UN LETTERATO LEGISLATORE
E. JANNI, Memorie di deputato - Roma-Milano, Ed. Mondadori, I922. Poiché E. Janni evidentemente si crede un letterato, come appare dal contesto e dalla forma anche di questo suo ultimo libro, mi parrebbe opera di conversione, se non del tutto inutile, certamente alquanto dubbiosa e quasi disperata, ripetergli le vecchie osservazioni, tanto vecchie che si prova una tal quale vergogna nel pronunciarle, sulla saggezza aurea e mediocre. Fors'egli non riuscirebbe mai a capire che l'uomo di lettere non è per necessità uno svagato e un perdigiorno, che non sa muoversi nel mondo, che non sa trattare con gli uomini, e ripugna ai loro maneggi, ai loro calcoli, alla vicenda esperta dei dibattiti politici: che anzi forse è doveroso a lui, come e più che agli altri, accogliere con discreta sapienza la varietà dei casi, e nonché dire gaie parole ad una bella donna, tramutarsi magari, quando occorre, in legislatore. Fors'anche inutile sarebbe ricordargli che se pur si può menar buona ad un letterato la mancanza di attitudini politiche, così come a Don Abbondio quella del coraggio, tuttavia i difetti profondi e originari del nostro temperamento è opportuno se mai non parlare. Pare invece al Janni d'aver acquistato dalla sua esperienza il diritto ad una malintesa superiorità da predicatore del buon costume e della morale pubblica. Sennonché qui appare più chiaro il fatto di cui noi ci eravamo accorti da un tempo, che lo scrittore si fa in questo suo libro portavoce di un'opinione largamente diffusa. E qui appunto volevamo giungere, perché ci si presta l'occasione di additare il danno non piccolo derivante alla coscienza politica del paese e alla generale educazione dall'atteggiamento di svalutazione e di disprezzo dell'organismo parlamentare comune in certi strati più o meno ampi della popolazione. Svalutazione e disprezzo che più spesso hanno le loro radici, com'è nel caso del Janni, in una falsa letteratura, e nell'artificiosa coltivazione di un sogno di purezza meravigliosa e soprannaturale evidentemente poco opportuno per chi vuol mettersi a contatto della realtà: ne nascono certe arie sdegnose e scandolezzate, certi attucci di dignità offesa e di verginità insultata, sulla immoralità dei quali mi par inutile discorrere. Talvolta persino la svalutazione tenta di farsi metodica e regolata, come nella teoria astrattissima dei comunisti. Ed è in ogni caso dannosa, perché impedisce la formazione di quella coscienza politica più avveduta, spregiudicata e sapiente che dovrebbe essere, in Italia, patrimonio antico e comune. Ma forse ci accade di dar troppa importanza ad un libro, che svela agli occhi di ogni lettore esperto la sua falsità, e non è atto quindi a recar danno. Non diremo nulla del suo stile talora barocco e pretenzioso, altra volta pedestre, sempre abbondante, stucchevole, privo di sottintesi e di imprevisto: non ne diremo nulla, perché in fondo non è uno stile, ma un insieme di loquele strane e diverse, delle quali non sarebbe troppo difficile indicare con precisione le fonti. Trascriveremo soltanto un periodo a caso: "C'è vento fra i lecci, su. Il cielo é sparso di grosse nuvole tra cui il sole appare e dispare; e le nuvole sono come ruine gigantesche. Il cielo e il colle si corrispondono. Ondeggiano pensieri di bellezza e di terribilità, di sovvertimento e di gloria, col respiro ansante e poderoso che ha il vento. Tutto passa; tutto dura. Ogni tramonto è un'alba più in là. Signore Silenzio... ". E qui l'autore continua, regalandoci nientemeno che una preghiera, che noi definiremo, per evidente eufemismo, soverchiamente immaginosa, e che tiene persino qua e là del metafisico. Sennonché noi non abbiamo forse il diritto di riversare sugli altri la noia delle nostre letture. n. s.
|