SUL DRAMMA DELLA MODERNITÀ

I.

Londra, giugno.

    Volete concedermi un po' di spazio e di attenzione perché possa chiarire, soprattutto a me stesso, alcune considerazioni cui sono stato indotto dalla lettura dell'acuto articolo su "Dramma della modernità?" Anzitutto, mi sembra che il Suckert dia un'importanza eccessiva a quello spirito goffamente provinciale col quale, da noi, viene comunemente interpretata la crisi odierna. È ormai, un luogo acquisito, per non dire comune, il considerar la crisi che travaglia oggi il mondo moderno non soltanto economica, ma, più - e sopratutto - crisi di pensiero e spirituale.

    Ma questo riconoscimento, nel quale ogni persona appena mediocremente colta non dura fatica alcuna a convenire, non esclude affatto la utilità e, talora, la necessità che siano anche analizzate le manifestazioni di indole strettamente economico della crisi, che se non sono state tutte direttamente determinate dal caos spirituale che oggi imperversa, sono state da questo rese immensamente più gravi e difficili a risolvere. Io ritengo che questa divisione di lavoro, nell'analizzare la crisi, sia necessaria, poiché soltanto così è possibile afferrare tutti gli elementi di essa e misurarne la reale estensione e profondità. Riguardo, quindi, senza la ostilità del Suckert i lavori, poniamo, di un Keines o di un Nitti, e - dal mio punto di vista - li considero esattamente per quel che valgono: contributi, limitati ed unilaterali quanto si voglia, ma innegabili contributi che ci aiutano a capir meglio la realtà in mezzo alla quale operiamo e della quale siamo attori. Spetta, poi, allo storico, alla sua capacità universalistica di comprensione, di far la cernita accurata degli elementi validi che sono in ciascuna di queste indagini parziali per arrivare, con un processo di sintesi creatrice, al possesso del quadro generale della situazione, alla pienezza, cioè, della storia.

    Può darsi benissimo che io mi inganni, ma mi sembra di scorgere, nelle successive affermazioni del Suckert, una specie di petizione di principio. Afferma egli, e giustamente, che il lievito vitale della moderna civiltà è tutto nella Riforma, che introdusse, in opposizione al dogmatismo cattolico, lo spirito critico, d'impronta nordica ed occidentale. Più oltre, l'A. conviene che lo spirito critico moderno non è stato una creazione originale della Riforma, ma nacque dal distacco operatosi tra l'antica mentalità dogmatica e la nascente coscienza critica. In questa ultima, di conseguenza, deve ricercarsi la radice della crisi attuale, poiché - secondo afferma l'A. - tutta la storia di quattro secoli a questa parte è figlia diretta di quella separazione cui si è dianzi accennato. Più che ad un'apologia della Riforma, ci sembra che il ragionamento, poiché l'A. mostra di non compiacersi gran che di quelli che sono stati i frutti della moderna civiltà, conduca ad una esplicita condanna di un orientamento di pensiero che, se fu inizialmente utile, diede poi i risultati che possiamo oggi agevolmente controllare. E questa conclusione mi sembra sia in evidente contrasto con lo spirito che informa tutto l'articolo e con le illazioni centrali del Suckert.





    A questo punto, non sarà del tutto inutile dare un rapido sguardo a quel che avviene qui, ove la civiltà di tipo anglo-sassone ha potuto pienamente svilupparsi. Siamo anche qui in piena, profonda crisi, che - per taluni aspetti - è forse più grave di quella che imperversa da noi. Non è il caso di ripetere quello che tutti sanno. E cioè che la Riforma ha esercitato una funzione storica importantissima, nel senso che ha salvato i paesi che se ne fecero banditori da quella sopraffazione del loro specifico genio nazionale che la Chiesa di Roma avrebbe certamente operato. Oggi si può dire che della Riforma abbia largamente beneficato anche la Chiesa Cattolica, poiché - sotto il pungolo vigoroso di quella - essa gradatamente si riportò alla sua specifica funzione di Istituto universale dello Spirito, contraffattosi e snaturatosi specialmente dopo la completa vittoria del Papato sugli Svevi. Ma ora appunto qui in Inghilterra, ove mi trovo da qualche mese nella fortunata situazione di non dover riguardare le cose e gli uomini con mentalità e fretta giornalistica, ma solo con lo scrupolo di un onesto osservatore che voglia capire prima per sé che per gli altri, qui in Inghilterra si assiste ad una interessante evoluzione della coscienza religiosa, ridestatasi, attraverso le sofferenze e gli smarrimenti dell'ora attuale, ad una vita nuova, di cui ora, si capisce, si ha soltanto un'alba ricca di promesse.

