Studi sulla cultura politica francese
ROMAIN ROLLAND

     Accanto ad altre personalità di suoi connazionali o di suoi contemporanei quella di Romain Rolland appare priva così di interne complicazioni come di crisi rinnovatrici. Lo si accusa di apostasia, e si è ingiusti; si esaltano i mutamenti dei suo pensiero come progresso, e, inclini pure il Rolland stesso a questo modo dì vedere, noi non possiamo far nostre queste lodi. Chi ha scritto il dramma Le temps viendra non è lontano da chi ha scritto il romanzo Clérambault né lo scrittore del Teatro del popolo da quello dei Precursori. Vi è nella vita e nell'opera del Rolland qualcosa di immobile e di uniforme: ce lo direbbe da solo il fatto che le sue opere, prive di limiti che le distinguano l'una dall'altra, tendono a raccogliersi intorno ad un'opera sola, priva anch'essa di limiti ben definiti. Ci può trarre talora in inganno una molteplicità di atteggiamenti e di toni e indurre a credere ad una inesistente complessità o più spesso alla mancanza di un centro intorno a cui si raccolga una persona, del motivo unico imperioso che crea l'artista. Ma sotto quella molteplicità apparente si cela la fissità di un pensiero costante.

     Lo dicono un romantico, un romantico attardato, ma piuttosto che romanticismo lo stato d'animo che la sua opera. esprime, può dirsi un sogno di romanticismo. La sua posizione spirituale non è distante da quella di M.me de Staël: rivive in lui l'anima di un francese del 1820 o del 1830, di quei francesi, che, usciti da una educazione strettamente razionalistica, sentivano le indefinite aspirazioni di un secolo nuovo e guardavano con occhio desideroso il fantasma vago e grande della Germania. Analizzare il pensiero che dà vita a questo stato d'animo è difficile: si può dire, con una parola, che le idee del Rolland non differiscono molto da quelle del France, perché l'opposizione che si suole stabilire tra i due scrittori ha realtà come opposizione di temperamenti e non come opposizione di idee: né, se non fosse esistita questa vicinanza di pensiero, sarebbe stato possibile quell'influsso del France sul Rolland, che si sente nel Colas Breugnon.

     Più che aperta professione romantica tutta la vita del Rolland è dunque un'aspirazione al romanticismo: una generazione che si rivolgeva ai romantici come a suoi maestri ha trovato nell'opera sua più che una guida, un compagno.





     Diceva il Duca di La Rochefaucauld che vi sono persone le quali mai avrebbero amato se mai avessero sentito parlare di amore: vi sono parimenti libri, che mai sarebbero stati scritti, se non avessero avuto altri libri dietro di sé. Ma, come quegli amori riescono pure ad essere reali, così questi libri, per quanto non nascano da una passione ben definita, possono avere una vita propria. Se l'ispirazione del Rolland è letteraria e non potrebbe non esser tale dato lo stato d'animo da cui parte, egli riesce a dare alla sua opera una vita autonoma. Se nelle Tragedie della fede e nel Teatro della rivoluzione la materia esce ancora tutta inviluppata dalle mani dell'autore, che rimane legato ancora dalle sue impressioni e se nelle Vite (la migliore è quella del Tolstoi) in cui pure una maggiore lontananza gli è consentita, l'aureola nasconde ancora troppo la persona, col Jean Christophe, il romanzo della sua idealità eroica e col Colas Breugnon, romanzo della sua idealità idillica, lo scrittore si trova nel proprio terreno. Tenterà, è vero, come è stato giustamente osservato, l'immaginazione a contraffare la storia: ma, se ciò è inevitabile dato il carattere di quest'opera e se le persone non vivono di per sé perché costruite da quell'aspirazione, vive la aspirazione che ad esse conduce: e i costruiti episodi si riempiono di una vena lirica, di una poesia fatta di effusioni, in cui il poeta non canta i fanciulli, gli amanti, gli amici, ma l'infanzia, l'amore e l'amicizia.

