si è ancora lontani dalla mèta che si potrebbe raggiungere. Le industrie già sorte qua e là, non esercitano ancora un'attività uniforme; coordinata quale si vorrebbe. L'ideale sarebbe che in ogni zona vinicola esistessero forti stabilimenti enologici ai quali convergesse l'uva prodotta dalla zona stessa: allora, senza dubbio, si avrebbero tipi unici e costanti per ogni qualità di vino: ed il vino, prodotto secondo le più razionali regole, si conserverebbe per maggior tempo, sarebbe più resistente ai trasporti, ecc.; senza notare che per stabilimenti di questo genere, sarebbe più facile l'utilizzazione dei sottoprodotti. Questi stabilimenti potrebbero poi accordarsi, organizzando il commercio del loro prodotto; ed avrebbero il vantaggio di poter resistere vittoriosamente alle crisi (3), di sopraproduzione e talora condurre il traffico coll'estero direttamente o con il minimo di intermediari. Cosa accade invece adesso? I viticultori, benché cedano generalmente notevoli quantità di uva sia ai produttori-consumatori che agli stabilimenti enologici, i quali ultimi, salvo pochi, hanno una limitata attività, producono direttamente non piccola parte del vino che va in commercio. Essi, in base a pronostici più o meno felici sull'annata commerciale del vino, cedono una diversa quantità di uve agli acquistatori e spesso si lasciano indurre a tentare direttamente la speculazione, nell'infondata credenza di bene prevedere le vicende della prossima annata e colla convinzione di produrre vino secondo norme impeccabili. Ne viene, spesso, che, in tempi normali, le loro speculazioni falliscono; che essi evitano un vino scadente con non poca difficoltà, aumentata questa, dalla diffidenza che creano intorno a loro mediante le frodi a cui spesso si abbandonano.(4) Il Tommasina menzionando la lagnanza frequente che di solito si beve male e si paga caro, ne trova le ragioni in due ordini di fatti, soprattutto: "1° - per ciò che concerne la fabbricazione del vino; nell'opinione ancora in voga presso i viticultori, di essere altrettanti enotecnici e perciò, benché privi di mezzi adeguati, fermi nel voler confezionare da sé il vino colle proprie uve; "2° -per ciò che riguarda il commercio dei vini, nella disorganizzazione, nella intromissione di troppi intermediarii; nella mancanza di libera circolazione per effetto delle barriere daziarie"(5) Ragioni quasi analoghe spiegano la limitata diffusione delle cantine sociali. Scrive il Mondini: (6) "Nel nostro paese lo spirito di associazione non è molto sentito in generale, e tanto meno nei viticultori il cui sentimento individualista è spinto all'eccesso. In ogni viticultore, infatti, è assai radicato il convincimento che il suo vigneto sia il meglio coltivato; che le sue uve siano le migliori, che il suo vino non tema qualsiasi confronto. Con questo convincimento è assai difficile che egli riesca a separare la sua personalità dal prodotto che ha saputa ottenere, ed è questo l'ostacolo principale tanto più forte quanto meno è confessato, contro il quale debbono lottare coloro i quali volenterosamente si accingono alla propaganda in favore delle cantine sociali. "Di fronte a tutti i vantaggi di una lavorazione in comune, resta sempre sospeso nell'animo del singolo produttore il sospetto di incorrere in una rinunzia a favore di terzi dei benefizi spettanti a lui esclusivamente. La rinunzia diventa possibile solo nel caso in cui dal suo prodotto non riuscisse a ricavare qualche cosa di più, anche minima, delle spese sostenute per ottenerlo. "Esse (le cantine sociali) sorgono e si sostengono solo quando in una plaga il prezzo di vendita del vino non arrivi più a compensare le spese di produzione. Forse questo fatto si è verificato già in qualche provincia, e ciò spiega la