    Il fatto appare tutt'altro che strano quando si consideri che la Riforma, in ultima analisi, non fu che una reazione, e come tale ha avuto un carattere essenzialmente negativo. Più che porre valori sostanzialmente nuovi, essa si limitò a difendere strenuamente la vita ed il libero sviluppo dell'allora sorgente stato nazionale dalle sopraffazioni di una chiesa avida più di dominio temporale, che di esercitare la sua tipica missione di suprema guida spirituale dell'umanità. Ma ora che la coscienza nazionale ha potuto qui, in virtù appunto della Riforma, sostanziare i suoi valori meglio che presso tutti gli altri popoli civili, si è incominciato ad avvertire che religione e morale non possono più oltre essere un capitolo della politica e si domanda un distacco netto tra la potestà religiosa e quella politica, che la ragione di Stato tiene ora insieme congiunte e confuse. Non è di oggi, nello stesso campo protestante, il sorgere di infinite chiese accanto ed in concorrenza con quella anglicana ufficiale, le quali nacquero appunto dalla protesta contro una religione troppo legata a istituzioni politiche. Queste Chiese dissidenti tendono oggi a federarsi, per superare l'atomismo in cui la pratica religiosa della Nazione pareva dovesse fatalmente avviarsi. Si vuol ridonare al Paese quell'unità di concezione e di praxis religiosa che sin qui gli è mancata.





    L'origine del moto determinatosi tra elementi avversi all'anglicanismo ufficiale, esclude che questo possa assolvere il nuovo compito. Si parla, invece, con insistenza di un possibile ritorno al Cattolicismo. E sta di fatto che, mentre si assiste, negli ambienti della cultura religiosa e da parte degli spiriti più acuti, ad una serena rivalutazione del cattolicesimo per scrutare gli elementi vitali e permanenti che ancora sono in esso, le conversioni di protestanti alla Chiesa di Roma avvengono ora in misura che sorpassa di gran lunga quella di ogni altro periodo. Questo ritorno al cattolicesimo, o questa tendenza al ritorno, sta ad indicare che anche il mondo e la civiltà anglo-sassone stanno passando attraverso una crisi che si rivela in mille altri aspetti, ma, della quale quello che io ho preso in sommario esame è uno dei più tipici e che potrà sbarcare nelle direzioni più impreviste. Qual'è, dunque, questo tipo di civiltà anglo sassone che l'A. vede sceso a tenzone con quello latino, e che a lui appare esistente come una entità davvero organica, monoliticamente salda? E dove sono i depositari di questo tipo nuovo di vita da imporre alla cocciuta recalcitrante mentalità cattolica meridionale? Lasciamo stare per un momento la Germania, tutta intenta alle sue ricostruzioni ed ancora, troppo sbigottita dalla sconfitta toccatale per pensare a compiti di espansione spirituale nel mondo. Osservando quel che avviene in Inghilterra, vediamo che anche qui istituti tradizionali e posizioni di coscienza acquisite da secoli vanno rapidamente evolvendosi. Si cerca di uscire - e se ne uscirà, forse, meglio qui che altrove - da una grande tempesta, che non si è abbattuta solo sui gioiosi lidi mediterranei, ma ha avventato anche i suoi marosi sulle spiaggie piene di brume del settentrione.