     Come l'arte del Rolland è il canto di quella aspirazione, così il suo pensiero non ha realtà fuori di essa: la sua arte naufraga perché egli vuol farla vivere in un mondo più ampio, il suo pensiero si distrugge quando egli vuole fissare l'oggetto di quella aspirazione. Celebrare una vita armonica, libera da ogni preoccupazione trascendente, tutta piena di divinità, sarebbe il desiderio del Rolland.

     Come il suo eroe giunto al termine dei suoi erramenti, anch'egli vuole contemplare la vita con occhio per cui "lo scetticismo e la fede non sono meno necessari l'uno dell'altra; lo scetticismo che sgretola la fede di oggi e prepara il terreno alla fede di domani", come quello anche egli afferma che tutto si deve comprendere "e le forze che negano e le forze che affermano, amiche e nemiche". Ma questa armonia non gli è concessa: e le diverse formulazioni che egli dà alla sua fede, appaiono estranee alla profondità del suo animo.





     È stato ricordato nelle polemiche che suscitò l'atteggiamento del Rolland durante la guerra, un episodio del Jean Christophe, ma non ne sono state tratte le necessarie illazioni.

     Incombe sull'Europa una minaccia di guerra: Jean Christophe si prepara ad abbandonare il suo paese di elezione e sente il dovere di andare a combattere per la sua patria che gli è per tante ragioni straniera: Olivier invece rimane esitante e si ribella internamente contro la rude realtà. Quando la minaccia è svanita, i due amici si trovano l'uno di fronte all'altro. "Non sono dell'esercito della forza, sono dell'esercito dello spirito", dice Olivier, ma il suo amico gli risponde: "La verità è la vita. L'azione sola è viva anche quando uccide: la vita è una tragedia". Non ci troviamo di fronte a una pagina d'arte: abbiamo diritto di chiederci quale dei due protagonisti esprima il pensiero del Rolland.

     Ebbene, quelle due professioni di fede ci paiono due pezzi di eloquenza posti l'uno accanto all'altro, svolti ciascuno per se stesso: lo scrittore non sente bisogno di fare qualcosa di più che formulare due concezioni; esse rimangono astratte, non riescono a penetrare l'argomento particolare, determinato che tormenta i due amici e a dargli un significato: e all'antitesi non risolta non corrisponde, e questo è ancora più grave, l'angoscia dello scrittore.





     Così al dramma Les Loups, ispirato all'Affaire Dreyfus egli si era accontentato di porre l'una di fronte all'altra una generica concezione umanitaria e una generica concezione patriottica senza tentare di risolvere il contrasto col pensiero o di rappresentare il dubbio nell'arte. L'opera è fra le più brutte cose che il Rolland abbia mai scritte: ma questa constatazione non è meno significativa.

     Perché il Rolland non è l'uomo di una fede soda e sicura, né l'uomo del dubbio angoscioso. La sua aspirazione si appaga troppo presto di sé stessa, una certezza si fa troppo presto quando il dissidio non è ancora composto. Romain Rolland è molto più vicino a Colas Breugnon che a Jean Christophe: la figura del musicista tedesco egli l'ha composta con tratti di grandi del passato, a cui egli si è accostato con adorazione: quella dell'artefice borgognone l'ha vagheggiata nei silenzi del suo animo. Un tale temperamento non può essere un temperamento religioso.

     Alla generazione precedente alla sua il Rolland oppone la propria religiosità: anch'egli, come il suo eroe vuole essere chiamato "libre génie réligieux".





     Ma la religiosità è più presente in quella aspirazione non dolorosa non tragica, che nelle formulazioni che egli ne dà: l'originario razionalismo, appena temperato da vaghe effusioni panteistiche alla tedesca, le impedisce di mettere salde radici nell'anima di lui. Che significa la rivelazione che Jean Christophe ha di Dio (nel L'Adolescent), vero mostro di arte e di verità?

