ESPERIENZA LIBERALE
Rivoluzione e DisciplinaÈ giustificato il rimprovero che cordialmente ci muove il Murri nell'ultimo Rinascimento o non si deve, invece alla fretta con cui il nostro amico ci ha letti, preoccupato di un'esigenza alquanto schematica di classificazione che non si adattava affatto all'opera nostra? E certi sorrisi quasi scettici e punto coerenti con il suo costante atteggiamento di inquietudine indagatrice non sono forse da attribuire, per esempio a proposito dei comunisti torinesi, a una lacuna della sua cultura politica? Siamo sicuri che ne tornerà a giudicare più serenamente, per la sincera simpatia che ci dimostra, il Murri stesso. "Immaginate voi che cosa sarebbe una rivoluzione di contadini, in Italia? La rivoluzione è fare invece nei contadini come, del resto, nella massima parte degli operai; nelle loro coscienze, perché di strumenti che sono divengano attori, di governati governanti, di servi liberi. "Volere ad ogni costo inserire questa rivoluzione, che deve essere cosa interiore e spirituale, nelle vicende esteriori politiche è un metodo alquanto pericoloso. Queste rivoluzioni storiche si compiono talora attraverso una serie più o meno lunga di crisi, talora si svolgono rapide; ma una basta a caratterizzare un'epoca. Il guaio dell'Italia è che molti italiani, di tutte le classi, sono in ritardo sulla rivoluzione politica: già fatta (?)... I1 mito di una rivoluzione politica da fare è un'illusione sterile, perché lo Stato, nella sua costruzione ideale, è, od almeno era (?), prima dell'avvento dei popolari, più rivoluzionario di tutti i rivoluzionari d'Italia; ed è un'illusione dannosa, perché gli amici che si scaldano e si esaltano per un nuovo Stato da fare, disdegnano la conquista di quello che c'è, e contribuiscono così a peggiorarlo praticamente, senza poter superarlo idealmente". E conclude esortandoci a cercare in noi stessi la disciplina, benché creda che difficilmente noi sapremo trovarla. Ma che cosa ha compreso il Murri dei nostri intenti? Dove é andata a finire la sua concezione idealistica della storia e della politica? E intanto: lo Stato è oppure era più rivoluzionario, ecc.? E se era, ma non è più dopo l'avvento dei popolari, come il Murri conclude, dove consisteva codesta sua superiore forza ideale rivoluzionaria se una questioncella parlamentare è bastata a liquidarla? Oppure il problema è più ampio e la "questioncella" non è che occasione a un chiarimento della realtà e allora lo Stato non solo non è, ma non era, non è stato mai più rivoluzionario, ecc. ecc. e appena è sembrato ecc. ecc. Da questa dialettica non ci si può liberare. Ma ha dimenticato il Murri la nuova revisione della nostra storia cui egli stessa recò eccellenti contributi, che conclude con il negare che gli italiani siano riusciti a penetrare e a far proprio il valore implicito nel nuovo Stato? Ma la lotta politica di Oriani è stata per nulla? E come si può concepire, separato dalla rivoluzione che ogni giorno si fa nelle coscienze, una rivoluzione politica già fatta? Fatta da chi, per chi? Nonché dannosa é addirittura inconcepibile la conquista dello Stato che c'è, perché nessun Stato c'è se non lo creiamo concretamente e attualmente in noi: questa conquista s'inserisce in una tradizione, in un processo storico, ma a patto che il processo storico novellamente si crei, perché in sé non esiste è un'astrattezza comoda per lo storiografo, illusoria nell'azione concreta. Le obbiezioni del Murri sono stranamente anacronistiche e per giustificarle bisognerebbe aderire a una storiografia ormai superata, quella del Laberthonnière, per esempio, non volendo risalire ancora più addietro. Del resto la scoperta murriana di una disciplina distinta dal fervore spirituale che la giustifica e la fa scaturire, di una disciplina antecedente all'idea è addirittura cattolica o almeno prekantiana: libertà e autorità, disciplina e rivoluzione non esistono che come correlative e hanno un senso solo a patto di essere l'una implicita nell'altra. Infine non esistono politicamente interno ed esterno; la rivoluzione nei contadini, negli operai è ancora e immediatamente rivoluzione dei contadini, degli operai, non essendoci pensiero che non sia azione: dovremmo metterci a contestare anche qui la possibilità di concepire la storia secondo due momenti dei quali il primo consisterebbe nell'azione interna e il secondo sarebbe la sua traduzione esteriore? Ma la storia è tutto pensiero e tutta azione e la critica a queste idee psicologistiche che il Murri vuol risuscitare è stata fatta ormai da parecchi decenni. Quando sapremo liberarci dal vecchio Dio naturalistico? Empiricamente - in quello stato che c'è (che sembra esserci) noi operiamo come se esso fosse già attualmente il nuovo Stato da fare appunto perché la nostra opera muove da una valutazione storica e riconosce alla base della socialità un fatto etico - quindi non ci si può rimproverare di peggiorarlo