    Io credo modestamente che la situazione sia diversa - e profondamente - da quella che è apparsa al Suckert. A me, infatti, sfugge il senso e la portata della lotta che il Suckert afferma esistere tra il mondo latino e quello anglo-sassone. Le due civiltà, senza aver la pretesa l'una di elider l'altra, tendono, invece, ad integrarsi. Questa integrazione si compirà con i metodi che sono proprii del mondo dello spirito: non brutale immediata sovrapposizione, ma lenta graduale compenetrazione reciproca. Ma per avvicinarsi, occorre capirsi. Chi capirà di più, parteciperà più largamente alla creazione di quel tipo di civiltà occidentale europea, di cui la guerra ha riaffermato non solo l'inderogabile necessità, ma ha posto anche premesse che non possono essere cancellate. Lo stato attuale di incivilimento delle nazioni latine non è, comparato a quello anglosassone, uno stato di inferiorità, sempre ed in tutto. Mi sembra più giusto dire, per una quantità di ragioni che è inutile enumerare, che esistono - tra il mondo latino e quello anglo sassone - alcune tipiche differenze, che non potranno mai essere eliminate. Ma come si può affermare, ad esempio, sic et simpliciter, che in Italia ora tutto è morto? Mi sembra, inoltre, che l'Italia non può essere collocata sullo stesso piano della Spagna, quando, proprio nel recente conflitto europeo, ha dato una chiara misura della sua intrinseca vitalità. E' morta una Italia che partecipa ad una guerra come quella mondiale e vi partecipa, nonostante tutti gli errori che conosciamo della classe dirigente, con onore? Che elimina con lo sforzo del suo popolo armato un anacronismo come l'Impero austriaco? Che con la rinascita del pensiero idealistico segna il passo alla filosofia contemporanea? Che manda all'estero 10 m ilioni dei suoi figli? Una Italia che è tutto un fermento di esperimenti e di lotte, le più disparate ed estreme, compiute quasi tutte con sanguinosi sacrifici, può dirsi con tanta tranquillità, un cadavere? Tutto meno che questa definizione può convenire ad un Paese come il nostro, del quale di lontano se è facile vedere tutte le profonde deficenze, non è difficile anche avere la sensazione che qualcosa di veramente profondo e vitale ci resta in esso, sia pure offuscato da errori e da aberrazioni che, talvolta, offendono atrocemente il senso che noi abbiamo della Patria. L'Italia, come ben diceva il Mazzini sin dal '57, è un fatto nuovo, un popolo nuovo, una vita che ieri non era.





    Noi siamo un popolo giovane, ecco tutto.

    La nostra impossibilità a vivere alcuni aspetti della moderna civiltà è più connessa alla nostra data di nascita che ad una inguaribile incapacità di assimilazione.

    Non occorre, mi sembra, per il gusto di sembrare paradossali, crear antitesi oltre quelle realmente esistenti. Oggi la crisi è generale: esiste nel mondo latino come in quello anglo-sassone. Questa situazione di comune marasma è la più propizia, a mio avviso, per la formazione di un tipo di civiltà nuova, che conterrà in sintesi quanto i due mondi, che la guerra ha avvicinato più di quel che abbia diviso, hanno conservato di veramente vivo attraverso esperienze e cimenti secolari. Il processo di questo solidale ravvicinamento è dichiarato chiaramente dagli scambi culturali, dall'ansia e dalla buona volontà che ciascun popolo mette nel conoscere l'altro, che non raggiunsero mai, nel passato, la odierna integrità.

    Il trionfo del "Mondo", quale è veduto dal Suckert, mi sembra davvero effimero, per non dire inesistente. In un secolo in cui tutti i sistemi sin qui banditi e praticati sono dichiarati insufficienti (dal comunismo al capitalismo, indifferentemente), nel quale si è dovuto riconoscere che anche una soluzione perfetta non eliminerebbe il dramma che oggi vive in ogni coscienza, il trionfo di questo mondo (civiltà messianica, etc.), può apparire solo a chi si indugi appena sulla soglia della realtà. Le varie e innumerevoli forme della - modernità si sa ora perfettamente quel che siano e non hanno più alcun potere di fascino se non su mentalità superficiali e grossolane. Se non fosse a trattenermi il timore di lanciare affermazioni troppo generiche, direi, anzi, che questo tipo di mondo ha segnato il suo pieno fallimento.

