POLEMICA NAZIONALISTA

I.

    Debbo una risposta ad una nota "Filosofia di parte?" pubblicata nella "Rivoluzione Liberale" da L. Emery, riguardante alcuni concetti da me esposti sul Nazionalismo, in un'intervista del Resto del Carlino.

    Ecco le frasi incriminate, che egli toglie dall'articolo, e che ricompone con una certa unità nella sua nota: "Il nostro nazionalismo italiano è nato da quella rivoluzione idealistica della coltura, che è cominciata verso i primi del sec. XX" affermando "l'esigenza di riconoscere nell'attività sempre nuova e sempre varia dello spirito, e nella sua libertà di creazione il principio generatore dell'incivilimento umano..: "Questa nuova coltura trovò poi la sua sistemazione filosofica ed il suo rigoroso sviluppo scientifico nell'opera di due grandi italiani, cioè del Croce e del Gentile"... e infine: "Il nazionalismo è precisamente l'espressione politica della nuova coltura, fondata sul concetto della vita come realtà spirituale e come libera attività creatrice di sè e dei suoi valori".

    L. Emery è rimasto scandalizzato di questa concezione del nazionalismo, ed ha sentito il bisogno di spezzare una lancia per la minacciata libertà di pensiero filosofico e politico. E mi proclama ad alta voce tutta una serie di affermazioni sue, una più inutile dell'altra: cioè che il rinnovamento idealistico della coltura italiana non mette a capo direttamente a quel nazionalismo di cui fu primo banditore Enrico Corradini; che l'indirizzo filosofico che ha per maestri Croce e Gentile non produce in politica necessariamente ed esclusivamente il nazionalismo; che se pure Croce e Gentile fossero perfetti nazionalisti tesserati, però in nome dell'idealismo neocritico ed attuale non dovrebbe mai decretarsi il monopolio della rivendita del sale della sapienza ad un partito; e che fare di un partito il mandatario della Verità ripugna al concetto della dialettica storica, che è dogmatico, intellettualistico, e addirittura precristiano; e infine che la filosofia idealistica si presenta e deve valere come interpretazione totale della vita, e spiegare ogni attività umana ed ogni atteggiamento politico.





    Mi pare un po' strano che L. Emery che ha coltura, intelligenza e serena sobrietà di pensiero, abbia così poco inteso il significato delle mie parole, e si sia lasciato trasportare a mettere insieme così a sproposito, tante affermazioni che una per una hanno il solo torto di essere lapalissianamente vere. Nessuno ha mai detto, che il rinnovamento idealistico della coltura politica confluisca unicamente sul Nazionalismo inteso come organizzazione pratica, e che l'associazione nazionalistica pretenda di averne 1'esclusiva rappresentanza. Nessuno ha mai detto che la verità politica della filosofia crociana e gentiliana sia tutta travasata nell'attività del nostro movimento, né l'attività del nostro movimento sia nulla di più e nulla di meno che l'applicazione esatta della verità filosofica dell'idealismo.

    L'Emery, sono lieto di rassicurarlo, ha qui combattuto contro creazioni della sua fantasia. Lo ho detto e ripeto ancora, che il Nazionalismo è sorto da quella rivoluzione, che nel secolo XX ha affermato, contro la concezione materialistica e meccanica della vita e dei valori, una concezione nuova per cui la realtà sociale è essenzialmente spirito, ed i valori umani sono essenzialmente forme concrete della sua attività dialettica. Mentre dalla concezione materialistica e meccanica della vita rifiorivano le utopie di quel moralismo astrattistico da cui stavano per maturare i bei frutti dell'internazionale e del livellamento economico socialista, il Nazionalismo derivava della nuova concezione idealistica i suoi fondamentali principi politici: cioè il principio di nazionalità come espressione viva della spiritualità umana, il principio dello sviluppo nazionale come unico criterio realisticamente etico della politica estera ed il principio dello sviluppo delle libere energie individuali come unico criterio realisticamente etico della politica interna.

    Questi sono i tre principi essenziali e costitutivi del rinnovamento nazionalista, e che derivano proprio da quella corrente ideale che, come ho detto nell'articolo incriminato, dopo un primo momento di fervore un po' incomposto e disordinato raggiunse poi la sua riflessa consapevolezza nella sistemazione filosofica del Croce e del Gentile. Enrico Corradini ebbe il merito di sentire quasi per istinto in quel primo momento della nuova coltura il valore di questi nuovi principi che germinavano spontaneamente dalla mutata atmosfera spirituale italiana. Ed il movimento nazionalista ebbe il merito di propugnarli fin dalla prima ora con netta precisione quando le utopie socialistiche parevano aver ammorbata e allucinata la mente anche di chi aveva l'obbligo professionale di un po' di buon senso. Io non intendo discutere l'attività dell'associazione nelle successive vicende della contingenza pratica: a qualsiasi associazione può capitare che in qualche momento non interpreti con perfetta esattezza in ogni caso particolare i suoi principi.