     Leggiamo più avanti del suo eroe che egli è troppo religioso per pensare molto a Dio. "Egli vive in Dio, non ha bisogno di credervi... Chi porta in sé il sole e la vita perché dovrebbe ricercarli al di fuori?": perché parole simili a queste e di cui queste sono un'eco ci commuovono profondamente nei Discorsi dello Schleiermacher, mentre da questo brano riceviamo una mediocre impressione? Le professioni di fede del Rolland non hanno mai quel calore, che dà una convinzione maturata cogli anni tra contraddizioni e lotte, ma rimangono sempre un poco astratte e troppo poco personali.

     Completamente estraneo alla grande tradizione mistica della Francia che attraverso i secoli ha corretto gli eccessi del suo intellettualismo, l'anima del Rolland può apparire arida quando esca dal suo piccolo mondo limitato. Ogni tentativo di uscirne nell'arte come nella vita pratica doveva perciò essere condannato all'insuccesso.





     Quando parliamo delle idee del Rolland sulla guerra, sentiamo di parlare un poco sul vuoto: di due raccolte di articoli, di un romanzo, di un racconto, di un dramma rimangono nella mente dei più poche parole, un motto, il titolo di un articolo scritto nel 1914: Au dessus de la mêlée. Possiamo accontentarci di ripetere quanto sfuggì allora dalla penna di uno dei suoi avversari, del resto tanto più piccoli di lui: "Si fa colpa a Rolland delle sue opinioni sulla guerra. Il suo torto è di non averne alcuna"? La questione è un poco più complicata. All'infuriare dei nazionalismi e degli imperialismi del periodo anteriore alla guerra il Rolland era rimasto estraneo: il suo compito rispetto ad essi egli se lo era fissato e lo aveva espresso in una lettera al Seippel (cit. Seippel R. R., Paris, 1913) "L'Europa diventa inabitabile. Da ogni parte si elevano voci furiose che gridano: noi abbiamo la verità. Nessuno l'ha fuori di noi. E per lo più essi non hanno altro da dire se non: "Noi, noi e di nuovo noi". Io temo che il mondo abbia bisogno di una rude lezione - un grande pericolo che faccia sentire a tutti il poco che essi contano nell'eternità o nel nulla" (1911).

     Romain Rolland non ha idee precise in politica: per il suo temperamento egli ne è completamente estraneo: il brano citato si riferisce più specificatamente all'Europa letteraria che all'Europa politica. Il compito che il Rolland in queste linee si tracciava e quello che egli seguí durante la guerra, non era un compito politico, ma un compito largamente umano, che toccava solo indirettamente la politica. Ricordare che il valore di una nazione è sempre in alcunché che la trascende, che ogni nazione non si può fare estranea alle altre senza uccidere sé stessa, ricordare la vita comune di questa Europa, unita non tanto dalla tradizione romana, cristiana, umanistica quanto da un avvenimento recente, ancora vivo, ancora operante, la grande rivoluzione religiosa del Romanticismo. E se questo compito poteva parere troppo strettamente culturale quando la guerra scoppiò, non era certo inutile nelle varie nazioni un uomo che facesse sentire ai propri connazionali il rispetto di fronte agli eventi, che li ammonisse che la guerra non esauriva in sé né il passato né l'avvenire; che ai retori i quali predicavano mischia bestiale, il combattimento ad occhi bendati, senza tregua, senza fine, opponesse la divisa: "Al di sopra della mischia", per ricordare che lo stesso combattimento esigeva il dovere di saper essere al di sopra di esso, per non venir meno alla comprensione della realtà e alla stessa possibilità di vivere e che non potevano essere se non piccole anime quelle che volevano chiudersi tutte nel momento fuggevole, quando pensatori e uomini di Stato, madri e soldati sapevano e dovevano, pur partecipando alla lotta, trovarsi al disopra della mischia. Opera schiettamente religiosa doveva essere questa: far sentire agli oppressi dalla tragicità della guerra, tragicità di una crisi, in cui tutti gli aspetti della vita acquistano caratteri di provvisorietà, in cui la legge della vita - vivere ad ogni costo - acquista una asprezza particolare, la presenza dei valori eterni sotto quella provvisorietà e il dovere di non dimenticarli. Ma come abbiamo visto mancava a Rolland questa preparazione religiosa. Il suo torto non è di aver voluto porsi al di sopra della mischia, ma di non esservi riuscito: non si trattava di giudicare coll'occhio di una Monna Berta - o di un San Martino la misura dei forti e la misura delle ragioni di ciascuna nazione, ma di riuscire a conquistare un punto di vista da cui quella provvisorietà fosse superata. Agli articoli della prima raccolta: "Au dessus de la mêlée" non vi è oggi chi non potrebbe sottoscrivere, anche perché quelle pagine che allora fecero tanto rumore sono del tutto vaghe e generiche: oggi faremmo solo riserve per quelle frasi, che permisero allora la pubblicazione, sull'innocenza e sulla giustizia della Francia.





