I PRESUPPOSTI ECONOMICI DEL LIBERALISMO

     La pretesa di esaurire in un articolo un tema così vasto come quello del movimento liberale nel secolo XIX può sembrare rischiosa: nel caso più favorevole si corre il pericolo d'ischeletrire, in un quadro sinottico di dubbia utilità, una storia che tutti sanno. Non è certo il mio scopo deludere fino a tal segno la cortese attenzione dei lettori; e pertanto, in luogo di un'analisi incompleta e sommaria, io cercherò di presentare qualche tratto differenziale, qualche particolarità saliente, che giovi assai meglio a individuare la fisionomia di quel movimento politico.

     Di qui il mio proposito di limitare il mio esame ai presupposti economici del liberalismo, perché mi par di ravvisare in essi il principale impulso dell'evoluzione politica del secolo XIX.

     Ora è noto che la dottrina che si propone di spiegare i fatti della storia in generale, mediante cause economiche prende nome di materialismo storico; ebbene, sento il bisogno di affermare in via preliminare che io non sono fautore di questa dottrina, intesa come una fonte di formule valide per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Spiegare per esempio, come pur si è tentato, il Cristianesimo con simili formule è un'impresa disperata, incapace di dar buoni frutti.

     Falso come canone universale d'interpretazione, il materialismo storico è però l'indice prezioso di una età circoscritta, cioè proprio di quella età che lo ha espresso: Esso è nato infatti nel secolo XIX, e rappresenta quasi la liberazione scientifica o la astrazione dottrinale delle esperienze storiche più cospicue di quel secolo, che ha visto svolgersi profonde trasformazioni agricole, industriali, commerciali. Non è quindi in omaggio ad astratti criteri storiografici, ma piuttosto ad un'adeguata comprensione dei nessi tra i fatti e le teorie, che io mi propongo di tracciare, nelle linee fondamentali, la genesi economica del liberalismo europeo.

     Le idee comunemente accolte intorno a questo movimento politico hanno il vizio di essere di solito troppo generiche: sia che vengano espresse con amplificazioni del concetto astratto di libertà, sia che vengano identificate col patrimonio patriottico del nostro Risorgimento, sono in ogni caso ben lontane dal significare quel che il liberalismo ha rappresentato nella storia economica, sociale, politica del secolo XIX. Anzi, per noi italiani, l'innesto verificatosi durante il Risorgimento, di due correnti ideali diverse nel loro motivo originario, benché connesse nella loro azione: voglio dire quella liberale e quella unitaria, è d'impedimento a una esatta valutazione dell'una e dell'altra.

     Gioverà quindi isolarle, anche per meglio intendere la realtà del loro concorso; e cioè esaminare partitamente quel che il liberalismo è stato per forze proprie, nei paesi in cui non si son date implicazioni d'interessi nazionali e unitari; e quel che è divenuto in Italia, per effetto di questa duplicità d'impulsi, e di altre deviazioni, che esamineremo, inerenti a particolari condizioni economico-sociali.





     Sotto il primo aspetto, la sede classica del liberismo è l'Inghilterra, il paese cioè in cui quel movimento ha trovato un assetto nazionale compiuto, e dove il risveglio industriale è stato più intenso e tempestivo. Il liberalismo del secolo XIX - per tacere delle più lontane derivazioni dalla Riforma protestante - è figlio del grande moto industriale, che tien dietro alle numerose invenzioni e applicazioni della scienza, e della tecnica. È qui la sua fondamentale ragione economica, anzi lo spirito di tutta la sua struttura storica, poiché dai centri e dagl'interessi industriali si sviluppa quella sua forma mentis anti-statale, individualistica, liberistica, che si è poi costantemente espressa nelle sue classiche manifestazioni.

     Esaminiamo brevemente come ciò sia accaduto. Prima che l'industrialismo divenisse il fattore preponderante dell'economia e della politica mondiale, le forze principali della società e dei governi risiedevano nel regime agricolo. Detentori effettivi del potere erano i grandi proprietari del suolo, i quali svolgevano, in conformità dei loro interessi, una politica conservatrice e protezionistica. L'assolutismo regio aveva sì limitato molte prerogative dei grandi proprietari, ma non potendo arbitrariamente spostare il centro degl'interessi nazionali, aveva dovunque finito col saldare a quell'economia la propria finanza, in modo che tutto il sistema economico veniva a gravitare intorno all'agricoltura, mentre le industrie e i commerci non formavano che semplici satelliti. Basti qui ricordare che uno dei massimi problemi di quel tempo era costituito dal commercio dei grani, e che la voce dei proprietari agricoli si faceva valere nelle misure restrittive della libertà di circolazione di quei prodotti, temperate soltanto dagli imperativi della salus publica.