    E mi sembra, concludendo, molto strano che l'A., pur deplorando le unilateralità del Keynes e degli altri economisti, venga poi ad annettere, quando afferrata il trionfo della sua modernità, una importanza principalissima a quegli aspetti della civiltà, che non vorrebbe fossero da altri comunque tenuti in considerazione.

    Io non credo di muovermi nel campo dell'utopia se affermo, che alla faticosa e difficile elaborazione di un tipo di civiltà europea fa riscontro, nella serie dei fatti meglio controllabili e positivi, la Società delle Nazioni d'Europa! Derisa ed intralciata ora dalle diplomazione e dalle superstiti borie nazionali questa idea ha già conquistato il profondo dell'anima popolare e si avvia lentamente a tradursi in atto. Sarà essa certamente incarnata, lontani, in una nuova organizzazione politica dell'Europa, anche perché i futuri conflitti, di razza, che forse nel lontano Pacifico troveranno la loro prima esca, obbligheranno l'Europa ad essere un solidale corpo economico sociale e politico.

    Non sarebbe, infine, niente affatto stupefacente, che le esigenze della difesa comune della civiltà occidentale, facessero sorgere proprio qui, ove la protesta luterana ha avuto una incarnazione secolare, la parola che, per l'Italia, rende perplesso il Suckert: Controriforma.


GIOACCHINO NICOLETTI.

II.

    Che due persone riescano ad intendersi in una discussione, è cosa, si sa, alquanto difficile: se ad esse poi se ne viene ad aggiungere una terza, la cosa diventa, senza alcun dubbio, impossibile. E nulla, dopo le interessanti cose scritte dal Suckert e dal Nicoletti, io avrei voluto dire, per non confondere il lettore e per non darmi l'aria il che è del tutto estraneo alle mie intenzioni, di assidermi giudice tra i due contendenti. Ma lo scritto del Suckert mi è parso rispondere ad una tendenza oggi molto in voga: ed è su questa tendenza che voglio scrivere qualche linea, libero il Suckert, se vorrà, di dire che queste linee a lui non si riferiscono.





    È così facile fraintendere il pensiero e l'animo di uno scrittore attraverso là fugace lettura di un articolo, per quanto si voglia pensato!

