Note sulla burocrazia
I.L'UTOPIA DEI "POCHI E BEN PAGATI"
Una formula fortunata.Una formula che si ode spesso ripetere quando si paria di burocrazia, e che ha avuto ed ha fortuna, (come del resto hanno fortuna da noi tutte le formule cosiffatte: scuola laica, scuola libera, libertà con l'ordine, tendenzialmente repubblicano, ecc.) è la formula, così detta liberale, degli impiegati pochi e "ben pagati". Viceversa, nella realtà pratica, tutte le volte che sul nostro orizzonte legislativo è comparso un disegno di legge che tendesse ad attuare quella formula o col ridurre organici o col sopprimere uffici, tutte le volte dico quel disegno di legge è andato a picco; e anche ieri ed anche oggi è successo e sta succedendo lo stesso per tutto quel mazzetto di provvidenze legislative, dal progetto Croce sui corsi paralleli aggiunti al progetto Giolitti sulla riforma della burocrazia, che miravano appunto a diradare la selva della burocrazia col criterio anzidetto. Stando così le cose, invece di incaponirsi a ribadire inutilmente il chiodo del a pochi e "ben pagati", sarebbe forse il caso di domandarsi se, date le condizioni economiche sociali del nostro paese, quella formula meriti ancora di esser presa sul serio, e se non la si debba piuttosto rigettare, insieme con tanti altri luoghi comuni della nostra retorica politica e pseudo-problemistica. Il pauperismo.Se l'Italia, fosse tutta compresa nel triangolo Torino-Genova-Milano, allora forse alla riforma dei "pochi e ben pagati" ci si potrebbe pensare sul serio: ma, di fatto, l'Italia è per otto noni fuori di quel triangolo; di fatto l'Italia è, nel suo complesso, il paese dove fiorisce il "pauperismo", quel pauperismo che è l'idea fissa di Ansaldo, e che, nel caso attuale è, secondo me, la ragione fondamentale per cui in Italia né oggi, né domani, e neanche, io temo, dopodomani, si potrà mai seriamente, e neppure onestamente, pensare a ridurre sensibilmente gli effettivi degli eserciti di impiegati, che si annidano nelle nostre amministrazioni statali e locali. Il problema non è "sfollare gli uffici", ma è quest'altro "sfollati gli uffici, che faremo della turba dei licenziati?" e che fare poi delle turbe dei primitivi aspiranti agli impieghi? Nel Nord c'erano, e in parte ci sono le industrie, nel Centro (parlo, si capisce, schematizzando) c'era e c'è l'agricoltura, ma nel Sud? Una volta c'era l'America; ma adesso che l'America è chiusa e che la crisi imperversa un po' dappertutto, per le nostre primavere sacre del mezzodì e d'altre parti ancora, quale altro sfogatoio trovare, se si chiude anche quello dell' impiego pubblico?" L'elevamento delle classi popolari.E notare poi che ad aggravare la situazione concorre da un pezzo in qua anche un'altra felice circostanza, che è quella dell' "elevamento delle classi popolari". I ceti umili, come si sa, da un poco in qua si vanno elevando, ossia: il figlio del contadino, dello stipettaio, del fondacchiere vanno alla scuola e fanno, secondo la latitudine, il proscioglimento, la licenza tecnica, il diploma di ragioneria; dopodiché, poco ma sicuro, queste speranze d'Italia tu vedi che non voglion più sapere né di zappare, né di piallare, né di vendere generi coloniali, e neanche voglion più sapere di emigrare, ma solamente intendono di fare "l'impiegato governativo." Una volta l'Italia produceva un po' di vino e quel vino lo esportava quasi tutto: una volta l'Italia produceva molto mannalame, e questo mannalame anch'esso lo mandava all'estero in grandissima parte: adesso le classi popolari si sono elevate, il figlio del manuale frequentando la scuola, che in Italia (questa è la maledizione) è intesa tutta e solo come scuola di cultura, si è