     Contro questo latifondismo semi-feudale insorgono di buon'ora le industrie nascenti. L'accento spiccatamente antistatale dei nuovi ceti manifatturieri deriva da tutto un complesso di concorrenti fattori. C'è in primo luogo lo sforzo delle nuove aristocrazie del lavoro per scalzare gli ormai invecchiati detentori del potere; c'è poi la necessità, vitale per lo sviluppo delle industrie, di approvvigionare a buon mercato una sempre più densa popolazione operaia e cittadina non produttrice dei suoi alimenti: quindi si tratta di spezzare il protezionismo statale che eleva, nell'interesse dei proprietari, il prezzo dei generi agricoli.

     C'è infine una insofferenza insita naturalmente nei ceti industriali contro tutto ciò che è esterna coazione, ingerenza governativa, controllo burocratico. Alle industrie nascenti in condizioni propizie di materiale e di lavoro, è essenziale un regime di libertà, capace di dare un facile ed articolato gioco all'opera della concorrenza, alla selezione delle iniziative, alle capacità individuali.

     E si badi che io mi riferisco qui ad una fase iniziale dell'industrialismo, quando da una parte, le esigenze intrinseche della produzione non hanno imposto ancora un largo lavoro di coordinamento delle varie imprese e di accentramento capitalistico; e dall'altra, le forze proletarie non sono o sono scarsamente organizzate, di modo che il loro lavoro è corvéable à merci. In queste condizioni, il classico liberismo economico riesce al doppio risultato di migliorare tecnicamente la produzione e di ridurre il costo al minimo, nell'interesse dei consumatori.





     Da questo complesso di fattori che ho sommariamente indicato, s'individua la particolare forma mentale del liberalismo: individualista, magari anarcoide in rapporto ai vecchi poteri costituiti; fiduciosa nell'opera dell'iniziativa, del laissez faire, della concorrenza; intollerante di ogni vincolo protezionista; rispettosa dei beni dei contribuenti. Essa naturalmente si arricchisce di elementi attinti alla rivoluzione francese, rivendicatrice dei diritti dell'individuo; del contributo delle scienze e delle arti liberali largamente coltivate dai nuovi ceti già ricchi ed agiati; e, forte del conquistato potere economico, essa tende alla conquista del potere politico, impostando la lotta secondo quelle ben note forme costituzionali e statutarie, che son tanta parte della storia politica europea durante il secolo XIX.

     Il liberalismo finisce col trionfare; dove più, dove meno rapidamente e compiutamente; dove per forze autonome, dove per contraccolpi esterni o per concorso d'impulsi specificamente nazionali e unitari. Ma il suo trionfo segna in pari tempo la data del suo decadimento. Anche qui, per un complesso molto ricco di ragioni e di occasioni. Bisogna innanzi tutto considerare che l'esercizio del potere ha naturalmente un'efficacia conservatrice e magari reazionaria. I liberali dell'ieri, una volta padroni dello Stato erano per necessità portati a gettar molta acqua sui loro bollori antistatali; e quel certo fervore anarcoide, che stava così bene sui banchi dell'opposizione, doveva cedere, almeno in gran parte, alle fatali esigenze dell'amministrazione e della burocrazia.

     Si aggiungano i compromessi, anche quelli inevitabili per chi detiene il potere, con le altre forze economico-politiche tuttora influenti: in particolar modo coi proprietari della terra, dominatori dell'ieri, che, se pure scalzati dal primo posto, conservavano un'importanza tutt'altro che trascurabile. Anzi, l'accrescimento sempre più intenso della popolazione industriale, l'esorbitante urbanesimo, ponevano in certo modo i ceti industriali alla mercé dei detentori della terra: donde la necessità, per quelli, di largheggiare in concessioni, di convertire gli antichi nemici in nuovi alleati. L'azione sul liberalismo di questo concorso di un ceto di proprietari, per sua natura conservatore, fu assai grave; specialmente in quei paesi, come l'Inghilterra e più tardi la Germania, in cui il movimento industriale fu più intenso, e, attraendo a sé tutte le forze vive dei paese, lasciò l'economia agricola nell'arretrato stadio del latifondismo semi-feudale. Si verificò così in questi paesi una giustapposizione di stratificazioni storiche diverse; i nuovissimi ceti industriali divisero il potere col vecchio Landlordismo, e con il Junkerismo, sua propaggine. Il miscuglio prese, com'era naturale, la tinta più forte: fu conservatore, imperialista, militarista.