    Ma è certo che questi principi si sono venuti chiarendo giorno per giorno; ed è parimenti certo che il movimento nazionalista ha contribuito con molta efficacia al loro sviluppo ed alla loro propagazione nella coscienza del popolo italiano. È evidente poi che vi siano dei propugnatori del nostro indirizzo fuori delle file di quelli che si chiamano nazionalisti. La valutazione dell'opportunità di partecipare ad un'organizzazione e di accettare una precisa denominazione politica dipende da speciali condizioni personali, tanto più che non vi è mai stata, né mai vi sarà organizzazione nel mondo, in cui ognuno trovi la coincidenza perfetta col suo pensiero senza un angolo per quanto minimo di declinazione dalla linea retta della propria visione contemplativa. Io credo però che interpretassimo la verità delle filosofie idealistiche meglio noi di quei liberali, che solo due o tre anni fa giuravano ancora sulla filosofia dell'Intesa, e attendevano la pacificazione del mondo dalla società delle Nazioni e dal grande Messia della religione democratica, venuto d'oltre oceano a rinverniciare di pietismo quacquero i luoghi comuni più vieti e più vuoti della demagogia europea, e meglio di quegli altri sedicenti liberali che in nome della filosofia idealistica attendevano l'ordine nuovo dal trionfo di una classe, che è, come tutte le classi, puramente un'addizione di egoismi utilitaristici, ed è quindi destinata a spezzarsi al contatto della realtà.

    Concludendo, io non ho detto affatto che il movimento nazionalista nella sua organizzazione pratica sia la necessaria esclusivistica esplicazione politica della coltura e della filosofia dell'idealismo; non ho detto affatto che esso sia il depositario infallibile ed unico di una verità filosofica. Ho detto soltanto che io credo che il movimento nazionalista sia informato a principi che costituiscono l'espressione più diretta e fedele di questa nuova coltura e di questa nuova filosofia rigeneratrice. Sarò ben lieto se altri mi porterà delle obbiezioni da cui abbia qualche cosa da imparare, ben lieto se mi dimostreranno per esempio che non sia vero che il movimento nazionalista rispecchi per quanto è possibile ad un movimento politico i concetti della filosofia idealistica sui rapporti fra moralità e politica, sull'essenza e sull'origine dello Stato. Un'obbiezione solo chiederei, che non mi venisse fatta oltre quella del monopolio della verità, a cui ho già risposto: ed è un'obbiezione accennata fugacemente dall'Emery, che la filosofia idealistica deve spiegare e giustificare col concetto dialettico della Storia, ogni attività umana e anche ogni atteggiamento politico.





    È verissimo che la filosofia idealistica spiega e giustifica col concetto dialettico della Storia ogni attività umana e anche ogni atteggiamento politico, ma non spiega né giustifica affatto l'acquiescenza passiva e la rinuncia piatta alla realtà quando ci si presenta come falsa teoreticamente e moralmente.

    So bene che non possiamo accettare più la netta separazione che tracciava l'antico razionalismo dogmatico fra verità ed errore: so benissimo che nella storia ogni posizione ha sempre un compito e rappresenta quindi sempre una verità, ma quando un concetto, o un movimento ideale ha perduto il suo contenuto, e la sua capacità di sviluppo, allora la sua funzione è soltanto quella di esaltare l'opposta attività combattiva, e di costituire un momento che dev'essere superato dalla nuova verità che sale vittoriosamente e preme colla sua forza d'espansione. Se a questo si riduce la funzione di un concetto di un atteggiamento politico, se a questo si riduce la sua verità, noi possiamo anche dargli il nome comune e antico di errore, dobbiamo combatterlo proprio in nome della dialettica storica. Il male ha pure un suo compito nella vita, come la sofferenza, come ogni disvalore, ma ha il compito di essere vinto sempre dal bene, che è l'elevazione dello spirito sulla materia.