     Vi è in questo libro ancora il senso di una incertezza di un disagio, che lo giustificano ai nostri occhi: ma nell'altro volume Les precurseurs quella incertezza è dileguata: troviamo il carattere del Rolland incapace di sospendere il suo giudizio, ignaro della contemplazione silenziosa e angosciosa di un evento. Non vogliamo accennare con queste parole alla adesione del Rolland al partito socialista, che si maturò negli anni in cui scriveva quelle pagine.

     Per chi aveva realmente creduto, come il Rolland, alla Francia personificazione della Giustizia, alla guerra del Diritto contro il Torto ecc., non vi poteva essere altra via di uscita. Vogliamo parlare di quel senso di grettezza che ci danno quelle pagine. Come può fermarci chi, mentre infuria la guerra, si interessa agli esperimenti di uno scienziato su delle tribù di formiche, prima nemiche, poi pacificate, e si domanda se dunque anche la guerra degli uomini non è una cosa innaturale? Che valore possiamo dare alle parole di chi rivolgendosi ai popoli assassinati, tratti in inganno dai governi, mai consultati, costretti alle guerre, obbligati a delitti che non hanno mai voluto (non si parla, come si vede, solo della guerra presente) scrive: "Avete finalmente toccato il fondo della sventura? No: io lo vedo nell'avvenire (i popoli si vendicheranno). Allora cadranno anch'essi nell'ingiustizia, e per eccesso di disgrazia saranno spogliati dell'aureola funebre del loro sacrificio"? Il socialismo e il rivoluzionarismo del Rolland restano del tutto esteriori; si confondono colla generica fede democratica, che egli ha nutrito tutta la vita.

     Ma il suo compito non era compito politico, ma piuttosto di coltura; come egli l'ha eseguito? Leggiamo l'articolo: "Per l'internazionale dello spirito" nella raccolta "I precursori" La guerra non solo ha distrutto l'Europa del secolo XIX, ma ha prodotto un annullamento di tutte le idealità passate che si sono rilevate insufficienti nel campo della politica come in quello della cultura. Già in una lettera al Gorki il Rolland aveva scritto: "Io confesso che sono un po' distolto dai grandi uomini dei passato: io li ammiro esteticamente, ma non so che fare della loro intolleranza e del loro fanatismo troppo frequenti..." e non per nulla egli aveva confessato di non essersi mai sentito tanto vicino al Voltaire come durante la guerra (cit. dal Jouve, R. R. vivant, Paris, 1920). Per opporsi al materialismo della cultura nazionalistica e affermare il valore eterno, umano di ogni manifestazione dello spirito egli è costretto a materializzare il suo ideale, predicando un umanesimo altrettanto materialista, in cui tutti i popoli si sommergono e con fatuità democratica, di cui è inutile anche fare una critica, vede un mondo rinnovato fin dalle fondamenta. E quali sono i segni di questo nuovo mondo, di questa nuova cultura?