elevato ed è divenuto un borghese; e, come tutto il vino che si produce ora, per "l'elevato tenor di vita, ecc. ", lo si consuma allegramente in casa, così tutto quel "proletariato imborghesito", bisogna aver pazienza e collocarlo anch'esso in casa; tanto più che dopo la guerra e la vittoria questo proletariato "elevato" e dice spesso e volentieri, e anche non senza una certa logica, che siccome questa Italia con la guerra si è allargata e di figli di mamma tra guerra e spagnola ne son morti tanti, adesso i sopravvanzati in questa patria più grande ci devono stare assai più comodamente di prima. E che cosa volete dire a questa gente? Che cosa volete farne? Per ora e per un pezzo niente altro che tenerli in casa e farli vivere, direttamente o indirettamente dello Stato. Pauperismo psicologico."Arricchire l'Italia!" bravo! un'altra bella formula che mi piace, ma... campa cavallo... E poi, anche quando, nel tre o nel quattro mila, saremo abbastanza arricchiti, e sarà scomparso il pauperismo economico ed effettivo, io ho gran paura che sia per rimanerci ancora nelle ossa il pauperismo mentale o psicologico cioè la tendenza a pensare e ad operare, pure trovandosi in istato di agiatezza, come si operava e si pensava quando si era in stato di povertà. E lo si vede già ora: perché il figlio del "cafone" che si fa vaccinare, va alla scuola di stato, e fa il soldato nel regio esercito, se, dopo tutto ciò, pretende, a sua volta, quel moderno mantenimento nel Prytaneo che è l'impiego di Stato, via, diciamo la verità, è, dal suo punto di vista, logico e scusabile. Ma che cosa diremo del bottegaio arricchito, dell'agrario, del pescecane che vuol avere, per i suoi figli, il ginnasio regio, e magari 1'Università, fuori dell'uscio di casa: per sé, il Tribunale e l'Intendenza di finanza appena allo svolto dell'angolo: per la signora, la Parrocchia e il Vescovado subito lì dirimpetto? Diremo che qui è il "pauperismo psicologico " che funziona, diremo che quella gente, prodotto di generazioni che han patito l'angustia e l'impecuniosità, anche quando si trova più al largo ed ha il portafogli imbottito di biglietti da mille, resta misera e gretta com'era prima, ed ha l'istinto di accattare, come secoli prima, l'elemosina dello Stato. Noi vediamo già ora in questi casi quel che sarà, nel tremila, la mentalità dell'italiano universalmente arricchito, e la previsione non è, per la nostra questione, confortante; se domani tutti i milioni di poveri cristi d'Italiani, per altrettanti milioni di quaterne secche fossero mutati in tanti milordi, il "pauperismo", come forma mentis, rimarrebbe tal quale, e con esso tutte le sue ben note conseguenze. A maggior ragione ora non si può ragionevolmente, né onestamente, pretendere di attuare una riforma che urti contro l'immane ostacolo delle condizioni economiche sociali e mentali, che io ho tratteggiato fin qui alla buona. Chiesa e privati.Del resto guardiamo a quel che avviene per questo problema, nella Chiesa Cattolica in Italia. Anche qui c'è un problema della "burocrazia minuta", anche qui c'è, caratteristicamente italiana, la questione della riduzione del personale; diminuzione del numero delle diocesi, riduzione dei capitoli cattedrali, sfollamento insomma di uffici centrali e provinciali, sono punti programmatici di governo della Chiesa accettati senza discussione e senza distinzione di tendenze; se ne è mai fatto niente? Ci si era provato, mi pare, Pio X ma quali ragni riuscì a cavare dal buco? Se n'è riparlato a' tempi del recentissimo conclave come di questione urgente, ma intanto anche qui, un provvedimento non molto remoto, è stato ancora lo Stato (quanti Stati!) che ha dovuto intervenire per