LETTURE SUI PARTITI POLITICI

     F. TURATI: Le vie maestre del socialismo, a cura di R. Mondolfo - L. Capelli, Bologna, 1921. I volume di pag. 318 L. 16,50. (Biblioteca di Studi Sociali diretta da R. Mondolfo II).


     R. Mondolfo ha raccolto con diligenza mirabile i documenti del pensiero turatiano attraverso i Congressi del partito socialista, corredandoli di note e di chiarimenti tratti per lo più da articoli della Critica sociale, in modo che veramente il critico ha dinanzi il pensiero integrale del leader riformista meglio che nelle raccolte del genere recentemente apparse. Opera di raccolta tanto più difficile in quanto, come il Mondolfo avverte e come ogni studioso di questi argomenti sa per esperienza, dei rendiconti di tali congressi nessuna biblioteca pubblica italiana possiede la collezione e "lo studioso li può faticosamente racimolare solo con affannose e insistenti ricerche nelle più diverse città presso i privati possessori dell'uno o dell'altro volume".

     Del lavoro del Mondolfo, dunque, si sentiva vivo il bisogno e glie ne deve venir da tutti lode sincera.

     In un'acuta prefazione il raccoglitore insiste sulla coerenza del libro, sulla continuità del pensiero turatiano, riprendendo un concetto che risale a una lettera recentissima del Turati stesso. Ma che cosa è la coerenza di 30 anni di vita politica? Il problema pare restringersi per il M. nei limiti di un atto psicologico, un fatto di coscienza, di carattere: e tale del resto è la ragione invocata dai molti ammiratori del Turati: in sede politica il carattere non può essere che un presupposto fuori discussione: si discute il pensiero o, se volete, il carattere come pensiero. Spostata così la questione: che è questa coerenza trentennale di pensiero? Ammettiamo sui documenti che il Mondolfo ci offre che la posizione di Turati di fronte alla reazione crispina non sia sostanzialmente diversa dal pensiero di Turati di fronte al fascismo: si ripetono gli stessi concetti, la stessa tattica, le stesse parole. Ma la reazione crispina non è il fascismo: l'Italia di Adua non è l'Italia uscita dalla guerra europea; ci sono delle forze nuove, dei fattori impreveduti, delle aspirazioni attuali e reali. Se il Turati avesse conservato uno stesso pensiero, se avesse avuto un pensiero, le posizioni di fronte ai due momenti storici sarebbero state due posizioni diverse. La coerenza lineare, l'identità verbale designa un tipo sentimentale di visioni dogmatiche, caratterizza uno schematismo, un arresto di formazione spirituale, una conclusione prematura, una unilateralità che si ritiene perfetta - quasi - se la reverenza non ci interdicesse la parola - una cocciutaggine preclusa a ogni vivacità creativa, a ogni impreveduta azione della storia.





     Qual'è la natura speculativa, il nocciolo ideale dei luoghi comuni che Turati vien ripetendo da trent'anni? Il marxismo non è penetrato nel suo spirito, non vi ha alimentato una coscienza realistica delle forze politiche. L'ideologia turatiana sorge in un momento caratteristico della nostra storia, in un momento di vuotezza ideale, e di assenza di lotta, in cui la vita politica si irrigidisce in formule che la tradizione impone e la realtà non sa inverare. Fuori di quel momento specifico non ha giustificazione.

     Il Turati confessa volentieri la sua impreparazione a giudicare di problemi di cultura, la sua ignoranza filosofica e storiografica: così si spiega come egli non abbia mai acquistato una coscienza critica del suo pensiero e non ne abbia veduti i limiti.

     Marx non s'intende se non si muove da una premessa filosofica, se non si penetra e si risolve il suo hegelismo: Turati sdegna codesti problemi con ignobile semplicismo e non si avvede di possedere implicitamente tuttavia un pensiero filosofico, il più banale fra tutti: che muove da un utilitarismo romantico e per un'astratta visione economica dimentica il problema politico di forza (ideale). È singolare il giudizio che Turati fa della morale degli individui: niente affatto reale per sé e come forma dello spirito, ma addirittura, secondo lui, funzione difensiva della vita e dello sviluppo; questo atomismo gretto e particolaristico si trasferisce poi nel giudizio politico e la funzione che la morale ha per gli individui è identificata con quella che la tattica ha pei partiti. Né vedendosi qual sia in ultima analisi codesta vita e sviluppo del partito che dovrebbe risolversi nella tattica, ma non si risolve perché il realismo resta a mezza via, pare difficile che altri possa impugnare la natura utilitaria che noi scorgiamo nella teorica del socialismo turatiano. Altrove egli accetta l'esigenza della conquista (graduale!) del potere politico da parte delle masse, ma per arrivare a un mutamento radicale economico. Qui l'intreccio è ancor più ingarbugliato, senza rimedio, perché il problema dei rapporti tra economia e politica che il marxismo aveva validamente posto è ingenuamente delibato con candida ignoranza, e il solo modo di dar un senso alla proposizione mantenendo una coerenza, ci riconduce all'utilitarismo già notato. Dunque per Turati il problema politico non ha un senso per se stesso perché solo lo star bene per se medesimo ha un senso! Citare Marx, Sorel non è affatto un portar nottole ad Atene: Turati ha bisogno di leggerli, di meditarli per intendere finalmente che la conquista del potere politico è tutto, che solo in questo atto le masse provano la loro superiorità ideale e la loro capacità realizzatrice: questo è il punto vivo della dialettica sociale e della praxis storica; questa è la novità del comunismo critico. Di fronte alla disciplina rivoluzionaria che qui si postula il riformismo di Turati è immorale, diseducatore, inutile.





