CRISI MORALE E CRISI POLITICA

     1. - Il libro di Adriano Tilgher (1), appunto perché incontestabilmente serio e maturato, offre occasione al critico sereno per segnalare una moda ormai dominante negli usi del dopo guerra che bisogna combattere con energia, anche se manifestamente effimera come tutte le mode. Il gusto per una letteratura sociale apocalittica e visionaria, minacciosa di divini fulmini, presaga di tragiche decadenze e di spaventosi tramonti ha sostituito, senza misura, l'esame spassionato dei problemi sociali, lo studio modesto e saggio degli elementi della storia politica contemporanea, l'indagine sorretta da cultura tecnica precisa e volta ad obbietti determinati. Le smanie di una dilettantesca politica estera che per quattro anni concesse ad ognuno i più fantastici sogni e i piani più assurdi, si traducono - esausta la fantasia - in stanche visioni sintetiche del più banale sociologismo. Le individuali preoccupazioni, le torbide crisi dei singoli si vengono fotografando in costruzioni obbiettive artificiosamente drammatiche. Nessuno più è disposto a studiare con saggezza i problemi singoli dell'azione e della cultura politica. Bisogna parlare in ogni luogo di una crisi mondiale, del crollo di un'epoca, della morte di una civiltà: risalire dal fatto singolo, dal sentimento solitario, alla descrizione di tutto l'orbe morale e sociale. L'epidemia (cui non è estraneo il diffondersi superficialissimo di una pseudo terminologia marxista) è irresistibile: noi stessi, avversari, ne diventiamo le vittime se invece di correre rapidi, come vorremmo, ai problemi di tecnica speciale, siamo indotti a salire parimenti in cattedra per opporci all'apocalissi.

     2. - Adriano Tilgher è scrittore efficace e serio pensatore. Il suo pessimismo ha forti spunti di profondità; individualmente è giustificabile in modo perfetto, è la sua forza perché lo fa pensoso della presente realtà, estraneo a tutte le gioie massicce e ai pesanti ottimismi dei cuori allegri e felici. Egli è lo storico più sicuro della presente crisi morale e culturale. Capace di risalire alle intime ragioni filosofiche della storia, perfettamente informato sulle ultime correnti di pensiero, acutissimo nel cogliere le relazioni tra i fenomeni letterari, politici, speculativi, nell'esaminarne la verace sostanza spirituale sotto le incertezze sentimentali e le sfumature più generiche ha saputo con le Voci del tempo e con La crisi mondiale preparare per i posteri una valutazione preventiva notevolissima della nostra cultura e dei nostri stati d'animo.

     Fallisce la sua critica quando in questa letteratura, necessariamente monografica e talora frammentaria, intervengono preoccupazioni costruttive, schemi troppo rigidi, pretese politiche. Il pessimismo non vale più. Diventa un peso morto, un ostacolo al realismo politico. I programmi che nascono da stati sentimentali come questo del Tilgher che s'è descritto, sono tutti viziati da un originario intellettualismo e dalla mancanza di un'esperienza diretta della praxis politica. Corrono tutti alla politica estera per liberarsi dai vincoli della realtà, non sanno scorgere troppo bene le connessioni tra storia mondiale e storia nazionale per amore dell'impreciso che pomposamente intitolano: visione generale.





     3. - Esiste una crisi della civiltà capitalistica che in qualche modo si possa pensare risolta e conclusa in un tramonto del capitalismo prossimo o imminente? Bisogna stare attenti e non confondere i termini obbiettivi della storia con quelli del demagogismo politico e, quando i termini, per molte ragioni, sono gli stessi, tener bene separati i due sensi. Il tramonto del capitalismo, previsto e predicato dal Marx, è un mito utilissimo, una delle più forti molle della storia moderna ma sarebbe ingenuo discuterne come di una verità scientifica o di un fatto serio. Invero la storia conosce processi, esigenze, risoluzioni di esigenze, ma ignora i subitanei tramonti, le aurore nate da un fiat.