     Com'era possibile una tale alleanza? Senza una trasformazione radicale, insita allo sviluppo stesso delle industrie, sarebbe stata impossibile una fusione di elementi tanto eterogenei. Doveva esserci, e in effetti ci fu, qualcosa che dall'interno intaccasse i centri vitali del liberalismo, per determinare nei suoi fautori la dedizione a un programma conservatore.





     Ora, come ho già detto, il centro vivo della mentalità politica liberale era nelle industrie, anzi in quella forma incipiente della produzione industriale, in cui le nuove forze si esplicavano con una pluralità non coordinata d'impulsi, con azioni isolate, non ancora soggette alla doppia forza centripeta del capitale e del lavoro. Ma, nella seconda metà dei secolo XIX, questo primo stadio fu quasi dovunque sorpassato, per un'azione concorrente dei due massimi fattori in gioco.

     Da una parte, infatti, la piccola industria frammentaria, isolata, chiusa nell'azienda quasi familiare, divenne inadeguata al progresso della tecnica e allo sviluppo del capitalismo. Si determinò quindi la necessità di coordinare, di organizzare, di accentrare; si crearono i grandi trusts, nei quali le ragioni autonome delle singole aziende furono sacrificate. L'industrialismo si fece monopolista, si appoggiò sempre più al sostegno dello Stato per far leva all'esterno, sconfessando così la precedente politica liberista. Non più concorrenza, ma lotte di accaparramento dei mercati, di predominio commerciale; non più selezione naturale, ma assorbimento, nei trusts, degli organismi poco vitali, ormai necessarie pedine nel gioco monopolistico; non più individualismo, ma sforzo collettivo, anonimo, e, per così dire, socialismo dell'alta industria e dell'alta finanza.

     Per vie opposte, intanto, a una forma analoga di organicismo mirava il movimento proletario. Nel regime della libertà industriale, l'operaio era sacrificato. La circolazione senza controlli, senza limiti, senza garanzie, del lavoro, tendeva a ridurre i salari al minimo indispensabile alla vita materiale; la merce-uomo entrava nell'ingranaggio della produzione con la più completa passività, con la totale dedizione di ogni autonomia e dignità umana.

     Ma, a misura che le industrie si organizzano ed accentrano in zone ristrette grandi masse operaie, anche queste, dal loro canto, trovano l'opportunità di coalizzarsi. Il movimento socialista s'intensifica per la doppia spinta del basso e dell'alto; ed a sua volta reagisce sui trusts padronali, imponendo condizioni, garanzie, limiti. Nasce, ed in pochi anni si sviluppa largamente una legislazione sociale che attribuisce allo Stato un'ingerenza senza precedenti sulle forze produttive del paese. Attraverso la lotta di classe, il socialismo in fondo non fa che accelerare quel moto che era già insito alla tecnica industriale e finanziaria verso la dilatazione dell'azienda, verso il regime impersonale, collettivo, anonimo della produzione.

     Entriamo così nella fase storica nota col nome di socialismo di Stato. Da quel che ho detto, risulta che sarebbe fallace considerarla come risultato del solo impulso delle forze proletarie; essa deriva egualmente da questo e dall'opposto impulso delle organizzazioni padronali, moventi alla conquista dello Stato. La lotta dei due fattori in gioco non ha per effetto una reciproca elisione, anzi raccoglie le forze dei contendenti nel centro della comune inserzione: lo Stato. Questo, giovandosi della doppia spinta, dall'alto e dal basso, estende progressivamente il suo raggio di azione: promuove volta a volta una legislazione sociale che tiene in iscacco gl'imprenditori e un protezionismo che alimenta i trusts industriali ; inoltre assume nell'interesse, ora dell'uno ora dell'altro avversario, la gestione diretta o il più largo controllo o il finanziamento di un numero sempre crescente di imprese; e riesce generalmente a una forma magari ibrida di compromesso tra le forze in lizza a cui a torto si è dato l'epiteto spregiativo di plutocrazia demagogica. Si tratta non di degenerazioni od arbitrii individuali, ma di necessità prammatiche. È lecito magari dolersene e scandalizzarsene, ma ciò non toglie che siano momenti non eliminabili dell'evoluzione economica.





