HENRI BARBUSSE
Se per il suo temperamento idillico Romain Rolland doveva necessariamente, al sopravvenire della guerra, rinchiudersi in sé stesso, incapace ad esprimere artisticamente il suo tormento, come a dire una parola alta e comprensiva, parrebbe che diverso avesse dovuto essere il caso di Henri Barbusse. Per lui la guerra non poteva essere quella cosa inopinata, così estranea al nostro intelletto, che nemmeno possiamo odiarla, qualche cosa di immane e di vuoto: all'autore di L'Enfer non poteva apparire se non come un altro aspetto di quegli istinti, che trascinano gli uomini, ripugnanti e indomabili. E da questo atroce dolore poteva sorgere un inizio di giustificazione: sentire doloroso un fatto è sentirlo già come proprio: sempre una visione pessimistica è la migliore educazione per la comprensione del reale. Il Barbusse avrebbe, se non altro, coerente alla sua forma mentale, vinto quell'estraneità, a cui abbiamo accennato. Ma in che consiste realmente il pessimismo del Barbusse? Più che la coscienza di una contraddizione il suo pessimismo è una visione statica di un aspetto ripugnante della realtà, che si presenta ossessionante allo sguardo. E questa visione non è ingenua, non sorge originale nel Barbusse come prima espressione della sua personalità: qualcosa di anteriore ad essa la condiziona: essa è il risultato di un'astrazione. Quelli che sono gli istinti di ogni uomo non appaiono ne L'Enfer, come nella realtà, inquadrati da forze che vi contrastano e vi repellono o che vi si associano e le dominano e neppure come sentiti isolatamente di per sé con una intensità che ne sia la giustificazione. Si sente che l'autore per darci quei quadri, quegli schemi di quadri ha già compiuto un'astrazione. Manca un'opposizione: e invano l'autore crede di dare una conclusione all'opera sua divinizzando quegli istinti che gli erano parsi poco prima così ripugnanti. L'Enfer sta dunque ad indicare una mancanza di contenuto non solo colla sua nullità artistica, ma anche coll'inesistenza della coerenza ad un fine, poiché l'autore si smarrisce tra diversi intenti, senza sapere bene quale debba condurre a termine: nel Feu il contenuto è trovato. Non si tratta più di un immaginario dramma di una realtà, che lo scrittore non conosce e non sente, ma di una situazione determinata, limitata: non la guerra, ma la letteratura sulla guerra. Quel procedimento astrattivo che operava a vuoto ne L'Enfer per l'assenza di limiti, trova qui campo di operazione. Le Feu sorge come opera essenzialmente polemica: ogni brano del libro, per ricevere il suo pieno valore, deve essere posto in relazione con altri brani di carattere opposto. Il libro si esaurisce tutto nel suo significato polemico: la guerra non è quella cosa, che voi idealizzate, la guerra è una cosa orribile. Non dice di più; ma è facile comprenderne il successo, nei giorni in cui un simile sentimento giaceva nel fondo dell'animo di tutti. Ciò che il libro descrive non è una sofferenza morale: è uno stato uguale, uniforme: uno stato di miseria. Nessun personaggio può avere rilievo: e neppure ha rilievo l'insieme dei personaggi come folla. L'opera resta fissata nel momento in cui nacque: oggi si legge già con minore interesse: domani forse non si leggerà più. Sorta come contrasto a una falsa letteratura e non da una profonda, intima reazione contro un fatto grandioso, resta sullo stesso piano di quella letteratura, e col vanire di essa perde la sua efficacia. Anche considerata sotto il suo aspetto polemico, la polemica resta limitata e non può levarsi a regioni superiori. "Libro di verità Le Feu, certo - ha detto, in un pregevole studio sul Barbusse, il Tilgher (Voci del Tempo) - ma di verità piccola e limitata, non intensamente e profondamente umana". E questa limitatezza appare anche più evidente quando si legga Clarté che dell'altro romanzo si può dire l'eco. Quello che là era descrizione di uno stato si vuole ampliare in un dramma: la crisi di coscienza di un nazionalista passato attraverso la guerra; ma in fondo il motivo fondamentale è lo stesso motivo polemico di Le Feu. Ma anche quel