     Qual è il significato della gran questione programma minimo o programma massimo? Ecco un altro equivoco della nostra incultura politica, di cui il Turati è uno dei rappresentanti più ingenui. Il programma minimo è un programma di governo, è tecnica di esercizio dei poteri. Possono elaborare un programma minimo, oltre che i governanti, gli studiosi (per es. l'Unità) ma codesto programma minimo non può alimentare la lotta politica se non mediocremente e certo solo attraverso metodi analoghi a quelli propugnati dall'Ostrogorschi che la demagogia corrompe in ogni partito la visione dei problemi pratici e non permette una diversità sistemata di soluzioni. Un partito di popolo - un periodo storico quale è il nostro - non può avere che un programma massimo, una concezione della vita e della realtà, elaborata come mito suscitatore d'azione, un contraddittorio messianismo, una volontà; e l'interesse per le riforme pratiche è un interesse di ordine amministrativo, una considerazione di carattere tattica per superare ostacoli materiali di vita.

     Concetti assai più complessi e difficili di quel che non sembrino al T. Il quale ha avuto una importanza storica notevole e un realismo indiscutibile dal '92 al '902. Egli ha risolto il problema materiale dell'esistenza del nascente partito. Di fronte a Crispi e a Pelloux ha capito l'esigenza di una grande e generica battaglia in nome della libertà che affratellasse radicali, liberali, socialisti e anarchici. Questo è il momento di Filippo Turati. Egli ha condotto la battaglia con singolare arte diplomatica. È riuscito a conservare al suo partito un'individualità approfittando del decisivo concorso liberale che gli era indispensabile. Ma in questo compromesso s'è esaurita l'originalità di pensiero del socialismo e il nocciolo centrale si è corrotto. Sino ad Imola i socialisti italiani sono di fatto liberali e perciò si separano dal corporativismo e dagli anarchici il loro gradualismo non è antistatale. Seguono l'idea internazionalista per pregiudizi di umanitarismo e di positivismo. Vivono di una debole tradizione, s'alimentano di una legittima lotta contro una politica di governo. Il giolittismo segna lo sfacelo di questa ideologia.





     Dal 1902 al 1914 la logica di T. conduce al collaborazionismo: il suo riformismo non assume responsabilità di governo per mera timidezza. La logica marxista voleva invece una violenta azione popolare: le masse erano immature e gli sforzi di Labriola e di altri intellettuali restarono frammenti di azione. Il socialismo, conclusione ideale della rivoluzione italiana, si arrestava all'impotenza che impedì il compiuto Risorgimento: privo di un deciso interessamento delle masse rinunciò al principio educativo che era implicito nell'intento rivoluzionario, si ripiegò nella molle rinuncia utilitarista, insegnò al popolo l'egoismo, il ricatto, la ricerca delle concessioni. In quest'opera mancò ogni dignità proprio per colpa del machiavellico Turati. Turati predicava alle masse con enfasi demagogica ed esagerazioni di ricattatore concetti e riforme che Giolitti preparava stando al governo. Il rivoluzionarismo serviva ai destri per ragioni elettorali -nonostante ogni professione di purità. T. e i suoi amici avevano compreso come dopo il fallimento ideale dell'800 ogni risveglio popolare sarebbe venuto dall'opposizione e agivano approfittandone: questo tremendo equivoco è stato alimentato per più di un decennio. In questo senso T. è forse il più formidabile diseducatore dell'Italia moderna. Egli ha perennemente agito senza assumere la responsabilità della sua azione e ha dato ai proletari che difendeva figura e carattere di mendicanti impedendo loro che assurgessero a personalità di lottatori. Il suo posto era - nonostante la sua impreparazione culturale - al governo: la sua dignità gli doveva interdire la demagogia: che del resto diventava la più turpe forma di asservimento al giolittismo (Documentino l'affermazione le mirabili polemiche dell'Unità sull'azione dei socialisti).

     Nonostante quest'opera continua di corruzione delle masse, venuta la guerra (di fronte alla quale T. ebbe la stessa posizione di Giolitti con il vantaggio - cui non volle rinunciare - dei luoghi comuni pacifisti) si determinò in Italia una situazione rivoluzionaria: il popolo rimasto estraneo alla formazione nazionale, guidato per venti anni dai riformisti ad un'opera anarchica di sfruttamento allo Stato senti l'impulso iniziale alla costituzione di una disciplina, di una coscienza e di una volontà politica.

     Il sacrificio gli insegnò l'autonomia. L'esperienza storica immediata impose ad ognuno la necessità dell'iniziativa diretta. Così nacque una situazione e un'idea risolutrice rivoluzionaria. Turati non la poteva intendere perché era rimasto esterno al processo di creazione e doveva ineluttabilmente parlare, attraverso i fiori della rettorica messianica un linguaggio reazionario. Turati è uno scettico che non ha fede nelle forze, ma solo nella diplomazia. La logica delle apparenze, il pudore di un equivoco lo obbliga a una finzione a professioni astratte progressistiche e socialistiche, ma la sua anima, è quella del giolittiano. Porta al governo giolittiano il dono dell'illusione democratica alimentata nelle masse. Il pubblico si entusiasma ai simboli e alle apparenze; ma questa è la sostanza del fenomeno Turati. Nella sua partecipazione al governo - svanito l'equivoco e i clamori - si vedrà non una conquista delle masse, ma il risultato di un'arte diplomatica, diciamo pure, senza insulto, di un arrivismo personale.

PIERO GOBETTI