diffusione che vi hanno raggiunta simili istituzioni"(7). Ad ogni modo in Piemonte quelle che vi esistono hanno vita prosperosa e producono benefici effetti. "Il che non deve fare meraviglia pensando alla loro utilità; solo c'è da rammaricarsi che il loro numero sia troppo esiguo in confronto colla grande attività che procurano. Ed ogni sforzo deve essere fatto perché il loro numero cresca; come pure cresca il numero e l'importanza degli stabilimenti enologici, per i vantaggi grandi che da questi sviluppi è ragionevole di attendere (8). E cerchino le case nuove che si vanno formando e quelle già avviate che si vanno consolidando di adottare le norme più scientifiche, quanto alla produzione; e i suggerimenti che dà l'esperienza del commercio mondiale dei nostri giorni sopra i gusti degli altri popoli sia per la qualità che per la presentazione della merce, quanto all'esportazione della merce stessa. Ai mali che affliggono la nostra produzione vinicola si aggiungono le sofisticazioni per le quali si spacciano in Italia e all'estero produzioni di qualità secondaria sotto il nome di taluni vini di fama assicurata, sofisticazioni contro le quali siamo stati sinora assai male difesi e che richiamano sempre più sopra di sé gli studi degli interessati e dei competenti onde trovar modo di combatterle efficacemente (9). Flagello grave, che si propaga in modo inquietante anche nel Piemonte, è la fillossera. I danni maggiori sono stati prodotti da essa in provincia di Novara, dove però è bene avviata la ricostituzione dei vigneti su viti americane innestate, ma anche nelle altre località dove il pericolo incombe i viticultori lottano tenacemente non badando a sacrifizi e cercando anche, nelle ricostituzioni, di avere nuovi vigneti con qualità migliori di vitigni rispetto a quelli precedenti. Peccato che la loro buona volontà, non accompagnata sempre da conveniente discernimento, sia sfruttata da speculatori disonesti che badando unicamente alla propria fortuna non pensano ai danni enormi che possono arrecare alla viticoltura in quei luoghi dove, abusando della ignoranza dei contadini, diffondono barbatelle di scarsa o nulla resistenza alla distruzione del terribile insetto. Contro l'opera di costoro fu votata dalla Camera il 6 agosto 1920 una legge intesa a sorvegliare la produzione e il commercio di talee, barbatelle selvatiche ed innestate di viti americane. I viticoltori coi risparmi fatti in questi ultimi anni potranno validamente fronteggiare il nuovo pericolo, dove esso si è presentato, e proseguire in quel progresso tecnico che le crisi del mercato internazionale stimolarono sia nel campo immediato della coltivazione, sia in quello dell'industria enologica. Si ha ora l'impressione che un passo molto avanti si debba fare in quest'ultima, specialmente in ciò che riguarda la sua organizzazione dal lato commerciale. Un poderoso risveglio, manifestatosi di recente in notevoli pubblicazioni e che prosegue tuttora, lascia pensare che ci mettiamo finalmente sulla via per prosperare ed espanderci in questo importante ramo di produzione nel quale il Piemonte occupa il primo posto. Nelle opere citate si potranno trovare notizie riguardanti il commercio dei vini fra le varie località della regione, le varietà prodotte, l'opera svolta dal Governo in tutta l'Italia per salvaguardare dalla fillossera i nastri vigneti, notizie che ho creduto di non riportare qui (10). 