     La civiltà capitalistica preparata dai Comuni, sorta decisamente in Inghilterra, affermatasi negli ultimi decenni, in forma più o meno progredita, in tutto il mondo civile è la civiltà del risparmio, delle intraprese che hanno bisogno per vivere di un capitale mobile. I paesi più arretrati nella civiltà capitalistica erano appunto negli anni scorsi quelli dei sistemi di attività e di produzione anacronistici: la Russia, incapace di liberarsi dal latifondo, l'Austria-Ungheria che teneva al potere la classe dei latifondisti ungheresi. L'Italia compensava l'anacronismo del Mezzogiorno sforzandosi di creare attraverso l'emigrazione, il commercio, e tentativi industriali addirittura imprudenti, una classe capitalistica.

     La logica a cui obbedisce questa civiltà è, come osserva il Tilgher, l'attività assoluta che ha fede soltanto in se medesima. L'impulso le viene dalla superpopolazione, la forza consiste nella crescente capacità produttiva e nelle inesauribili invenzioni tecniche, la direzione dello svolgimento è data dai bisogni sempre nuovi. Allo scoppiare della guerra europea questa civiltà era appena sul nascere. La borghesia che pare rappresentarla risale alla rivoluzione francese soltanto di nome: di fatto una vera borghesia in Italia, per esempio, sta appena nascendo, a fatica. La civiltà capitalistica del resto è al disopra delle classi, vuole l'opera di tutte le classi che vi partecipano e la creano concordi pur lottando tra sé inesorabili, ostili sino a giurarsi reciproca sopraffazione. La civiltà capitalistica è una realtà obbiettiva che non può morire per un peccato d'orgoglio: l'umiltà la abbasserebbe, l'orgoglio coincide con la sua legge di vita. La guerra europea ne è stata la crisi di esuberanza, non di tramonto, e il Tilgher stesso è costretto a confessarlo quando guarda all'operosità che si riprende nell'impero britannico e negli Stati Uniti. Non si dimentichi che appena in questi anni viene sorgendo un capitalismo russo e che in tutta Europa alla momentanea stasi dell'industria sta sostituendosi un'organizzazione capitalistica (cultura intensiva) della proprietà agraria.





     4. - Le difficoltà e le oscurità presenti sono una crisi momentanea che agevolmente superiamo pur tra incertezze e contraddizioni. E certo come tutte le crisi anche questa non è da considerarsi con leggerezza, ma vuole gli sforzi operosi dei popoli e l'acume politico dei governanti.

     Chi la studi con libertà, senza desiderio di sintesi frettolose, vi scorge forme ed aspetti che ne agevolano e chiariscono la comprensione. Importa inizialmente distinguere una crisi morale, una crisi economica, una crisi politica. La crisi morale è descritta con forza decisiva dal Tilgher e alla sua visione degli stati d'animo dell'Italia dopo la guerra (dal sensualismo allo scetticismo) poco resta da aggiungere se non forse una più precisa determinazione cronologica che limiti quei fatti nel loro valore di documenti di psicologia durante le aspettazioni messianiche dei primi mesi dopo la vittoria che condussero alle crisi del dannunzianismo e del fascismo. Oggi dalle preoccupazioni colte dal Tilgher siamo liberi, e i residui hanno altrove il loro centro ideale intorno a cui possono essere valutati.

     La crisi economica si viene superando più a stento, dopo lotte operose e feroci tra i vari elementi della produzione industriale, e proprio queste lotte hanno potuto suscitare in taluni l'illusione di pericoli mortali, il pensiero di un esaurimento definitivo. Ma l'intima natura della civiltà capitalistica è in questa ampiezza di lotta; sua diretta funzione è suscitare con fecondità ideale che non ha posa i miti e i programmi che la fraintendono e la negano e intanto trascinano per forza d'illusione anche le forze più riluttanti e ribelli a collaborarvi. A chi sogna palingenesi socialistiche il capitalismo moderno oppone insuperabili esigenze storiche e pratiche: gli operai, diventati coscienti di tutta la loro forza, attraverso le rivendicazioni di programmi inattuabili ma idealmente intransigenti e nobili, cozzandovi contro si fanno capaci di soddisfarle, e divengono degni prosecutori del compito assoluto che il capitalismo inesorabile pone a chi vuol guidare la storia moderna.





     Cosi la crisi economica attraverso una vigorosa dialettica diventa crisi politica: si chiariscono i termini e si esprimono in forze concrete che il politico concilia e svolge secondo la propria saggezza. Dall'incertezza sentimentale scaturiscono ormai valori determinati e fatti che entrano nella storia. Questo processo, non mai abbastanza meditato, insegna (anche a noi uomini di lotta) la necessaria serenità, che al di sopra di pessimismi e ottimismi è il solo atteggiamento realistico dello storico e del politico.