    La tendenza a cui alludo, si può definire estetismo filosofico: comune, per ragioni diverse e con diversi aspetti in Francia e in Germania, si è da qualche anno andata diffondendo molto anche da noi. Si vogliono staccare concetti da quei fatti particolari che essi illuminano e da cui sono limitati, si erigono ad entità, si trasformano in cose che si contemplano e si vagheggiano così come l'artista vagheggia i suoi personaggi. E se si giungesse ad una rappresentazione artistica, poco male! Ma, sotto questa visione estetica, permane il desiderio della ricerca filosofica: e tutte queste costruzioni soffrono di interno squilibrio né possono avere una qualsiasi conclusione, o armonicamente artistica o linearmente logica. Non è un caso che le conclusioni che si possono dedurre o si deducono, siano per lo più indifferentemente opposte. Rileggiamo l'articolo del Suckert, che pure tanti pregi ha di pensiero e di arte (si rilegga, ad esempio, la rappresentazione della figura di Lutero). Vi si parla di Riforma e di Contro-Riforma, di Cattolicismo e Protestantismo, ma fino a qual punto esistono sotto questi nomi, fatti reali? Che la civiltà moderna nasca dalla Riforma, che le nazioni settentrionali siano tutt'ora penetrate dal suo spirito, che quelle meridionali siano invece ancora penetrate di cattolicesimo è cosa indubitabile. La questione non sta qui e può essere, credo, formulata nel seguente modo: Può l'antitesi di cattolicesimo e protestantesimo esprimere appieno la crisi che oggi traversiamo? Non sorge questa crisi da un terreno nuovo, non ne sono le cagioni da ricercarsi in tempo più a noi vicino? Che nella serie delle cause si possa risalire fino alla Riforma, è cosa naturale: ma vi è il pericolo che il risalire a cause troppo lontane faccia perdere di vista l'individualità del fenomeno. Non pensa il Suckert che, se non nelle formule delle Chiese,, nella vita di ogni giorno, nel sec. XIX i paesi protestanti si siano andati penetrando di spirito cattolico e di spirito protestante i paesi cattolici? Opera lenta, naturalmente, che perdura tuttora, ostacolata in diversi modi nei diversi paesi, ma non per questo meno sicura. Non si accorge il Suckert, che quella Contro-Riforma, come a lui piace chiamarla, e a cui egli guarda come ad un incerto avvenire è da tempo in opera in tutti i paesi d'Europa? Badiamo solo a non trasportare i nomi troppo lontano dai fatti che essi significano e a credere che la nuova storia debba prendere le forme identiche a quella passata, perché, per un effetto estetico, a noi è piaciuta denominarle con identici nomi. Il Suckert dimostra un disdegno magnanimo verso gli economisti e bene ha fatto il Nicoletti a dimostrare quanto vi sia di esagerato in tale atteggiamento. Gli economisti fanno il loro compito, calcolando le forze economiche di un dato periodo: ma poiché quello che vi è di nuovo, deve loro sfuggire, è naturale il loro atteggiamento pessimistico, quando essi si rivolgono verso l'avvenire. E che vi è di diverso da questo nell'atteggiamento di chi, convertendo la storia della filosofia in una storia naturale, esige la ripetizione di uno stesso fatto e vede morta l'Italia perché non ha avuto la Riforma come la Germania o la Germania perché non è cattolica come l'Italia?





    Il Suckert stesso non riesce a celare quanto di artificioso vi sia nella sua costruzione. Non parlo della posizione identica che egli ha assegnato alla Spagna ed all'Italia e che il Nicoletti ha già mostrato come errata: ma che senso possono avere le sue parole sulla Francia? "Il francese, questo parassita della latinità, rinnegatore e traditore della comune origine": queste sono le parole del Suckert: ma che significa latinità? Che significa tradimento? E che cosa rappresenta oggi la Francia, secondo lo scrittore? Forse egli la crede morta: ed allora la nazione, da lui scomunicata, si trova in buona compagnia, perché morti siamo anche noi, e moribondi almeno i popoli settentrionali, uccisi per l'opera nefasta della Riforma! Proprio come nel verso finale di quella parodia, i personaggi del dramma suckertiano, finiscono tutti la loro vita nell'ultimo atto: "Non li aspettate più; son tutti morti.." E qui è la contraddizione maggiore in cui si dibatte l'acuto scrittore: se noi siamo veramente morti, come può da noi sorgere l'auspicata Contro-Riforma? Contraddizione che nasce dall'altra latente in tutto lo scritto: o l'opera della Riforma era legittima e non può essere stata quindi disastrosa, come dice il Suckert, o era illegittima e come ha potuto in tal caso fare apparire morto il cattolicesimo e i paesi cattolici, come pare egli dica? Un'antitesi così rigida come quella esposta dal Suckert, non può essere vera. Non si tratta di adagiarci in un comodo ottimismo: le antitesi sono molte ed aspre, ma, come ha detto il Nicoletti, non foggiamo antitesi immaginarie perché troppe sono appunto le reali. Può avvenire che dinanzi a queste e ai tanti dolori da queste causate, noi proviamo una certa vergogna per la vanità delle costruzioni della, nostra superbia intellettuale: e può anche avvenire che queste immaginazioni creino in noi un tormento vero tanto più doloroso quanto più oscuro, simile a quello ricordate? in cui si dibattevano i milanesi del secolo XVII a cagione degli untori. "Ed era invece il povero senno umano che cozzava coi fantasmi creati da sé".


MARIO FUBINI.