2° - FRUTTA - È una produzione che in Piemonte occupa un posto molto importante e merita di essere in modo speciale considerata. Non soltanto per la quantità complessiva prodotta la nostra regione è assai progredita, ma anche per la tecnica della coltivazione: s'incontrano in varie località frutteti dove la coltivazione stessa è portata alla massima intensità. Ottimi frutteti troviamo in Giaveno, in provincia di Torino; "in territorio di Alba, nel Canavese, segnatamente nei terreni morenici tra Ivrea, Santhià e Biella; sui mercati di Canale, centro di una regione fertile, a terreno calcareo sciolto, profondo, ricco di sostanza organica, passa nel corso della stagione un quantitativo di pesche per circa un milione di miriagrammi" (Lissone). "Giova notare la provincia di Cuneo, nella quale la coltivazione dei frutteti abbraccia tutta la zona subalpina, cioè dai 400 ai 650 metri di altitudine, lungo il cerchio delle Alpi marittime. Tra i frutteti predominano i peri e i meli. La produzione è notevolissima. A dire del Prof. C. Remondino, da un solo comune, quello di Barge, partono annualmente circa 1.000.000 di miriagrammi di mele" (Forbani). Il frutto del noccioleto ha nel circondario di Alba un'importanza specialissima. Il genere in cui il Piemonte primeggia è la produzione di mele, pere, cotogne e melagrana. La stessa regione occupa il secondo posto (dopo la Toscana) nella produzione delle castagne. È pure notevole la produzione di frutta polpose, ed ha qualche importanza in provincia di Alessandria la produzione di uva da tavola. Ecco alcune cifre sulla produzione: Mele, pere, cotogne e melagrani . . . Ql 600.000 Castagne . . . . . . " 1.000.000 Frutta polpose . . . . . " 110.000 Uva da tavola (prov. Alessandria) . . . " 7.000 Questi dati, presunti da varie pubblicazioni, non sono se non lontanamente approssimati, ad ogni modo, siccome si suppongono desunti cogli stessi criteri, per tutte le regioni, si prestano per opportuni confronti tra le regioni stesse. Non abbiamo cifre per fare confronti con epoche passate, ma dal confronto delle descrizioni fatte dall'Inchiesta Agraria con quelle recenti, o da testimonianze di competenti, si può dire che il progresso è stato grande. Ma rimane ancora molto da fare. Il Briganti enumera ed illustra i difetti della frutticoltura in Italia, difetti che essenzialmente si possono ridurre ai seguenti a) Errori negli impianti e poca cura nella scelta delle varietà che si propongono. b) Tecnica colturale deficiente. c) Disorganizzazione della produzione. d) Deficiente istruzione a favore della frutticoltura (11). Gli alberi da frutta sono coltivati promiscuamente con altre colture, e si annette ad essi una importanza secondaria per cui si lascia che crescano alla ventura con poche e punte cure. Tolte alcune località tale è1'aspetto della frutticoltura quasi dappertutto. Eppure la coltura stessa, anche così promiscuamente esercitata, sarebbe meritevole di maggiori sollecitudini, specialmente da parte dei piccoli proprietari viticultori che nel suo prodotto potrebbero trovare un elemento compensatore in epoche di crisi per la produzione principale, ed avrebbero quindi convenienza non solo di maggiormente curarla, ma anche di estenderla in consociazione colla vite. Contribuiscono a far sì che la nostra produzione sia ancora piuttosto in arretrato la disorganizzazione dei produttori, il loro isolamento, la loro difforme attività specialmente per ciò che riguarda il commercio con l'estero. Sul commercio di questi prodotti notiamo che dalla provincia di Alessandria escono principalmente ciliegie, uva da tavola, noci nocciole in modesta quantità, dalla provincia di Cuneo escono in notevole quantità mele, pere, noci e nocciole, dalla provincia di Novara, pere e mele in notevole quantità, anche per produzione di sidro; le stesse frutta oltre che discrete quantità di ciliegie e di noci, escono dalla provincia di Torino. Assai oscillante è stata nel quarantennio la produzione delle castagne almeno per quel che risulta dalle statistiche. Nel quinquennio 1870-74 la media produzione annua fu di 733.101 quintali su una superficie