alleviare, con un po' de' suoi milioni svalutati, le sorti dei " travetti " in sottana, che son misere almeno da quanto quelle dei loro colleghi in calzoni lucidi nel sedere. Si cita spesso, a proposito di impiegati "pochi e ben pagati", l'industria privata: l'altra istituzione, insieme con la Chiesa, che adesso è di moda proporre come modello all'attività dello Stato: ma a me pare che anche qua la citazione sia fatta a sproposito. Io ho provato a guardare quello che succede in fatto d'impiegati e di salariati in qualche grande stabilimento o in qualche grande banca: dico la verità che questi pochi impiegati ben pagati, da noi, non li ho trovati; ci saranno forse in America o nel Belgio, ma da noi, no; da noi la formula nella pratica è "pochi ben pagati e molti pagati malissimo". Nelle nostre banche, nelle nostre industrie, per quanto mi risulta, c'è un direttore, un procuratore, un viaggiatore, un tecnico che son pagati largamente, ma poi, sotto e attorno a questi semidei, c'è la folla dei commessi e degli "scopassagatt", che son tenuti lì a far poco sì, ma ad essere pagati per metà di quello che fanno. E perché? al solito, per il pauperismo, e per il parlamentarismo, e per il politicantismo, che si intrufolano anche qui, uno, fratello dell'altro: il principale o il consigliere delegato sono consiglieri comunali o grandi elettori o aspiranti commendatori, e ci hanno il portinaio o il parente povero o il balio, tutti elettori, che si raccomandano perché gli metta a posto il figlio, e il consigliere delegato e il principale si lasciano impietosire e accettano e "mettono a posto", come s'è visto, un altro piccolo borghesino di più. Per cui, insomma, se non ci riesce in Italia la Chiesa, i cui Cardinali non sono eletti con suffragio universale né con sistema proporzionale, se non ci riesce il privato, che deve avere così squisita e pronta la sensibilità del proprio interesse, come volete che possa riuscire a sfollare i suoi uffici, a ridurre il numero de' suoi impiegati, a tenerne pochi e ben pagati lo Stato italiano, col suo Parlamento, la sua democrazia, e con tutti gli altri amminiccoli che noi sappiamo? Ma toglietevelo dalla testa e mettetevelo nei piedi, ché lo Stato nostro, finché è quello che è, nell'Italia nostra, finché sia anch'essa quella che è, non riuscirà mai a far tanto. Le due rivoluzioni.Ci vorrebbe la rivoluzione. Già, ci avevo pensato anch'io: la rivoluzione. Una rivoluzione, cioè una dittatura. La dittatura dei ricchissimi, o la dittatura dei disperatissimi; la dittatura insomma di qualche estremo, che mandasse per aria questa nostra mediocrazia e insieme, per rimanere in argomento, la burocrazia, che di quella è la figlia maggiore. In questi ultimi anni c'è stata in Italia, l'occasione per l'una e per l'altra di queste rivoluzioni; per la prima, quella dei ricchi, c'è stato il periodo della guerra: quello era il momento buono per una dittatura che avesse voluto "far pulizia" anche nelle trincee della burocrazia: gli uffici semivuoti, il Parlamento semichiuso, la censura, il Luogotenente, allora si poteva col pretesto dalla "suprema lex", chiudere, sopprimere, abolire, far tabula rasa; non se ne fece niente; i ricchi, come classe di governo, di questo non faranno niente mai più. Poi, dopo la guerra, c'è stato l'attimo anche per gli altri, per i miserabili. Non alludo mica all'episodio dell'occupazione delle fabbriche: quello anzitutto non era un fatto nazionale, e poi veniva tardi e c'era dentro troppo bluff; io voglio dire del luglio 1919, quando non c'era la guardia regia; e le caserme eran piene di soldati che avevan fatta la guerra e volevano andar a casa, e i cuori sanguinavano ancora per le delusioni