     "Esprimerei specialmente il voto che si stabilisse nelle scuole primarie di tutti paesi di Europa l'insegnamento obbligatorio di una lingua internazionale. Ve ne sono alcune quasi perfette (Esperanto, Ido)... Questa lingua sarebbe non solo un aiuto pratico senza pari; ma un'introduzione alla conoscenza delle lingue nazionali e della loro stessa: perché farebbe sentir meglio di tutti gli insegnamenti, gli elementi comuni stelle lingue europee e l'unità dei loro pensiero".

     Basterebbe questo articolo per dimostrare il fallimento dell'opera che il Rolland si era proposto di compiere: non al disopra della mischia egli si è collocato, ma in disparte; non è stata la sua una affermazione eroica, mistica di una fede, che adornasse di un'aureola tragica la sua negazione e imponesse l'ammirazione anche a chi si trovava lontano da lui: dobbiamo sentire il rispetto che si deve a un' opera mancata, non la reverenza che si deve a un apostolo.

     Per un artista l'arte riesce sempre rivelatrice della profonda natura di un uomo. Dai giorni tragici dei primi mesi del 1918 si è ispirato il Rolland per scrivere un romanzo e un racconto: che cosa ne è uscito? Clarambault, l'eroe che dovrebbe rappresentare l'angoscia del Rolland di fronte la guerra appare ai nostri occhi come un povero uomo, privo di qualsiasi grandezza, cosicché anche la sua uccisione per opera di un fanatico ci sorprende, perché non avevamo trovato in lui la stoffa di un martire: il romanzo è completamente mancato. Pierre e Luce invece, i due protagonisti del racconto, dimenticano invece ben presto lo scopo polemico per cui erano stati originariamente pensati, per divenire due semplici adolescenti che si amano e non hanno altra preoccupazione che il loro amore e la loro giovinezza: la guerra si ritira sullo sfondo dell'idillio e acquista una necessità estetica perché si confonde col tumultuare della vita, che rapisce i due amanti come un giorno aveva rapito Giulietta e Romeo: la morte che li colpisce vicini nella Chiesa di S. Gervasio a Parigi crollata sotto i colpi tedeschi, ci appare piuttosto che morte straziante, la fine di un sogno, e il racconto Pierre e Luce può essere considerato come un bel capitolo di Jean Christophe.





     E il Rollandismo? Se la figura del Rolland ci ha imposto rispetto e ci ha indotti a trattare con una certa larghezza del suo stato d'animo, poche parole ci bastano pei seguaci suoi più o meno lontani. Si pensa: la predicazione del Rolland poteva essere dannosa durante la guerra, oggi è non solo utile ma necessaria per combattere i vari nazionalismi e ricostituire una comunità europea. Anche in questo punto occorre scostarsi un poco dall'opinione comune. La predicazione del Rolland era molto meno dannosa durante la guerra di quanto i retori infuriati credessero; per il suo carattere del tutto vago, poteva anzi essere utile per temperare certi fanatismi; oggi a tre anni della cessazione della lotta, l'andar ripetendo frasi, scritte in altre occasioni, frasi, che rappresentavano anche allora più che un pensiero critico un tentativo non riuscito, l'entusiasmarsi per i più vieti luoghi comuni dell'umanitarismo settecentesco, è certamente dannoso.

     Giornali rivoluzionari accolgono volentieri la collaborazione del Rolland: ma che aiuto può dare questi alla loro causa? Se la guerra è una crisi che va superata ad ogni costo per non perire, tutte le nazioni, tutti i partiti non possono indugiare in una compassione umanitaria mal definita, ma, accettato uno stato di fatto, lottare coraggiosamente ciascuno dal proprio punto di vista, per dare stabilità all'incerto, per vivere: ad ogni parte politica il rollandismo è perciò il simbolo stesso delle forze antipolitiche e non dispiacerà ai discepoli dell'europeo e romantico Rolland, se noi lo definiamo con una parola tedesca, con un termine di un grande filosofo, maestro dei romantici: Trägheit.

Mario Fubini.