di ha. 64.774, cifre che si accordano con quelle che possano desumersi dall'annuario del 1864, con un prodotto unitario di oltre 11 quintali per ha. Poscia superficie e produzione complessiva diminuirono fortemente in Piemonte (e in tutta la penisola) per poi ascendere di nuovo negli ultimi anni ad una produzione complessiva di circa 1.000.000 di quintali da un'area di oltre 100.000 ha. ma con un prodotto unitaria di meno di 10 qu. per ho. Ciò indicherebbe che questa coltura o si è estesa su terreni inadatti o è complessivamente peggiorata, riserva fatta della verità delle statistiche. Le provincie che producono in maggiore quantità le castagne sono quelle di Torino e di Cuneo. 3° - GELSI E BOZZOLI - Queste due produzioni unitamente connesse fra di loro sono in decadenza. E ciò si può dire malgrado l'accenno non trascurabile di ripresa manifestatosi nel periodo bellico sotto la attrattiva dei prezzi elevati. La produzione di bozzoli che secondo l'annuario del 1864 era già di oltre 90.000 quintali si è progressivamente ridotta tanto, che pel sessenio 1909-14 supera a mala pena i due terzi di tale cifra. Non si sa a quanto ascendesse in epoche passate la produzione della foglia di gelso, certo è che oggi deve essersi ridotta in proporzione della produzione dei bozzoli: essa ammonta per il sessenio 1909-14 a poco più di 1.600.000 quintali ma si tratta naturalmente di cifra assai incerta data la particolare difficoltà della rilevazione. La diminuzione notata avviene in tutta la penisola ma è particolarmente grave nella nostra regione (12). Il Piemonte per complessiva quantità di prodotto viene dopo la Lombardia ed il Veneto, a distanza assai notevole però; non di meno esso tiene sempre un'importante posizione, ed il mercato di bozzoli di Cuneo, è il più grande della penisola. Quali sono le ragioni per cui questa coltura è in decadenza? Gli studiosi ne indicarono parecchie e talora quelle indicate dagli uni furono negate dagli altri: come per esempio lo scarso reddito. Si può essere tutti d'accordo che una di esse, se non la principale, è la negligenza del Governo di fronte ad una produzione di capitale importanza per l'economia nazionale. Vi fa non poche dolorose considerazioni il Bonnefon-Craponne nel citato suo bel libro e ne accenna anche, per interposta persona, (Les Mauvaises langues egli dice), la vera e maggiore causa, cioè la nessuna influenza elettorale delle persone, donne in maggioranza, dedicate alla bachicoltura. Ma la principale cagione della decadenza, al mio avviso, risiede principalmente nelle migliorate condizioni economiche delle classi rurali. L'industria del bachi è essenzialmente industria casalinga e serve per arrotondare la somma dei proventi della famiglia rurale. Ora è naturale, che quando questi proventi aumentano per altre fonti assai più cospicue vi sia tendenza a trascurare sempre più quelle minori. L'allevamento dei bachi è opera affidata alla piccola mano d'opera, e tuttavia importa lavoro assai faticoso per la raccolta della foglia, e cure assidue per tutta la durata dell'allevamento. Quando i redditi delle classi agricole erano scarsi ci si attaccava molto volentieri anche al provento di questa industria: coll'aumento dei salarii e quindi col maggiore apprezzamento della mano d'opera impiegata in questo lavoro in confronto coi possibili risultati; coll'accrescersi della prosperità, nella famiglia del contadino si è cominciato a ritenere che non vale la pena di darsi tanta briga per guadagnare una somma che, se una volta aveva gran peso nel bilancio domestico, comincia a diventare poco più che trascurabile. Anche nelle famiglie più modeste dei braccianti l'industria non ha più l'importanza che già ebbe. Intanto l'urbanesimo ha diradato anche questa categoria di