praticamente. Ciò che abbiamo fatto sinora ci distingue decisamente dagli utopisti di ogni specie: e non abbiamo bisogno di mettere in programma il realismo e il concretismo. Ma appunto per realizzare questo Stato, che nella nostra azione è concreto, dobbiamo superarci: perché la nostra concretezza individuale diventa astrattezza nella realtà della storia, come astratti sono tutti i solitari, per es. il Murri e i conservatori teorici, come lui, di fedeltà. Per noi insomma l'adesione allo Stato non è uno schema bell'è fatto che a taluni iniziati spetterebbe indicare e al popolo seguire, l'autodisciplina non può essere un momento di passività; la storia è imprevedibile; bisogna crearla, esaltando il momento creativo contro tutte le illusioni meccaniche e conservatrici; identificarla con l'iniziativa del popolo, riconoscere umilmente la divinità di questa creazione. Qui sorge - per la natura stessa del processo storico - il problema della disciplina. E perché il problema si faccia coscienza realistica è nata nella crisi e dalla crisi, serenamente, La Rivoluzione Liberale, che (spoglia di idolatrie messianiche, conscia che alla Rivoluzione si lavora da decenni e si dovrà lavorare ancora, asceticamente, senza determinare scadenze, che 1a forza dello spirito nazionale apparirà tutta dalla grandezza di questa iniziativa) si propone di mediare 1'immediato, di vivere il dramma di un impulso che si fa organismo, di far scaturire dall'iniziativa l'autorità, di tradurre il mito in storia. Tanto temerario è il nostro realismo, tanto connaturato con l'animo nostro il senso della disciplina che ci consideriamo sin d'ora, in un certo senso, come il nuovo governo della nuova Italia o almeno (e questo è tutto) ne viviamo la responsabilità! La tragedia della PoloniaÈ definita da C. E. Suckert in una ferrea sintesi storica apparsa nel Mondo, che i retori delle redivive Giovani Europe dovrebbero seriamente meditare. "L'occidentalismo della Polonia è stato generato da un'assoluta mancanza di qualità creative, quasi da urna naturale inclinazione all'imitazione ... La civiltà di occidente vi è rimasta allo stato epidermico, non è mai divenuta una necessità fisiologica. "La Polonia passata da uno stato semibarbaro alla pomposa civiltà meridionale, non ha mai trovato la forza e il modo di resistere, di cercarsi una personalità storica, di opporre o almeno di mescolare 1e qualità fondamentali e indistruttibili della razza (che ancora rivelatesi in una forma di civiltà personale) alla civiltà che si era pressa a modello. Di qui la sua perenne mancanza di equilibrio, la sua inorganicità, i suoi tentennamenti, il carattere ambiguo e paradossale delle sue vicende storiche. "C'è del Chopin dappertutto, in Polonia, anche nella religione: vi si sente non già la fede, la tragica fede latina che sa di martiri e d'inquisizione, ma quella bene educata che sa di Sacro Cuore. Vi si sente qualcosa di femminile". Gli occidentali guardano alla Polonia con la nostalgia di uno sport romantico. Michiewiz e Slovacki (che possono avere un grande valore nella cronaca psicologica dei sogni di redenzione) rappresentano 1'impotenza di un misticismo senza umiltà, senza accettazione realistica. Queste menzogne e queste debolezze generano l'ipocrisia della falsa arte internazionale, cara al pubblico europeo più grossolano, di Sienkiewiz e di Ciaicovschi. Nel riconoscimento di tali verità si spegneranno gli entusiasmi neo-mazziniani e falliranno i calcoli della Francia che troveranno alleati debolucci e pretenziosi come tutti quelli che si montano la testa fingendo di difendere una causa idealistica. Tra Germania e Russia - ossia tra due realtà - si dilegueranno gli artificiosi capricci della gallica paura. La scuola cattolicaNelle Pagine Libere A. O. Olivetti getta l'allarme contro la scuola cattolica "In cinquant'anni l'Italia diverrà un nuovo Belgio. Lasciate che due o tre generazioni siano lavorate dalla scuola cattolica e vedrete quale entorse cerebral sapranno imprimere ai cervelli infantili i buoni padri!". Illusioni! Dalla scuola dei Gesuiti nasce Gioberti, nascono le più belle figure di congiurati e di combattenti. Non per volontà dei Gesuiti, ma nonostante essi perché la scuola non forma nulla, non crea nulla, perché essa è morta definitivamente col medioevo e col tomismo. L'elaborazione della scienza è sfuggita per sempre alla scuola, all'università che non ha saputo valersi dell'opera di B. Croce, di G. Papini, di V. Pareto, di G. Prezzolini, di M. Missiroli, di G. De Ruggiero, di A. Tilgher. Einaudi, Salvemini, Gentile, Lombardo Radice, ecc. restano eccezioni, che si son fatta una scuola a modo loro, eppure stanno a disagio tra una turba di persone indifferenti, inascoltati, poco efficaci. La scuola cattolica non riuscirà a dare il nome a una civiltà. Conquistando la scuola i cattolici conquisteranno il vuoto, vi formeranno degli spiriti mediocri, educheranno quella