     5. - Ma al Tilgher la considerazione degli stati d'animo e la palingenetica conclusione suggeriscono invece esili costruzioni di politica generale e avventati piani di politica estera. Un odio indomabile per la mentalità anglosassone gli fa scorgere nell'Inghilterra la sola responsabile della guerra (mentre il suo realismo filosofico gli insegna agevolmente che non esistono responsabili di un fatto universale come la guerra europea) e negli Stati Uniti il degno complice del dopo guerra, legati tutti e due per gretto calcolo con l'imperialismo francese. Concetti manifestamente esclusivistici anche se contengono non poca verità. Contro codeste nazioni capitalistiche Tilgher invoca il blocco delle nazioni proletarie dell'Europa centrale e orientale (anche vi comprende il lontano Giappone!) e chiede l'esplicita adesione dell'Italia. In questa drammatica visione appena superficialmente interessante, il Tilgher dimentica le conclusioni catastrofiche e vi scorge per un momento, schematizzata la storia dei nuovi anni. Anzi una sua osservazione (pag. 102) sul valore finale della rivoluzione che dovrebbe dare una patria alle plebi che non l'avevano è davvero potente. Ma per riuscire valida doveva essere la sola idea o l'idea centrale del libro; non un solitario, dimenticato frammento di cui sembra che l'autore ignori il significato.

     L'Italia non può aderire al blocco delle nazioni proletarie, perché le nazioni proletarie non esistono e la politica si fa con ben altro realismo. L'Italia deve aderire, non politicamente, ma economicamente, senza pregiudiziali esclusioni all'Europa (e all'America) operosa dalla quale il suo sforzo a ricostruirsi, ad affermarsi, a salvarsi finanziariamente ed economicamente, può essere aiutato. La sua deve essere una politica di pace: benevola verso Germania e Russia come verso Inghilterra e Stati Uniti. Falliti i piani giuridici e i sogni giusnaturalistici del wilsonismo, l'Europa è oggi di fatto una Società delle Nazioni (o s'avvia ad esserlo, nonostante la Francia); una collaborazione per vincere la miseria; per superare quattro anni di lotta dolorosa e necessaria. Perciò la polemica del Tilgher contro l'intemperanza dei nazionalisti e le follie dell'estetismo politico e contro il pagano giovandarchismo è pregevole e, per noi, interamente accettabile. Tutto il libro poi ha il merito di far meditare sui rapporti tra storia internazionale e storia nazionale, sebbene le interpretazioni che se ne danno siano poi dal punto di vista nostro da respingersi, come s'è detto.





     La guerra coincise nel suo valore politico con profonde crisi di formazione nello spirito dei vari Stati. Crisi di Stati, più che di Nazioni: l'ideologia nazionale è inadeguata alla realtà moderna. Le lotte e le contraddizioni della vita nostra si fondano su due esigenze di opposta natura che contemporaneamente si affacciano e generano soluzioni antitetiche le quali potranno essere conciliate soltanto in una fase finale che sfugge alla visione dei pratici dell'ora. L'opera della civiltà moderna esige organi superiori in cui l'azione del singolo sia inquadrata e spontaneamente si organizzi: lo Stato moderno è diventato il termine essenziale della vita sociale. Ma dall'interno premono esigenze popolari, democratiche, che negano insieme le pretese del nazionalismo e le invadenze dello Stato burocratico e protezionista. Confusamente questi sentimenti nella loro ampiezza europea ebbero espressione nel mito della Società delle Nazioni e talvolta persino nelle aspettazioni bolsceviche.

     Nei singoli organismi (attraverso quante esperienze si vogliano di economia associata e di turatismo dilapidatore del pubblico erario) si prepara l'affermazione dello Stato etico come Stato liberale e il trionfo dell'iniziativa nell'unità. (Regime parlamentare reso possibile dall'autonomia e dal decentramento che vi si connettono necessariamente, come propone il Tilgher). Anche questa è una forma in cui s'esprime l'esigenza dell'operosa pace economica a cui l'Europa, non ancora votata al tramonto, anela.


PIERO GOBETTI.

(1) Adriano Tilgher: La crisi mondiale. Bologna, Zanichelli, 1921.