persone dalle campagne. Poi in questa stessa categoria la piccola mano d'opera non trova sempre una rimunerazione sufficiente nel ricavo netto del prodotto, ed ama sempre meglio impieghi di altro genere. Si aggiunga che i proprietari di solito ricavano quasi niente dalla foglia prodotta dai loro gelsi; i quali non di rado sano spogliati senza che sappiano da chi: di qui l'abbattimento dei gelsi che ai proprietarii non rendono nulla, a meno che si dedichino essi stessi alla bachicoltura pratica la quale, come ho notato, trova sempre minor lavoro. Come se ciò non bastasse per i poveri gelsi, c'è venuta la diapsis pentagona contro la quale finora pare che non si sia fatto altro che delle leggi. Queste impongono ai proprietari dei rimedii costosi, a cui costoro non si sottomettono volentieri; "Les paysans trouvent que le jeu ne vaut pas la chandelle. Les régions où les autres cultures prospèrent appliquent le remède radical: on coupe les mûriers et l'on ne parle plus de vers à soie (Bonnefon-Craponne). In provincia di Cuneo ed altrove contro questo malanno si è iniziata la lotta e la difesa in modo collettivo; in base di speciali consorzi, e si è assai lodato questo metodo. La gelsicoltura impiantata secondo nuovi metodi e un'istruzione tecnica più divulgata, lasciano a taluni sperare un possibile grande sviluppo della bachicoltura in Italia. Speriamo pure; non c'è da augurarsi di meglio che un rigoglioso rifiorire di questa produzione in Piemonte e in Italia, ma sinora dei sintomi che diano sicuro affidamento di questa rifioritura nella nostra regione almeno, non ne vedo. Patate, Legumi, Ortaggi1° - PATATE - L'annuario del 1864 indica una produzione che per l'attuale Piemonte si può ragguagliare suppergiù ai 550.000 quintali. La produzione attuale si aggirerebbe intorno a 1.900.000 quintali, sopra un'area di 30.000 ettari, segnando un enorme aumento gradualmente (secondo che indicano le statistiche successive al 1864), durante il lungo periodo. Per la produzione complessiva il Piemonte viene subito dopo gli Abruzzi 2.800.000 quintali) e la Campania (2.700.000 quintali). 2° - LEGUMI - Tengono il primo posto i fagiuoli che si ritiene siano coltivati su di un'area di 30.000 ettari e diano una produzione di 120.000 quintali, quantitativo che in Italia è solamente superato dalla Campania (366.000 quintali) e dal Veneto (230.000 quintali). Se per questa produzione e per tutte le altre che rientrano nel gruppo in cui ho compreso questa categoria sono possibili confronti fra regione e regione, qualunque sia il valore delle cifre addotte, poiché uniformi sono i metodi di rilevazione, non si può istituire confronti di sorta coi dati di epoche molto anteriori, incerti pur quelli, ed ottenuti forse con metodi diversi. Degli altri legumi possono ancora notarsi i piselli ed i lupini, ma non hanno grande importanza. 3° - ORTAGGI - I migliorati mezzi di comunicazione e le aumentate correnti di traffico interno ed estero, nonché la richiesta sempre maggiore da parte delle industrie di conserve alimentari hanno fatto sì che l'orticoltura ha avuto un notevole incremento negli ultimi decenni. "Le colture ortensi vengono praticate in due distinte categorie di terreni: in quelli destinati alle comuni coltivazioni erbacee da campo, alle quali si avvicendavano alcune piante, da orto, e negli appezzamenti tutti gli anni destinati ad esse e soltanto ad esse e cioè negli orti stabili, che, come corona di verde, circondano buona parte dei maggiori centri abitati d'Italia, (Briganti). Ma la coltura degli ortaggi come quella di taluni legumi si esercita anche promiscuamente con quella della vite, del granoturco e di altri comuni prodotti, anzi è da ritenersi che il maggiore contingente della produzione complessiva sia dato