    Per tornare alla politica, riconosco anch'io che il movimento socialista ha rappresentato una verità nella Storia; ma io non posso rinunciare a discutere se questa verità sia oggi ridotta precisamente ad una pura e semplice posizione da superare. Io non posso accettare in nome dell'idealismo e della comprensione totale della Storia, che un movimento sia da ritenersi, per vero e buono solo perché esiste, che bisogni inchinarci al suo svolgersi solo perché è forte. Una tale interpretazione dell'idealismo talvolta va a finire in una scettica svalutazione della vita e delle sue forme ideali, e questa mi pare un po' la tendenza dell'Emery. E, se non va a finire nello scetticismo finisce di servire a giustificare non più precisamente le negazioni avversarie, ma piuttosto gli accomodamenti dettati da spirito di opportunità molto e troppo pratica.


B. GIULIANO.




II.

    Non mi rammarico di aver provocati, con una nota precedente, questi chiarimenti del prof. Giuliano; e ciò basti a giustificare quelle mie enunciazioni più o meno lapalissiane. (Mi si consenta di dire che credo di non avere, per parte mia, meritato l'ammonimento a stare in guardia dall'acquiescenza passiva e dalla rinuncia piatta di fronte alla realtà, quando ci si presenta come falsa teoricamente e moralmente).

    Questi chiarimenti mostrano soprattutto che il nazionalismo come l'intende il Giuliano è un nazionalismo purificato da vari elementi e tinte con le quali esso ci si presenta per lo più. Il Giuliano fa infatti le sue riserve sugli atteggiamenti particolari dell'Associazione, e riassume in tre principii essenziali la sostanza della dottrina nazionalista. A questi principii sottoscriverebbero - io credo - molti, che dal nazionalismo italiano organizzato non si sentono punto attratti.

    Il primo è "il principio di nazionalità come espressione viva della spiritualità umana". Ma quante volte la nazione è assunta come dato alquanto naturale e non spiritualizzato, come eredità immediata, pari a quella del "sangue blu"! È proprio una mia fantasia, che il nazionalismo italiano sfoggi piuttosto spesso argomenti antropologici come le virtù della stirpe, o d'una retorica mitologica come le aquile di Roma ed il leone di S. Marco?

    Il secondo è "il principio dello sviluppo nazionale, come unico criterio realisticamente etico della politica estera". Questa è la rinnegazione degli astrattismi umanitari, della gratuita fraternità universale, è l'affermazione della politica come volontà e come potenza: dottrina, come è noto, propugnata in Italia soprattutto dal Croce. Ma il Croce stesso - almeno verso la fine della guerra, ché di tale epoca è lo scritto cui mi riferisco - sembra non ravvisasse una piena e coerente adozione di tale principio da parte del nazionalismo italiano, ma vi trovasse forti residui di astrattismo, se sentiva il bisogno di avvertire: "In verità, se in Italia, ci rendessimo liberi, tutt'insieme, dai moralisti della politica, dai settatori di forme astratte e dai settatori di astratte grandezze (democratici, dottrinari, nazionalisti-imperialisti), avremmo spazzato via una grande quantità di chiacchiere non solo vuote ma pericolose, e guadagnato tempo e spazio per dibattere le questioni veramente serie della nostra vita nazionale, e per venirne procurando gradualmente le soluzioni" (Critica, 20 settembre 1918). Abbiamo avuto, dalla guerra libica in poi, parecchie manifestazioni di un imperialismo parolaio e poco illuminato, incurante delle possibilità reali, imperialismo non meno astatto di certi umanitarismi giustamente derisi.

    Quando al suddetto concetto della politica, che esso non appartenga in proprio al nazionalismo, il Croce nella stessa occasione affermava dicendo

    "Ma questa teoria (della politica come volontà o potenza) ha tanto poco da vedere con un atteggiamento politico particolare, che la sosteneva perfino, e in modo acerrimo, Carlo Marx, il quale, ch'io sappia, era socialista".





    Il terzo è "il principio dello sviluppo delle libere energie individuali come unico criterio realisticamente etico della politica interna". È necessario esemplificare gli entusiasmi nazionalisti per una politica protezionista, che si risolve nel privilegio di determinate categorie di cittadini e nell'inceppamento delle energie individuali di tutte le altre? Commentando il recente congresso di Bologna, un critico non sospetto, quale è il prof. Perozzi, nazionalista, scriveva pur ieri, sull'o. d. g. relativo all'incremento della produzione; "avrei desiderato che un'altra cosa fosse detta oltre alla necessità di distinguere fra politica ed economia; questa: che i produttori italiani devono sempre meno contare sul cliente Stato e sempre meno assicurarsi e vincolare a sé la clientela nazionale con dazi presso che proibitivi e contare invece per la conquista di questa come della clientela straniera sulla bontà e la novità del prodotto". (Idea Nazionale, 13 aprile).

