IL LIBERALISMO ECONOMICO
e il presente momento storico

     Senza entrare in sottigliezze filosofiche e senza addentrarmi in analisi storiche, io intenderò, nel corso di questo articolo, per liberalismo quel modo di intendere la vita politica ed economica, che pur riconoscendo la parte insostituibile compiuta dalle istituzioni, dalle leggi e dalle imprese pubbliche, ritiene che la funzione centrale e creativa nel processo storico spetta alla iniziativa individuale e al senso della responsabilità individuale, sì che vi è reale progresso in una società solo nella misura in cui tutte le funzioni sono compiute da energie spontanee individuali ispirate e sorrette da ideali di bene comune.

     Questo modo di intendere la vita politica ed economica ha avuto il suo più caratteristico sviluppo in Inghilterra, nel mondo britannico nato dall'Inghilterra e negli Stati uniti, sotto il molteplice e combinato impulso della Riforma, della lotta contro le autocrazie di Spagna e di Francia, di quella contro il tentativo di instaurare la monarchia di diritto divino e dell'avvento della grande industria esportatrice, sorretto e teorizzato quest'ultimo nelle sue esigenze logiche e pratiche dagli economisti classici e dalla filosofia del diritto naturale e del contratto sociale. Ma la fecondità e verità del liberalismo non è legata a queste due origini storiche e locali, né a queste sue prime teorizzazioni filosofiche; in particolar modo dal lato economico essa anzi si perpetua, si rinnova e si diffonde a mano a mano che le caratteristiche dell'economia moderna si vanno diffondendo dall'Inghilterra ad altri paesi, in vario modo e grado combinandosi con le particolari loro tradizioni e necessità. Nello stesso suo centro tipico di origine, in Inghilterra in oggi, il liberalismo economico, nonostante superficiali ed ovviamente temporanee deviazioni, si sostiene con argomenti e per mezzi differenti da quelli cui deve il suo trionfo iniziale. Esso dovette il suo trionfo iniziale al coincidere del trionfo nell'opinione pubblica delle teorie degli economisti e degli utilitari con le esigenze delle industrie divenute esportatrici, con l'acuto senso degli ostacoli opposti dai dazi sul grano e con la serie di tragiche carestie di patate in Irlanda. Ma in oggi esso si sostiene perché tre quarti del cibo della popolazione del Regno Unito e tre quarti o quasi delle materie prime di cui esso deve provvedersi devono essere comperati con esportazioni di manufatti o di carbone, di macchine, di rotaie o con i servizi della marina mercantile, che è tutta una creazione del libero scambio.

     L'Inghilterra con la sua presente crisi industriale ed operaia sta duramente riconquistando la coscienza di quanto la sua prosperità sia legata alla gran verità che i prodotti si pagano con altri prodotti e servizi e questa coscienza sta neutralizzando la marea protezionista generata dalla psicologia e dalle esigenze della guerra e dall'oblio delle condizioni di progresso degli ultimi settant'anni, naturalissimo a cagione della lunghezza stessa e dell'entità stessa del trionfo liberale. L'Inghilterra stessa è tutt'ora solo imperfettamente consapevole e il resto del mondo, inclusa l'Italia, lo è ancor più di gran lunga ché senza la gigantesca marina mercantile nata dal libero scambio e senza gli ingenti capitali accumulati durante il periodo del libero scambio, la stessa flotta da guerra non avrebbe potuto salvare l'Inghilterra e i suoi alleati dalla sconfitta per opera dei sottomarini e l'America non avrebbe avuto tempo di prepararsi ed arrivare in tempo con navi, munizioni e uomini a scongiurare il disastro; e forse le sue stesse coste e i suoi massimi porti avrebbero sentito le delizie della flotta germanica: il libero scambio fu un coefficiente primario di vittoria. E pur ora che la vittoria è conseguita è chiaro ogni di più che di fronte al rinascere vigoroso della concorrenza straniera ed anche per ridurre al più presto ed al massimo le difficoltà derivanti dalla distruzione di ricchezza e dalla svalutazione della moneta sul continente europeo, l'Inghilterra, con una popolazione che di tanto supera quella che il suo suolo può mantenere e che è ancora in cospicuo aumento, non può mantenere o riacquistare ed espandere il suo commercio estero che se almeno non eleva artificialmente con tariffe, aggiungentisi alle tariffe d'altri paesi, il costo di produzione dei suoi manufatti e servizi e si riserba il vantaggio della libera concorrenza di tutti gli altri prodotti sul suo mercato.

     L'Impero non intacca menomamente queste necessità vitali. Essa non provvede all'Inghilterra che tra un terzo e un quarto delle sue materie prime ed alimentari e fino a che in massima cotone, grano e petrolio dovranno essere comperati all'estero, la stessa preferenza coloniale resterà puramente nominale o quasi; non si potrebbe renderla efficace elevando i costi della vita e della produzione inglesi al punto che le masse manderebbero l'Impero all'inferno!