di Versailles, e per le strade di tutta Italia infuriavano i tumulti per il caro-viveri. Anche quello fu un momento buono per la pulizia che dicevo; ma anche quel momento passò, e fin da allora si ebbe la sensazione che tutta quell'immensa riserva di energia rivoluzionaria si sarebbe scaricata, dissipata, rumorosamente ma inutilmente, in temporali locali, sempre meno imponenti, fino a tornare alla calma inerte di prima. E fu così difatti. Il che vuol dire anzitutto che la rivoluzione è, anch'essa, una delle tante cose che in Italia non si sanno fare e, forse, non si faranno mai; in secondo luogo che, perduta l'occasione di attuare la riforma della burocrazia alla spiccia per procedimento dittatoriale, tornati in tempi irrimediabilmente costituzionali, bisogna rassegnarsi a tener fra gli altri malanni, anche questo tumore della burocrazia, e vedere al più di guarirlo, invece che per amputazione, lentamente, per riassorbimento. Che cosa si può fareCioè, sempre in attesa dell'arricchimento economico e spirituale, nel problema della burocrazia, cessare di ripetere la frase dei "pochi e ben pagati ", smettere di allarmare gl'impiegati, prima, e di farli ridere, dopo, e acconciarsi alla realtà antica e presente dei "molti e mal pagati". E se veramente si vuole, come si deve fare in questo campo delle economie, ridurre ancora gli stipendi agli impiegati, e ai salariati, a cominciare da quelli, a cui si concesse recentemente di più. Gli industriali stan già facendo così con gli operai e gli agrari con i contadini. A' tempi de' tempi Sonnino ottenne il pareggio sulla pelle degli impiegati: ma salvò l'Italia per tutti e, anche, l'impiego per gli impiegati. Ma quanto a diminuire il numero degli impiegati statali, inutile pensarci. Sarebbe già molto, a proposito di formule, accontentarsi di questa "non un impiegato di più". E sarebbe più ancora, se, lasciando in pace gli impiegati di Stato, si badasse a quel che succede fra gli impiegati degli enti locali, provincie, comuni, opere pie, ecc. ecc., in cui, da un pezzo in qua, c'è la tendenza sempre più ferma a diventar tutti, più o meno larvatamente, "impiegati statali". Diceva bene tempo fa l'Einaudi, commentando sul Corriere il voto con cui il Senato bocciava la legge sul caro-viveri ai dipendenti locali. "Gli impiegati locali tendono a diventare dei veri impiegati dello Stato, senza essere pagati dallo Stato... È stata una gran sciagura per i maestri passare alle dipendenze dello Stato: invece di una classe relativamente indipendente; legata al proprio Comune, con rapporti di parentela e di possesso nel luogo dove insegnava, si è creata una classe di impiegati come tutti gli altri, in moto perpetuo, costretta a spendere il doppio di ciò che prima spendeva e giustamente malcontenta della propria sorte. Vogliamo far lo stesso di tutti gli impiegati comunali e provinciali? Vogliamo rompere i legami di reciproco servizio e di mutua dipendenza e tolleranza che vi deve essere fra gli impiegati e gli amministratori di Enti locali?" Parole d'oro, su cui conviene seriamente meditare: Perché l'andazzo è appunto questo: la corsa allo Stato, e su questa china bisogna fermarsi per il bene, di tutti, anche per quello degli impiegati stessi. E se mai, per avviare la gran questione ad una soluzione, ci si dovrebbe mettere per una via del tutto opposta: non "dal Comune allo Stato", ma "dallo Stato al Comune"; cioè "svincolare progressivamente l'impiegato da quell'astrazione che, è per lui lo Stato, per accostarlo a quella realità concreta che è il Comune nella Regione". Ma di questo parleremo con più agio, se mai, un'altra volta. AUGUSTO MONTI.
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