motivo, che dava a quello consistenza, si va ripetendo ed esaurendo: di nuovo ci troviamo di fronte a quella moltiplicità informe di intenti, in cui si era inviluppato lo scrittore de Le Enfer. Tutta la opera del Barbusse si riassume nel libro di un anno. In verità non aveva il Barbusse, di contro al fenomeno cosmico della guerra, una umanità propria, definita da opporre: gli faceva difetto una esperienza personale che gli permettesse di colorare gli eventi con suo particolare stato d'animo. A lui mancava anche quell'europeismo, che era nel Rolland come risultato irreflesso della sua educazione se non come teoria cosciente e che perciò si lascia più facilmente scorgere nelle opere anteriori alla guerra che nelle posteriori: stato d'animo vago e incerto, che, pur essendo tale, poteva essere chiarificato e sviluppato da altri se non dal Rolland. Ma anche un simile inizio di concretezza è impossibile ritrovare nel Barbusse: come, pel rispetto dell'arte, possiamo ascoltare con qualche piacere nell'opera rollandiana motivi altrui ricantati, anche se privi di una profonda originalità, mentre in quella del Barbusse ci urtiamo ad ogni pagina in spunti tolti di peso ad altri scrittori, che egli non è stato neppure capace di risentire, così anche nella polemica bellica troviamo il Barbusse condannato a mancare di un qualsiasi contenuto. Il Tilgher pensa che il programma utopistico, con cui si chiude Clarté non sia sentito profondamente neppur dallo scrittore e che questi non abbia fiducia nella sua realizzazione: non credo: altro è quello che noi possiamo pensare di quel programma, altro è quello che ne pensa l'autore. Quel programma non è solo un tentativo affrettato per giustificare il volume precedente: è anteriore alla polemica stessa, è quanto il Barbusse crede di avere in sé di più sacro: chiamato in causa dalla grandezza degli eventi, egli si è sentito in obbligo di definire quella che poteva essere la sua umanità più profonda. La fede sua è la formulazione più semplicistica che sia stata data in alcun tempo delle idee del secolo XVIII. La sua inesperienza della vita politica, la sua solitudine di scrittore hanno fatto si che il suo originario, ottuso dogmatismo crescesse senza pericolo di critiche e prendesse l'intensità di un sogno solitario. Si trova in tutte le sue opere la credenza di essere in possesso di un'altissima verità e vi si scopre un anfanare vano: ogni tentativo del Barbusse non riesce ad altro che ad afferrare il vuoto. Il suo preteso immanentismo è pretto ateismo. - Credo che ovunque intorno a noi non vi sia se non una parola, quell'immensa parola, che mostra la nostra solitudine e lascia libero il nostro irraggiare: Nulla. Credo che questo non dimostri il nostro annientamento, ma al contrario la nostra divinizzazione, poiché tutto è in noi. - Così conclude L'Enfer: come se quel nulla che troviamo al di fuori di noi, non fosse l'esteriore apparenza di un vuoto che è in noi e come se ad un tratto, quasi magicamente, quegli istinti così torbidi, privi di un fine, potessero venire santificati e considerati legge di vita! Con simile spirito sono scritte tutte le pagine del Barbusse né vale la pena di cercare tutti i suoi varii volumi, perché le sue idee si ripetono con una monotonia esasperante. Rifaccia egli nel 1914 il Discorso sul Metodo ad uso dei combattenti francesi con accenti che potrebbero essere creduti persino parodistici (la verità è in voi... sbarazzatevi delle verità ricevute per eredità... apprendete ad odiare la parola tradizione... vi e una legge che il mondo ha sempre disconosciuta ma che è l'unica verità mentre tutto il resto è assurdo... ora questa legge sta per trionfare, ecc. ecc.) o creda di rivelare un programma politico nel volumetto La lueur dans L'abîme, o chiuda Le Feu con una visione tra l'apocalittico e cinematografico della società futura, in fondo egli non fa che girare continuamente intorno a sé stesso. Come ignora Dio, ignora la legge morale: "La legge morale è in modo assoluto, in modo perfetto, la legge dell'interesse generale" "La morale non è che la geometria dell'interesse