    A queste osservazioni mi par di sentire il Giuliano rispondere: - Ma queste sono scorie, sono deviazioni particolari della contingenza pratica. Il nucleo del nazionalismo, il nazionalismo vero non è qui.

    Benissimo. Ed io sono lieto di riconoscere che il suo nazionalismo, infatti, non é qui. Agli occhi di molti, tuttavia, di quasi tutti, accade che un po' di queste scorie, le quali sono qualcosa di più che infiltrazioni marginali, rivestono di tutta una buccia e d'un colorito ostico le manifestazioni del nazionalismo italiano. (Un bell'esempio di dogmatismo nazionalista è dato, per esempio, dal Bodrero, citato in una delle postille della Rivoluzione Liberale). E accade che un po' di questo colore stinga, sia pure a torto, anche sui nazionalisti che potremmo - senza alcuna intenzione ironica - chiamare veri o puri, quale è il Giuliano. Uomini come il Giuliano hanno nel nazionalismo la funzione di eretici: gli eretici, infatti, nella vita religiosa, sono sempre stati il lievito spirituale, contro la tendenza ad una cristallizzazione di essa in forme astratte.

    Facendo quelle tali riserve, nella mia prima nota, di fronte a talune affermazioni del Giuliano, avevo io dunque preso lucciole per lanterne? Ecco: io - trasgredendo all'aureo distingue frequenter - avevo in parte preso il Giuliano... per un nazionalista tout court. Riconosco di averla fatta grossa, e giuro che non lo farò più! A lui ne fo, anzi, tutte quelle scuse... che egli non potrà accettare.

***

    Ma in generale vorrei soggiungere qualcosa intorno al primo dei tre principii del nazionalismo, sopra citati. Il punto più delicato della dottrina nazionalista mi sembra quello che pone la Nazione come criterio supremo. (Anche E. Corradini afferma che "fondamentali principi riformatori della civiltà politica nazionale" sono: "la affermazione della realtà spirituale della nazione e quella della sua sovranità". Il Principe, n. 4).





    La questione è ardua, ed io accennerò qui soltanto brevemente.

    Nazione è concetto che ha in sè alquanto del naturalistico. Le nazioni sono determinate nella loro individualità da molti elementi del tutto ineliminabili, opachi come dati di fatto materiali. Come tali, essi presentano il pericolo che l'interesse della Nazione sia concepito altrettanto infetto di "egoismo naturalistico" quanto quello della classe. Non si vede per che motivo razionale (e tanto più se i partiti sono - quando sono - organizzazioni pratiche con programma limitato, destinate a risolvere determinati problemi) non ci debba essere posto per siffatte organizzazioni, che siano polarizzate per altre idee-basi, che quella di nazione.

    È stato osservato acutamente che, in una rigorosa dottrina nazionalista, là dove si dice comunemente Nazione, deve quasi sempre intendersi Stato.

    Così intendendo, il nazionalismo sì fa molto più comprensivo, il suo punto di vista si eleva il suo orizzonte si allarga, sì da consentire una visione integrale della vita politica: da concezione di partito, esso si eleva davvero a veduta filosofica. Ciò è magistralmente esposto da una delle menti più lucide del nazionalismo italiano, Silvio Perozzi, nello scritto stesso citato più sopra; del quale giova riferire questo passo capitale:

    "Il Nazionalismo non domanda la morte di nessuna idea politica, se non forse di quella anarchica. Domanda soltanto la subordinazione di tutte a quella della necessità di mantenere lo Stato e di farlo vivere come deve, secondo le sue necessità, vivere.

    "Così essendo, esso si pone sopra i partiti. Onde la sua mèta ideale è veramente questa di scomparire per essere divenuto il patrimonio comune di tutti gli italiani. Il pensiero dello Stato deve divenire per i partiti, a così dire, quello che è il territorio dello Stato per i cittadini; il luogo dove tutti stanno e s'incontrano pure per combattersi.

    "È davvero impossibile unire socialismo nazionalista? Una democrazia nazionalista? La domanda è da porre con tanto maggiore sicurezza di una risposta negativa in quanto chi guarda oltre i nostri confini vede, se non proprio dei socialisti nazionalisti e delle democrazie nazionaliste, socialismi e democrazie a cui poco manca ad essere interamente tali".

    Davanti ad un pensiero come questo del Perozzi, ci sembra lecito, senza fare questione di parole, chiederci: ma questo è ancora nazionalismo, o è una nuova affermazione di liberalismo?


L. Emery