     Collocandoci su questo terreno realistico non possiamo disconoscere che il liberalismo sia stato messo in soffitta dal socialismo di Stato, che ha assottigliato poco per volta tutte le classiche libertà; ha sostituito quasi dovunque all'attività individuale e rapsodica una burocrazia accentratrice (non solo negli uffici pubblici ma nelle stesse aziende private); ha suscitato insieme, anche contro la politica estera del liberalismo fondata sull'autonomia dei popoli, le forze antitetiche del nazionalismo e dell'internazionalismo.

     Gli storici partiti liberali si son trovati nella necessità, pur di non perdere qualunque base d'interessi, di convertirsi a un conservatorismo sempre più accentuato, la nuova organizzazione industriale, nata infatti con scopo di conquista e di espansione, aveva bisogno di uno Stato forte, militarmente agguerrito verso l'esterno; e capace, all'interno, di tenere in soggezione i cittadini. Tramonta, quindi, la vecchia politica tanto scrupolosa della libertà degl'individui, tanto rispettosa (magari per ipocrisia!) degl'interessi dei contribuenti; le ragioni degl'individui sono sommerse nel gorgo anonimo della collettività.

     Il liberalismo minaccia dunque di estinguersi? di essere travolto dalla doppia azione plutocratica e democratica, che tende a modellare la società secondo un diverso ideale di vita collettiva? Prima di rispondere a questa domanda, che oggi si fanno con perplessità quanti hanno tuttora viva coscienza dell'individualismo liberale, desidero accennare brevemente alcuni tratti differenziali del liberalismo italiano. Io ho tracciato fin qui la nuda linea parabolica del movimento liberale europeo, escludendo di proposito tutte quelle complicazioni secondarie che hanno, nei diversi paesi, diversamente sviluppato quella linea. Ora, in Italia; l'impulso dei fattori economici del liberalismo è stato più fioco e in .un certo senso deviato; ma d'altra parte, a compensare questa deficienza, si è determinato il concorso propizio della grande passione patriottica del nostro risorgimento.

     Il risveglio industriale in Italia è stato tardivo, in confronto di molti altri paesi: la deficienza delle materie prime, la scarsezza degli sbocchi commerciali, la servitù politica fatalmente causa di servitù economica, ci hanno posto, inizialmente, in condizioni d'inferiorità verso i popoli meglio agguerriti. È avvenuto così che un grande movimento industriale si sia potuto verificare tra noi soltanto quando esso era altrove già molto progredito; e che, per sanare l'originaria deficienza, esso abbia dovuto compiersi col concorso o almeno con la protezione dello Stato. In questo modo, è venuto ad attenuarsi quel forte accento individualistico ed autonomistico che, in Inghilterra per esempio, era dato da un atteggiamento del tutto spontaneo delle nuove élites borghesi.





     Io non dico proprio che sia mancato un liberalismo a base industriale; ma nell'economia generale delle forze in prevalenza agricola di tutta la nazione, esso non ha potuto dare una fîsionomia decisamente sua all'insieme.

     Invece, nel maggior numero delle regioni italiane, il reclutamento liberale è stato fatto nel ceto dei proprietari della terra.

     Quest'affermazione può colpire a prima vista come una stranezza, perché giustamente si pensa che, se v'è un ceto essenzialmente conservatore è proprio quello dei proprietari. Ma l'apparente stranezza scompare se ci trasferiamo col pensiero ai primi decenni dell'ottocento; se ricordiamo come tra i tanti mali dell'invasione francese nell'età napoleonica, venisse a noi il gran bene dell'eversione degli ultimi residui tenaci del regime feudale.

     È noto che uno dei più grandi risultati della rivoluzione francese, anzi il maggiore di tutti, sia stato la trasformazione dell'economia rurale. Con l'espropriare i beni dei nobili, degli emigrati, degli ecclesiastici, e col venderli ai contadini, i capi della rivoluzione ottenevano l'immenso vantaggio di cointeressare al nuovo ordine un grande numero di cittadini e di accelerare quella selezione del terzo stato che, già iniziatasi sotto l'assolutismo, doveva essere il più saldo presidio di un regime di libertà.