     E così il liberalismo rimane per l'Inghilterra una necessità vitale di primo ordine. Non solo; esso per la prima volta va diventando ogni giorno di più una necessità vitale pure per il resto dell'Europa: quella stessa Europa che non volle rispondere all'invito di Cobden e di Bright di seguire l'esempio inglese è forse sulla via di trovarsi costretta a seguire tale esempio, come unica alternativa a un colossale disastro comune. E ciò sotto più riguardi. Anzitutto l'enorme distrazione di capitali cagionata dalla guerra e dai folli esperimenti burocratici da questa occasionati costringe tutti ad economie fino all'osso ed è sperabile voglia presto porre fine a statizzazioni e municipalizzazioni, restituendo con le dovute salvaguardie per il pubblico, alla iniziativa privata ferrovie, tram, gas, luce elettrica, telefoni, ecc., salvo un certo minimum di controllo e di partecipazione ai profitti da parte dello Stato e del Municipio, come primissimi soci in ogni impresa. In secondo luogo l'esempio di quel che è avvenuto in Russia dovrebbe aggiungersi a tutto questo e aiutare a convincere tutti che se, entro i limiti di leggi ragionevoli il movimento operaio d'organizzazione, come quello d'organizzazione di ogni altra classe, è legittimo ed utile, il socialismo in tutte le sue varietà è ineluttabilmente disastroso, in ispecie perché trascura il fatto che nessuna nazione moderna basta economicamente a sé stessa e che il commercio estero presuppone una vigorosa iniziativa privata e una intensissima e continua selezione naturale tra gli imprenditori sul mercato mondiale. Il socialismo, sia sotto la forma collettivistica che sotto la sindacalista e la gilodlistica è cieco a queste verità. In quarto luogo la guerra e il dopoguerra dovrebbero aprire gli occhi pure dei ciechi al fatto che, sia politicamente sia economicamente nessuno Stato, specie in Europa, può più da solo sia mantenere a un livello decente di vita la sua popolazione, sia difendere i suoi confini; al che è da aggiungere il fatto che le restrizioni poste in crescente misura dagli stati transoceanici all'immigrazione europea e la tendenza di queste restrizioni a diventare una vera e propria selezione dei desiderabili sono destinate ad accrescere negli Stati europei la difficoltà del mantenere le loro popolazioni crescenti e del trovar loro impieghi produttivi e la possibilità di sempre più elevato tenore di vita.

     Questi fatti dovrebbero essere la condanna del nazionalismo inteso come la tendenza per ogni gruppo etnico che se ne sente la forza di trasformare in mercato chiuso l'area da esso abitata e di aspirare a diventare bastevole a sé stesso sia mediante il protezionismo ad oltranza, sia mediante una politica di espansione territoriale a spese dei vicini. La guerra ha fin troppo favorita questa tendenza col portare alla costituzione in stati indipendenti di tante nazionalità quante si emanciparono dagli Imperi sfasciatisi; e la pace è fino ad ora stata guastata dal non aver mantenuto 1a libertà economica tra le nazionalità che erano già parte di un unico organismo politico e che sarebbe stato sufficiente (e forse non è detto ancora che non ci si arrivi) federare. Ed in aggiunta a ciò la guerra ha esasperato il nazionalismo economico degli stati preesistenti, e questo nonostante sia ovvio ad ogni persona colta, che l'Europa, anche presa nella sua totalità, non può, così come ora è organizzata, mantenere la sua attuale popolazione. Basti pensare di quanto l'esistenza di tante barriere, di tante tariffe, di tanti diversi sistemi monetari, di tanti eserciti, di tante flotte, di tanti sistemi ferroviari, ecc., pone l'Europa in inferiorità di fronte agli Stati Uniti o al Brasile o alla Repubblica Argentina, se avessero la sua popolazione.

     In Europa non è possibile oggi viaggiare da Calais al confine russo senza quasi, specie nelle ultime fasi del viaggio, rompere il sonno per una visita doganale ogni paio di ore, mere formalità di confine impediscono di viaggiare per aria ininterrottamente in Europa per distanze eguali a quelle che separano New York da S. Francisco.