generale" "La legge morale non è che la messa in opera imperativa dell'interesse generale"; incapace di qualsiasi visione concreta di umanità, crede di aver fatto una sublime scoperta, ritrovando la seguente dimostrazione, che si compiace di ripetere nei suoi libri: "Le religioni si distruggono spiritualmente perché sono molteplici " "Le religioni si, distruggono da sé stesse all'esame di uno spirito sano, per la loro molteplicità e ostilità reciproca". E' inutile criticare queste come altre affermazioni del nostro scrittore, di cui risparmiamo le citazioni al lettore: un poco più interessante può essere il vedere come anche in quello che dovrebbe essere il suo più intimo ideale, il socialismo e la rivoluzione, egli si dimostri incapace ad afferrare la realtà. Passa il Barbusse in rassegna nelle ultime pagine di Le Feu i tre mitici motti della Rivoluzione Francese; gli si rivelano vaghi tutti eccetto uno, che è poi il più astratto, il più vacuo: l'Eguaglianza. E parimenti altrove egli afferma senz'altro: "Quando si è detto eguaglianza si è detto tutto ". Incapace ad intendere la libertà, come era incapace ad intendere Dio e la morale, perché la libertà è ancora concetto troppo pieno e vivo, egli sente la rivoluzione come questione non già di libertà, ma di eguaglianza. E del resto cos'è il proletariato per questo rivoluzionario? Del proletariato egli non parla mai; esso ha valore per lui non già per quello che è, ma per quello che non è. L'unico accenno che è possibile trovare al riguardo nei suoi scritti è questo: "Il povero, il proletario è più nobile degli altri uomini, non il più sacro. In verità tutti i lavoratori e tutti gli onesti si equivalgono. Ma i poveri, gli sfruttati sono un miliardo e mezzo quaggiù: essi sono il diritto, perché sono il numero ". In fondo nei lavoratori egli non riconosce altro valore che questo, puramente negativo: il numero. E anche il suo estremismo che altro può essere se non la conseguenza di una logica astratta? Neppure il suo internazionalismo ha a che fare coll'internazionalismo socialista, che si fonda su interessi reali e non è come per lui una vacua affermazione di ragione. "La riunione degli individui isolati nello spazio abitato corrispondeva alla verità morale, era l'incarnazione esatta del progresso, giovava a tutti, ecc. ecc.". Come si potrebbe pretendere che un uomo come il Barbusse intendesse la realtà della nazione? Si può ormai prevedere quali giudizi porti il Barbussse sulla storia, che per lui non è se non lo spettacolo della lotta di due partiti, quello del progresso e quello del regresso, anzi meglio della dominazione di un solo partito (il secondo), sino alla Rivoluzione Francese totale, parziale dopo di essa. E' troppo facile accusare di antistoricismo gli uomini appartenenti a partiti rivoluzionari, perché, se non altro, il buon gusto ci inviti a meditare su quelle accuse a renderle meno generiche. In verità la rivoluzione, come la guerra, è una crisi ed è naturale che la formulazione provvisoria che del loro programma dànno gli elementi di una parte in lotta riesca parziale e quindi antistorica. Ma l'antistoricismo del Barbusse non ha questo carattere: quello dei veri rivoluzionari consiste sempre in una incomprensione parziale, in una negazione limitata, la quale per questo limite acquista una realtà sua particolare, si fissa in un punto dello svolgimento storico: quello del Barbusse è l'incomprensione eretta a sistema. Una simile concezione così astrattamente razionalistica non può finire altrimenti che negando la rivoluzione stessa. Se i principi che si vogliono far trionfare sono principi eterni, che sono stati oscurati dalla perfidia di pochi uomini e dall'ignoranza degli altri, è evidente che basta porre in luce l'errore perché l'immutabile verità possa avere il suo regno. Dalle premesse illuministiche non si potevano trarre altre conclusioni e il Barbusse ha infatti affermato ancora recentemente che dire la verità è fare opera rivoluzionaria, poiché conosciuta la verità la rivoluzione è fatta. E con una tale concezione il Barbusse deve vedere il culmine del suo pensiero