     E la propaganda rivoluzionaria, sconfinando ben presto fuori della Francia, fece specialmente presa presso quelle nazioni che avevano una economia a base agricola, come l'Italia, la Germania del sud, i paesi renani, mentre trovò ostacoli insormontabili in Inghilterra, non tanto per cautele di governo o per la posizione insulare, quanto perché l'avviamento decisamente industriale di quel paese aveva lasciato quasi in abbandono la terra e tolto ogni presa a una rivoluzione agricola, cointeressante una grande massa di popolazione agl'"immortali principii" francesi. Le due forme tipiche di liberalismo si delineano così fin dal principio.

     Ordunque in Italia con l'abolizione della feudalità, col frazionarsi della terra, conseguenza della sua libera disponibilità, con la sua più intensa valorizzazione agricola, commerciale, industriale - anch'essa dipendente dallo stesso fatto - venne a crearsi. un nuovo ceto di proprietari, un'agiata borghesia operosa ed aperta alle idee nuove, che formò poi il grosso dell'esercito liberale. È questa borghesia infatti che, svegliata a un'alta coscienza di sé al contatto delle idealità francesi, mirò di buon'ora alla conquista del potere politico; e dopo molti, vani tentativi di compromessi coi governi locali per raggiungere pacificamente l'intento, si lasciò trascinare, pur riluttante, nelle vie della rivoluzione.





     Questo dunque differenzia in primo luogo il liberalismo nostrano da quello inglese: ché l'economia industriale e l'economia agricola esercitano, presso l'uno e presso l'altro, una diversa e quasi un'opposta azione. Mentre in Inghilterra le forze liberali s'irradiano dei maggiori centri manifatturieri; e la stessa rapidità dell' evoluzione industriale lascia intatto il vecchio latifondismo; da noi invece la prevalenza almeno iniziale degl'interessi agricoli nella generale economia del paese determina di buon'ora una profonda trasformazione dei sistema fondiario, creatrice di un ceto borghese di piccoli e medi proprietari.

     Ma il liberalismo di questo ceto non può essere che del tutto peculiare, incomparabile con quello dei ceti industriali. V'è senza dubbio nel proprietario un notevole spirito individualistico, un'insofferenza di esterne limitazioni ai suoi diritti, una ripugnanza verso ogni associazione corporativa.

     Accresce questo individualismo il naturale decentramento della distribuzione demografica; ne accentua il carattere liberale la cultura, l'esercizio delle arti così dette liberali, largamente coltivate in un ceto medio e agiato. Si aggiunga ancora l'efficacia che, sulla mentalità del proprietario, esercitano il legalismo e il costituzionalismo: cioè il possesso di garanzie statutarie dei propri diritti, di fronte ad ogni arbitrio governativo. E, da tutto questo complesso di elementi, ci si spiegherà la larga conversione di questo ceto alle idealità liberali, anche straniere.

     Ma il proprietario è liberale fino a un certo punto: egli ama il potere, purché la conquista di esso non gli costi troppo; non gli minacci, per esempio, quella relativa sicurezza economica, che anche un governo assolutista non rifiuta di accordargli. Inoltre, egli è attaccato all'idea dell'ordine, ama la tranquillità come chi ha molto al sole; in ultima istanza, sente di avere il suo massimo presidio nello stato e per nulla si arrischierà d'intaccarne la salda compagine.

     Ecco altrettanti contrappesi conservatori al liberalismo dei proprietari, di quel ceto che sul principio dell'ottocento vediamo agitarsi per ottenere, dal riluttante assolutismo della restaurazione, carte e costituzioni politiche, e dare le più numerose reclute alle società segrete.