principalmente da questa coltivazione così esercitata soprattutto per provvedere al consumo domestico, e questo contingente è assai difficilmente rilevabile in modo anche solo approssimativo, per cui i dati delle statistiche ufficiali, sono estremamente incerti. Il Piemonte, per quanto non sia ritenuto una delle prime regioni italiane dal lato di questa coltura, ha parecchie località meritamente celebri per le loro produzioni ortensi, basterà ricordare gli orti di Bra, Savigliano, Cherasco, Chieri, Santena, Asti, quelli dei dintorni di Torino e Novara; quelli del Circondario di Vercelli, per accennare solo ai principali, la cui fama è da tempo consacrata e nei quali la coltivazione ha raggiunto un alto grado di progresso. Gli orti che si trovano presso le città, possono, per gruppi, specializzarsi in talune colture, e sopratutto essere volti alla produzione delle primizie per la facilità con cui queste possono essere esitate a prezzi elevati dal mercato vicino, direttamente dagli orticoltori, senza impaccio di intermediarii e spese di trasporto. Gli orti della campagna invece, essendo in piccolo numero e dovendo provvedere ai bisogni pure svariati del luogo, ma meno raffinati generalmente che quelli della città non possono specializzarsi in talune produzioni soltanto, o essere destinati alla laboriosa coltura delle primizie; queste ultime per il loro prezzo non sarebbero vendute ai consumatori del luogo, nè potrebbero essere convenientemente riversate sui mercati cittadini a causa del costo talora assai elevato del trasporto. I principali ortaggi a grande coltura prodotti in Piemonte sono gli asparagi, i cavoli, e i calvolfiori, ma la superficie destinata agli ortaggi secondo i calcoli relativi al sessenio 1909-14 è inferiore nella nostra regione a quella di tutte le altre regioni dell'Italia settentrionale. Sul commercio dei vari prodotti, compresi in questo gruppo sapidamente studiato, si può dire che dalle provincie di Alessandria, Novara e Torino si esportano legumi freschi e ortaggi, si esportano patate dalle provincie di Alessandria, Cuneo e Novara; legumi secchi dalla provincia di Cuneo; funghi e tartufi dalle provincie di Alessandria e da Cuneo. Queste indicazioni che le statistiche ci danno valgano a maggiormente dar rilievo all'importanza di tali diverse produzioni in Piemonte. BERNARDO GIOVENALE (1) Cfr. BONNEFON-CRAPONNE: "L'Italie au travail" - Paris, 1917, pag. 171.
(2) Cfr. "Annuario vinicolo della nuova Italia". diretto dal Marescalchi per l'Unione italiana vinicola - Milano, 1920 - "Guida vinicola della provincia di Alessandria", Casale, 1911.
(3) Cfr. MONDINI: "Industria enologica - Produzione- commercio, regime doganale". - Roma, 1917, pag. 76.
(4) Cfr. GIOVINE: "L'eliminazione degli intermediari nell'esportazione vinicola" - Casale, 1910.
(5) Cfr. TOMMASINA: "La produzione vitifera in Piemonte" - Torino, 1905; pag. 101 ed anche "Corso di Economia rurale". - Torino, 1914, pagina 473 sulle cantine sociali.
(6) Cfr. op. cit., pagina 75.
(7) L'autore stesso, tuttavia, precisa e limita la portata della sua affermazione, che di per sé stessa mi sembra esagerata.
(8) Cfr. MARESCALCHI: "Per lo sviluppo della industria enologica italiana" - Bologna, 1919, pagina 83.
(9) Cfr. MARESCALCHI: "La difesa dei vini tipici" in "Gazzetta Agraria" - Alessandria, 31 Luglio 1920.
(10) Dall'Annuario statistico italiano del 1917-1918 risulta che in Piemonte nel 1918 i comuni in cui si erano notate invasioni filosseriche erano 357; (312 nel 1909).
(11) Cfr. BRIGANTI: "Frutta e ortaglie. Produzione, commercio, regime doganale", Roma, 1917, pag. 185.
(12) Cfr. FAVERO: "Importanza della bachicoltura in Italia" in "Antologia Agraria" - Asti - anno VI, N. 3.
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