nell'organizzazione di Clartè. Ignaro di ogni forza reale dello spirito, non poteva certo il Barbusse intendere il valore del pensiero. Quando dal connubio di storicismo e naturalismo, favorito dalle passioni della guerra nascevano i mostruosi concetti di "pensiero tedesco", "pensiero francese", "pensiero italiano" ed andava sempre più affievolendosi il senso della cattolicità di ogni atto dello spirito, doveva sorgere una reazione a ristaurare il senso della dignità del pensiero: e questa stessa reazione poteva diventare indirettamente pacificatrice anche sul terreno pratico. Ma per il Barbusse un programma fondato su queste basi era inintelligibile: il pensiero aveva senso per lui solo in quanto utile, il pensiero aveva valore solo in quanto dava insieme agli uomini le armi e i fini per una immediata realizzazione politica. Gli uomini di pensiero non dovevano, secondo lui, far altro che dare quel "programma geometrico, semplicissimo" in cui consiste la salute del mondo e stare ad attendere la attuazione "geometricamente infallibile". Ne veniva uno strano dualismo: se il Barbusse credeva nella rivoluzione, che ci stava a fare questa organizzazione accanto all'Internazionale Comunista? La verità è che il Barbusse come i suoi adepti avevano ed hanno il pregiudizio di una intellettualità come classe privilegiata, degli intellettuali, come persone illuminate, dispensatrici di salvezza. E il gruppo Clarté è diventato un'accolita di falsi intellettuali, chiusi nella loro piccola boria, incapaci di qualsiasi senso di vera umanità. Bisogna sfogliare i fascicoli della "Rassegna Internazionale", organo per l'Italia del Gruppo Clarté; per sentire una nausea profonda per la fatuità di tutta questa gente, che crede una sua lagrimetta tanto preziosa per la salute del mondo! Né si dica che tutti questi movimenti abbiano valore di reazione, che non sarà certo Barbusse capace a cacciare di nido Barrès: anche una reazione momentanea deve avere un suo contenuto e dal nulla non può nascere altro che nulla. Sarebbe piuttosto cagione di disperare non solo per nostra coltura, ma per tutta la nostra situazione spirituale il diffondersi di idee tanto viete e tanto semplicistiche: e bene faceva perciò recentemente un noto studioso tedesco della Francia contemporanea, E. Curtius ad esortare i suoi compatrioti, presso i quali il Barbusse conta un certo numero di seguaci ed esiste già tutta una Barbuse-Literatur, a riflettere a quanto di rancido, di antimoderno, di antispirituale contenga il programma di Clarté (Neue Merkur, giugno 1921). Ma bisogna guardarsi dal prendere troppo sul serio tutte queste idee. E noi, se leggiamo su giornali rivoluzionari scritti del Barbusse, pensiamo che egli anziché guida è gregario umilissimo, rappresentante di una massa di persone politicamente amorfe, che non hanno altro valore fuori di quello che dà loro il numero, e se leggiamo sul Corriere della Sera (23 febbraio 1922) riferita una polemica del Rolland e del Barbusse a proposito del bolscevismo, in cui il primo tolstoianamente depreca il bolscevismo come infetto di violenze e vede ogni violenza causa di altre violenze, e il secondo, con aria di maestro di scuola, gli insegna che un poco di violenza è necessaria a far trionfare l'unico programma ragionevole, eterno, geometrico, ci interessiamo molto mediocremente. Tutte queste voci non hanno valore diverso da quelle che escono da una folla, che s'arresta un momento e discute e cerca di ragionare, per poi tacere umilmente e seguire una volontà superiore. Gregari e non capi, il Rolland e il Barbusse: da loro non solo non è uscito un programma politico, ma neppure una di quelle utopie, che riempiono ad un tratto di calore tutta l'anima nostra e possono ispirare più limitati e concreti programmi politici: e, se può sembrare che troppo spazio abbiamo tolto ad una rivista politica per un argomento estraneo, forse anche non potrà essere senza giovamento una conclusione negativa, la quale ricordi che di fronte alla guerra e ai fatti che ne sono seguiti, il Barbusse e il Rolland non hanno avuto nulla da dire. MARIO FUBINI
|