massa che è anche oggi cattolica di nome, ma che non ha peso nella storia. Del resto non occorre seguire il pessimismo di Olivetti in tutte le sue affermazioni: anche in quest'opera i cattolici non rimarranno soli: a contender loro la conquista della mediocrità già si affacciano i socialisti. Di fronte a codesti divulgatori i liberisti della rivoluzione, i razionalisti dell'autonomia avranno la vittoria, senza troppe preoccupazioni, se non verranno meno al loro compito di disciplinatoci della civiltà, di creatori della scienza e della storia. La nostra scuola non ha bisogno di aule, né di programmi, né di orari. Lo Stato eticoSul Manifesto della Rivoluzione Liberale scrive un amico e collaboratore: "Ho una certa paura della funzione di immanente eticità che tu attribuisci allo Stato. Per me lo Stalo non deve essere che il garante della libertà individuale; gli individui poi risolvano come meglio credono il loro problema morale, magari con la trascendenza. Insomma per me non esiste un'idea liberale, ma soltanto un metodo liberale. Lo Stato liberale deve esigere che tutte le idee (le quali hanno sempre un contenuto ossia un dogma) accettino il metodo della libertà per tentare di imporsi". I due concetti non sono affatto contradditori. L'immanentismo etico del Manifesto è immanentismo senza illusioni e senza confusioni e non può teorizzare una funzione, come contenuto, dello Stato. L'eticità dello Stato è un'eticità formale che non ha bisogno di essere professata. Se tutte le idee devono accettare il metodo della libertà per tentare di imporsi, rinunciano per ciò stesso a quel contenuto trascendentale e dogmatico che potessero avere. Questa la peculiarità dell'idea e dello Stato liberale: che lo si deve accettare anche nolenti, che corrode tutte le intolleranze per affermare una nuova intolleranza formale, che non chiede adesioni, ma determina azioni. D'altra parte per il fatto stesso che è garante della libertà individuale lo Stato crea un'armonia sociale e determina una disciplina, che è poi la sostanza stessa della socialità come ampliamento e superamento dell'individuo, come negazione di impulsi egoistici. Ciò nasce dallo Stato per il fatto stesso che esiste. La sua eticità è un impulso iniziale e un risultato che s'alimenta di libera iniziativa. In questo senso lo si può anche definire semplicisticamente amministrazione pubblica ma a patto che si intenda bene tutta la idealità e la religiosità che sono implicite nel coordinare volontà e nel consacrare libere iniziative. Liberalismo e operaiC'è una contraddizione tra il nostro pensiero sull'imprevedibilità della storia e la nostra opera rivoluzionaria di liberali che scorgono nell'azione autonoma dei partiti di massa il coronamento di una formazione nazionale dello Stato? Questa interessante questione ci è posta da un amico unitario che aderisce al nostro lavoro culturale e conserva i suoi dubbi sulla validità dell'impostazione attuale che noi vi abbiamo dato: "È possibile - egli si domanda - ottenere l'adesione del popolo allo Stato, all'organismo della vita sociale operando secondo la concezione dello Stato liberale che gli operai sono stati ammaestrati finora a considerare come nemico? Possono questi operai essere attirati da un programma di libertà economica, quando è stato loro insegnato finora che dalla libertà economica derivano le loro condizioni di sfruttamento, che la libertà serve a chi è già ricco per mantenere le sue ricchezze ed aumentarle, può consentire a qualcuno più fortunato o meno scrupoloso di salire dalla povertà alla ricchezza, ma non può far raggiungere quel regime di giustizia economica e sociale per tutti a cui il proletario aspira?" Invece di rispondere a questa domanda noi ce ne facciamo un'altra: è necessario ottenere questa adesione di principio? In un movimento di masse (ossia in un movimento non scientifico) le idee sono nelle formule o sono nella praxis? Il processo di autocoscienza e di liberazione degli operai deve seguire la sua via. Importa che essi sentano la necessità dell'azione politica, che nell'agire, e non nello sperare o nel coltivare l'astratta giustizia, ripongano la loro salvezza. Se hanno bisogno, per scendere alla lotta, di miti e di astratti programmi, ben vengono anche codeste che l'esperienza storica ci dimostra a priori feconde illusioni. Non è necessario che aderiscano alla storia nel senso in cui noi vi aderiamo. Importa per noi che si scatenino le loro libere, rivoluzionarie volontà, con tutto quel che di messianico vi può essere, e senza attendere o prevedere dei risultati riconosciamo a buon diritto che essi sin d'ora concludono a un'opera liberale in quanto perseguono un processo di autonomia e di liberazione e traducono le loro iniziative in disciplina politica. Questa è la sostanza del nostro liberalismo direttamente antitetico ad ogni pratica conservatrice. ANTIGUELFO
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