     Orbene, l'ambiguità di natura che ho segnalato, l'oscillazione continua tra le opposte tendenze liberali e conservatrici, si riflettono sui moti economico-politici del nostro Risorgimento e danno ad essi una particolare fisionomia. Ciò che è sembrato alle storie patriottiche e romantiche relative a quel periodo una generale tiepidezza ed indifferenza dei ceti medi - in pieno contrasto con l'ardore e l'eroismo di pochi individui - di fronte ai grandi problemi nazionali, si palesa invece a una considerazione più approfondita come un penoso contrasto d'impulsi e di fini.





     lo ho avuto occasione di studiare in particolar modo (1) i moti rivoluzionari nelle province meridionali, in regioni cioè eminentemente agricole, dove 1'aspetto che ho posto in rilievo del liberalismo nostrano si presenta come più tipico. Prendiamo la rivoluzione del 1848; quella in cui si accentra in un sol fòco lo sparso insurrezionismo del trentennio precedente; guardiamola fuori di ogni complicazione neo-guelfa e federalista, nella sua elementare linea economica. Troviamo all'inizio forti nuclei di proprietari nella capitale e nelle province, che, inscenando una sommossa popolare, chiedono ed ottengono, dalla monarchia impaurita, una costituzione. Con la rapida conquista del potere, con la creazione di una guardia nazionale, presidìo delle nuove libertà, essi credono di aver risoluto il problema interno e di poter preparare la guerra esterna, contro l'Austria.

     Invece, essi non hanno fatto che suscitare un incendio, che minaccia di bruciarli per primi. Perché, una volta conquistate alla rivoluzione le masse, queste tentano di realizzare fini propri, in contraddizione con quelli dei proprietari agitatori. Nelle campagne in particolar modo, dove c'è una ragione permanente di disordine sociale, costituita dalla presenza di un vasto proletariato agricolo aspirante al possesso della terra, la parola costituzione viene intesa nel significato più aperto al popolo, come appropriazione delle terre dei signori. Ed ecco, dunque, che la rivoluzione preparata da quest'ultimi nel proprio interesse, tende invece a comprometterli irrimediabilmente. Le manifestazioni popolari assumono fin d'allora.una insegna comunistica, che viene anche fugacemente agitata nelle città, per opera di un ristretto artigianato locale. Quivi però per la mancanza di una larga organizzazione industriale, tali agitazioni sono di secondaria importanza; ben altrimenti pericolose quelle delle campagne, che si prolungano per vari mesi, dopo che l'insurrezione é stata domata nella capitale.

     Risulta di qui la precaria situazione dei liberali, i quali finiscono col trovarsi stretti tra due fuochi: tra l'assolutismo da una parte, che, dopo il primo sgomento riordina le sue file e ricomincia ad attrarre un sempre maggior numero di proprietari, ai quali può garantire almeno i propri diritti sulla terra, compromessi dalla rivoluzione; e tra la rivolta proletaria dall'altro lato, che con l'espropriazione della terra travolse le promesse originarie del movimento liberale. Ecco la causa delle molte defezioni, che scompaginano in breve tempo i quadri del liberalismo; ecco il perché di quelle rapide conversioni di fronte, per cui la guardia nazionale, che doveva essere presidio di libertà, si pone invece all'avanguardia della reazione in molte province, nel tentativo di arginare la marea proletaria. Persino i capi del partito liberale appaiono nel primo momento disorientati: la percezione degl'interessi li attrae verso i conservatori; quello di generose idealità verso la rivoluzione, che però minaccia gl'interessi del loro ceto. Per questo riguardo, è molto significativa una breve lettera scritta da Carlo Poerio al fratello Alessandro, proprio il 15 maggio, nel giorno più funesto alla libertà napoletana: ebbene, in essa veniva formulato il voto che il governo riuscisse a dominare la sommossa, - quella sommossa che doveva passare alla storia come la più eroica ed infelice pagina dei liberalismo napoletano!





     Ma bisogna nel tempo stesso riconoscere, che passata la prima ora di disorientamento, almeno i leaders della rivoluzione seppero ritrovare il loro posto, e, consci che l'unica via di salvezza contro l'ormai trionfante assolutismo fosse nella rivolta popolare delle campagne, seppero sacrificare gl'interessi padronali propri e del proprio ceto, ponendosi a capo di quel movimento, senza ripudiarne le estreme conseguenze, che pure dovevano ad essi apparire come una degenerazione dell'iniziale impulso rivoluzionario. E forse qui la massima elevazione del liberalismo di Carlo Poerio, di Silvio Spaventa e dei loro migliori compagni.