     L'Europa è oggi, a cagione di pregiudizi opponentisi alla più razionale organizzazione dei suoi mezzi di comunicazione e di trasporto, nelle condizioni in cui sarebbe il Nord America se non si fossero inventate ferrovie, telefoni, telegrafi e navi a vapore; sono queste invenzioni, applicate su scala continentale, che hanno reso possibili gli Stati Uniti quali sono oggi; senza di esse gli Stati Uniti riprodurrebbero le condizioni europee; e se esse fossero applicate in Europa sulla stessa scala che in America, l'Europa potrebbe mantenere facilmente in condizioni di prosperità, una popolazione assai superiore all'attuale. Né si dica, che ciò sarebbe a scapito della varietà culturale e della individualità storica delle nazioni europee. Il mondo ha interesse alla varietà delle individualità storiche, alle autonomie delle nazionalità, non alla moltiplicazione dei piccoli stati e alla creazione a stato di ogni gruppo che non sa rassegnarsi ad essere libera minoranza in un gruppo più vasto che rispetta l'egual diritto d'ogni sua parte: autonomia non è un atomismo: ed in oggi una piccola nazionalità, veramente dotata di genio proprio e capace di rendere servigi insostituibili, è molto più sicura di autonomia e di libera espansione entro ad un grande e liberale organismo plurinazionale che non erigendosi da sé Stato e diventando un centro di più di sacro egocentrismo!

     Come la città allarga lo spirito più del villaggio e allarga pur lo spirito del villaggio e ha campo per iniziative che il villaggio non consente e come la nazione ha campo per ulteriori sviluppi di vita rurale ed urbana, in modo analogo lo stato plurinazionale provvede alle nazioni opportunità di sviluppo che non hanno finché son fine a sé stesse e finché la sicurezza invece che un interesse comune appare a ciascuna qualcosa che essa deve per suo conto difendere contro le altre. Per questo la Lega delle Nazioni, sia in sé, sia come risultato finale e tendenziale di Leghe latine, scandinave, balcaniche, slave, ecc., rientra naturalmente nello spirito del liberalismo ed il libero scambio è, sia pur solo come tendenza, la politica economica naturale della Lega. Il liberalismo economico, sia nazionale che europeo e mondiale, trova così una situazione ad esso propizia come non mai per l'innanzi pel fatto che sia il socialismo sia il nazionalismo, specie in quella sua forma vuota e nevroticamente turbolenta che è tra di noi il fascismo, conducono al disastro pur di ciò che la guerra ha risparmiato: il liberalismo è la sola via di salvezza; la Lega delle Nazioni è la sua naturale direttiva. Versailles, Ginevra, Washington, Cannes, Genova sono sintomi e simboli d'una gran verità che tutti li trascende e cioè della crescente coscienza dell'unità europea e mondiale e del bisogno di trovarle metodi e organi d'autogoverno: occorre essere solidali nel saper cooperare per non essere solidali solo nel comune disastro: il liberalismo economico è la sola politica non anarchica e non suicida; le opere del Keynes sono un programma d'azione non solo inglese, ma europeo. Né ci si lasci impressionare dai coniatori di frasi, nazionalisti o socialisti che siano, che vanno dicendo che la Lega e il liberalismo economico sono le ideologie del capitalismo anglo-sassone, da questo inventate per tenere asservite le nazioni proletarie, che costoro chiamano a riscossa e rivolta contro di quello. È verissimo che i paesi politicamente ed economicamente più evoluti, appunto perché precedono gli altri in esperienza economica e politica, veggono nella Lega un loro interesse; ma non è vero che questo non sia anche un interesse comune. Se dalla guerra e dall'anarchia mondiale essi non hanno nulla da guadagnare e molto da perdere, non serve che altri non abbia a soffrirne anche più. Non è punto vero che, ad esempio, una catastrofe britannica sarebbe tosto seguita dall'automatico trasferimento ad altri del credito, della ricchezza o della potenza britannica; l'India, ad esempio, ne soffrirebbe più della stessa Inghilterra; non sempre ogni mutamento è pel meglio. Viceversa è molto più probabile e molto più ragionevole il pensare che gli Stati più evoluti, e in particolar modo a ragione della sua maggior esperienza l'Inghilterra, preferiranno, specie se in seno alla Lega, cedere ad ogni momento sui punti sui quali parrà certo che il cedere sia il modo migliore di non perder di più e di mantenere quella cooperazione fra tutti da cui ogni membro trae vantaggi altrimenti inconseguibili o mal sicuri; metodo questo che è anche il più adatto a garantire che ogni paese di altra nazione verso il livello inglese sarà da tal nazione o gruppo di nazioni state realmente meritato: ossia sarà un vantaggio comune.

     Ed ora in conclusione una parola circa l'Italia. Anche l'Italia è quasi un'isola; è una penisola; pur essa ha più popolazione che quella che può nutrire; pur essa ha quindi bisogno di esportare per importare; pur essa ha bisogno della pace per terra e per mare per l'espansione indisturbata de' suoi traffici nel mondo intero. Non è anche per essa il liberalismo economico e la politica della Lega la politica naturalmente più proficua e più rimunerativa? Non la additano queste sue realistiche necessità come la naturale alleata dell'Inghilterra nella promozione del liberalismo economico sia in Europa in genere ovunque ve n'è l'occasione, sia negli Stati nuovi e più o meno immaturi che le son sorti ad oriente? Non glie l'addita questa missione Camillo di Cavour, il più grande dei suoi anglofili?


ANGELO CRESPI.