     Ma nell'economia generale di un grande movimento storico, l'eroismo eccezionale di pochi individui brilla solitario e nel contrasto non fa che accentuare il distacco della massa. E questa ci rileva nel suo insieme un instabile equilibrio tra opposti interessi liberali e conservatori, con prevalenza finale degli ultimi e quindi col finale ripudio di ogni velleità rivoluzionaria.

     Il carattere agrario del liberalismo nostrano si riflette così nell'inconsistenza delle sue maggiori manifestazioni, e infine nella forza invincibile dei suoi interessi conservatori. Non per nulla Gladstone, meravigliandosi che i capi del nostro liberalismo fossero perseguitati dai governi locali, affermava che in Inghilterra essi avrebbero potuto sedere nella Camera dei Lordi.

     E, data questa sua struttura, il liberalismo italiano non avrebbe forse trionfato, per forze proprie, della resistenza dei reazionari, senza il provvidenziale soccorso della grande passione nazionale, che ne vinse le riluttanze, lo arrestò nei ripiegamenti, gli ritemprò le forze per nuovi slanci in avanti. In presenza del grande problema dell'indipendenza dallo straniero, dell'unificazione nazionale, il movimento liberale assunse una compattezza, un rilievo, che per sé non aveva: l'insegna della libertà divenne concreta, tangibile, quando si trattò di cacciar via dalle nostre terre l'Austria e i suoi clienti; ed anche il languido costituzionalismo si ravvivò quando apparve esso pure simbolo e segnacolo di lotta, e insieme, mezzo di generale livellamento della vita pubblica di tutte le regioni di Italia, in servizio dell'opera di unificazione.

     Questa grande passione nazionale è apparsa, ed è realmente stata, la forza centrale del Risorgimento, la sua principale corrente animatrice; a tal segno, che essa ha del tutto ecclissato la fisionomia strettamente economica del liberalismo. Ed era naturale che così avvenisse, almeno fino a che l'unificazione fu il problema predominante, e alle idealità liberali non mancò, con esso, un abbondante combustibile. Ma è anche naturale che, compiutasi l'unificazione, ciò che prima era secondario venisse in prima linea. Infatti le ragioni patriottiche, unitarie, del liberalismo si esaurirono gradualmente nell'Italia indipendente ed unita; e proprio allora che avrebbero dovuto esser messe in rilievo le riserve specificamente e tecnicamente liberali, risultò che esse erano assai scarse e compromesse.





     Le forze di governo dell'Italia unificata si rivelarono fin dall'inizio nettamente conservatrici, non soltanto nel significato generico che esse attesero a consolidare e conservare i risultati della precedente rivoluzione, ma anche nel senso più specifico, che esse furono l'espressione di un ceto conservatore, il quale fece degli ordinamenti costituzionali e liberali un appannaggio del censo e della proprietà.

     La Destra instaurò un governo oligarchico, burocratico, accentratore; fu intollerante in materia religiosa; fece della libertà un attributo aristocratico di un ristretto ceto. E quella che fu chiamata la filosofia politica della Destra, la dottrina di Bertrando Spaventa e dei suoi scolari, col dedurre l'autorità dalla libertà (celando troppo presto alla vista dei profani l'alma parens), col concentrare nello Stato tutta la forza spirituale ed etica della nazione; tale dottrina venne in buon punto incontro a quella politica di audaci e consapevoli minoranze. Con ciò non s'intende svalutare l'opera della Destra; essa fu appropriata ai tempi e ai luoghi, e fu pertanto benemerita della patria. Ma, in rapporto al liberalismo, essa rappresentò la prima e radicale negazione. La maggior fortuna del partito liberale - in quanto liberale - per la lentezza stessa con cui si compí il processo di unificazione; per cui vi fu sempre un margine di azione nel suo programma. Anzi, per tal riguardo, quel partito ha avuto la sua ragione storica fino alla guerra mondiale, che ha segnato per noi l'ultimo episodio dell'unità. Ma il classico contenuto economico del liberalismo è stato poco per volta riassorbito; e il sopravveniente socialismo di Stato ha trovato tra noi un terreno già pronto ed ha potuto affermarsi facilmente, trovando più scarsi ostacoli che altrove e già sopite forze di resistenza. La sorte del partito liberale italiano appare negli ultimi decenni, anticipata nel breve episodio, che ho esposto, della rivoluzione del '48: esso s'è trovato stretto da una parte tra le forze conservatrici e reazionarie (diversamente ma non meno delle antiche) e dall'altra le forze popolari straripanti. Le une e le altre hanno largamente attinto alle sue riserve; e non è senza ragione che esso abbia subito la più grave falcidia all'indomani della guerra, quando tutti i voti storici dell'unificazione si erano adempiuti.

     Ma è tempo ormai che io mi affretti alla conclusione e raccolga le sparse fila del mio discorso. Ho formulato poco fa una domanda, ed ora la rinnovo: il liberalismo è dunque tramontato? Le sue idealità non possono più incarnarsi nella vita dei popoli? Quel ch'è ben certo, è che una fase storica dei liberalismo sia tramontata; che sia vana la pretesa, accampata da molti, di riaddurre le cose in pristino, di restaurare il classico liberalismo. La storia non si ripete; se le esigenze stesse dell'economia mondiale hanno travolto le vecchie forme individualistiche, dovunque sostituendo più complesse, organiche, e diciamo pure, più appesantite forme di vita sociale e politica, è vana ogni pretesa, magari generosa, di singoli individui, di disfare quel che la storia ha fatto.





     Eppure la fiamma della libertà è tuttora viva! Io non dirò, con un acuto scrittore contemporaneo, che essa sta stata trasmessa da altri: no, per gli altri, quali che siano, la libertà non è che strumento provvisorio di lotta, mezzo per attuare altri fini, in cui non c'è più nulla di liberale.

     Io dico che la fiamma della libertà è viva proprio nei nostri cuori, nell'atto stesso in cui riconosciamo il tramonto di una fase storica della libertà. Noi sentiamo che vi son valori della personalità umana che non si cancellano, che non possono e non debbono sommergersi nella morta gora dell'anonimo, dell'impersonale, del collettivo. Sentiamo sempre con maggiore intolleranza il peso di un'irregimentazione troppo soffocante, di una schiavitù sociale che incombe dall'alto e dal basso; sentiamo l'ancor torbida gestazione di forze nuove che tendono a crearsi lo sbocco in un individualismo superiore.

     Ma sarebbe prematuro parlare di rinascita liberale prima che sia esaurito il grande movimento tuttora in corso, ispirato a un opposto principio di vita sociale, un liberalismo che aspiri ad esser vitale non potrà disconoscere .e antistoricamente negare le ricche esperienze storiche del presente; ma dovrà essere la loro crisi interiore; così come l'odierno movimento socialista (nel senso più lato) rappresenta la crisi dell'antico mondo liberale.

     Noi che sentiamo ancor vivo lo spirito animatore dei liberalismo, se non vogliamo essere i tardi epigoni del passato o gl'impazienti scrutatori dell'avvenire, abbiamo il modesto ed assiduo compito di alimentarlo nelle coscienze; d'imprimerlo per quel ch'è possibile nelle esperienze del presente; di farne un principio attivo di controllo e di critica, in servigio dell'avvenire!

Guido De Ruggiero.







(1) Si veda il mio volume: II pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza, 1922.


    Questo studio del nostro De Ruggiero corrisponde perfettamente al piano di revisione della nostra formazione politica che la Rivoluzione Liberale si propone. Il limpido esame del processo economico del liberalismo italiano ed europeo è degno di nota e coincide nelle sue conseguenze teoriche (benché scritto indipendentemente) con le conclusioni del nostro Manifesto.

     Non è per noi interamente accettabile la posizione pratica che il De Ruggiero ne deduce. Crediamo anche noi che il liberalismo debba alimentarsi in un gruppo di dirigenti. Ma poiché non crediamo alle forme più organiche dell'economia moderna, - poiché non ne vediamo altro che conseguenze negative - non riusciamo a pensare necessaria un'antitesi tra noi e la realtà che ci dovrebbe escludere dall'azione. Col nostro liberalismo coincidono le forze attuali rivoluzionarie e creative. Lo studio che qui appare: Crisi morale e crisi politica scritto prima di leggere quello del De Ruggiero, determina la nostra posizione pratica e l'attualità del nostro liberalismo nell'interpretazione della vita presente.

     Se il collaborazionismo dovrà continuare nei prossimi anni la funzione del vuoto indifferentismo, in cui l'idea liberale in Italia s'è corrotta, il rinascimento liberale si prepara (attraverso ogni sorta di astratti miti) per opera delle autonome forze popolari che credono di negarlo.