LA CRISI MINISTERIALE E LA COSTITUZIONE
Io non voglio qui entrare nella polemica che si è svolta in questi giorni sulla crisi ministeriale e sul suo andamento, né sentenziare sulla ragione o sul torto dei vari gruppi, sull'andare a destra o a sinistra. Certi argomenti sono bastoni da pollaio, non si toccano senza insudiciarsi. E neanche è il mio mestiere di far la morale ai deputati, altro solito modo di ragionare intorno ai medesimi soggetti. Ecco l'Italia, sulla fine del gennaio scorso, era governata da un Gabinetto mantenuto dall'unione di due partiti, il popolare e il democratico; quest'ultimo anzi, da poco costituito dopo laboriose fatiche, col giusto proposito, per sé e per gli altri salutare, di conseguire in contratti del genere, resi inevitabili dalla composizione politica della Camera, una personalità e dei diritti che non aveva mai avuto fino ad allora. Per figurarsi la possibilità di un cambiamento di Governo un osservatore spassionato avrebbe atteso la manifestazione di un formale disaccordo fra i due gruppi associati, l'esposizione da una parte e dall'altra dei rispettivi punti di vista, un dibattito che avesse denunziato i motivi della crisi indicandone insieme la coerente soluzione. Oppure, avrebbe cercato le rivelazioni concrete di un dissidio interno in uno dei partiti al potere; o la comparsa di un problema saliente di politica interna o estera, il cui scioglimento disordinando repentinamente la struttura e l'equilibrio dei gruppi, avesse reso inevitabile il cambiamento immediato dell'indirizzo politico. Nulla di tutto questo, lo sappiamo, in Italia, al momento in cui la crisi si è determinata. Anzi, rifacendo a rovescio il corso dei casi sopra esposti, in politica interna niente di nuovo; in politica estera, al contrario, dimostrata la opportunità della permanenza del Ministero; nel seno dei partiti la pace. Infine, quanto ai rapporti fra popolari e democratici, se discussioni sono sorte ciò è stato dopo la crisi e in conseguenza del suo svolgimento, non prima; e in ogni modo la fondamentale e sostanziale esigenza della reciproca intesa non è mai stata, né prima né dopo, negata. Anzi decisioni ufficiali di parte socialista, di poco precedenti all'inizio della crisi, avevano riconfermato necessità del detto connubio, escludendo l'unica soluzione diversa che apparisse praticamente possibile. Ciononostante abbiamo avuto la crisi ed è superfluo dir come. Le crisi ministeriali in Italia, e in generale nei paesi di governo parlamentare, rappresentano una specie di rissa fra individui e bande, rette, con rapide e casuali coalizioni, defezioni e vicendevoli ricatti, e la loro tipica manifestazione è questa che tutte le soluzioni, anche le più opposte e contradditorie, vi appaiono egualmente possibili. Così anche in quest'ultima abbiamo visto apparire e scomparire un Ministero di sinistra appoggiato ai socialisti, un blocco dei partiti costituzionali contro popolari e socialisti; un Ministero presieduto da un popolare e altre combinazioni. Il risultato è sempre quello, a cui suol riuscire una fazione tumultuosa: c'è un gruppo, a sorte, che vince provvisoriamente, e l'altro che s'acqueta con l'intento di ricominciare una zuffa alla prima occasione. Questa volta si è dato il caso che i contendenti hanno impattato la partita e il Re ha mandato il Gabinetto dimissionario a districare la questione in seduta della Camera. Ebbene in questa crisi, di nuovo (i casi analoghi sono abbastanza remoti) non c'è stato proprio che il gesto reale. In verità il sistema delle crisi extra-parlamentari è antico. E non è vero che dipenda dalla proporzionale, perché il fenomeno si è notato ben prima di questo cambiamento, non è vero che sia conseguenza della guerra, perché in realtà la situazione parlamentare attuale ha radici in una serie di situazioni analoghe precedenti; e la cosa stupefacente è al contrario che un fatto tragico e grande come la guerra nulla abbia mutato. Direi che l'inizio dell'esperimento coincide con la salita al potere della sinistra; ma voglio tralasciare, per il momento, questa indagine storica. La semplice speculazione della crisi attuale, in sé, è sufficiente a darci la fisionomia del fatto costituzionale di cui è rivelatrice. Si è detto contro Bonomi, quel che si è detto contro tanti altri: che il suo. governo era debole. Una definizione chiara, concreta e persuasiva del "governo forte" io non l'ho mai letta nei libri e nei giornali. Molti, materialisticamente, intendono un governo che usa le mitragliatrici, altri all'opposto fanno uscire questa forza da chi sa quali sortilegi. Ma un governo forte non è che un governo obbedito. E un popolo non può obbedire se prima non obbediscono i deputati, insomma se il Parlamento è fazioso. Questa è la situazione sotto l'aspetto psicologico. La manifestazione concreta è la assoluta instabilità, e impermanenza dei Gabinetti. Un Gabinetto che deve spendere la maggior parte della sua esistenza a difendersi dagli avversari o a conciliarseli, vive soltanto a patto di non comandare. Ubbidisce e non è ubbidito. Non è questa la condizione in cui hanno governato tutti i Gabinetti che si sono succeduti al potere in Italia per un lungo periodo di anni? Abbiamo, è vero, l'esempio di un governo abbastanza duraturo impersonato in Giolitti. Ma se si guarda un po' addentro la storia del periodo giolittiano, anche in questo quanti accidenti! Infine sembra che tutta l'abilità di quel gran demagogo sia stata spesa nell'assicurarsi questa permanenza al potere, più che nel far trionfare un determinato disegno politico. Questo sforzo denunzia la debolezza dell'organo. Insomma noi non abbiamo mai avuto un governo, come lo hanno avuto nei periodi corrisponderti, per esempio, l'Inghilterra e la Germania. Ora, che il lasso di vita assegnato ordinariamente dal nostro costume politico ai Gabinetti, sia già per sè insufficiente a consentire lo svolgimento di un'opera complessa e ordinata di legislazione e di amministrazione, mi par facile giudicare. E se la cosa poteva riuscire indifferente, o quasi, in tempi andati, quando il campo delle attività dello Stato era limitato, sempre più grave diventa col trascendere smisurato di quelle pubbliche funzioni. Ma se non governa il Gabinetto, governano gli uffici i quali non muoiono e non mutano. Il governo burocratico è la rigorosa conseguenza dei fenomeni parlamentari osservati. Questo è il fatto: e non è questione di andare a destra o a sinistra! Per ciò non è vero che lo Stato sia debole: è fortissimo e diventa sempre più forte (in tutto dipendiamo da lui, anche per star di casa); la verità è che certi poteri dello Stato sono straordinariamente indeboliti di fronte a certi altri. Primo problema: rinforzare il Gabinetto. Premetto che secondo le mie previsioni, per tutto quello che ho già osservato e per varie altre ragioni, il governo parlamentare è destinato a passare in una fase di decadenza. Quali altri organi costituzionali siano per crescergli intorno e in quali rapporti con lui, non posso spiegare in due parole. Tuttavia, decada o no il Parlamento, esso vivrà ancora certamente a lungo, e avrà sempre una grande importanza: quindi, chiunque per caso sia giunto alla stessa conclusione da me accennata, non è perciò dispensato dall'occuparsene. Per studiare i rimedi, tralasciamo in primo luogo tutti quelli che non interessano propriamente l'arte politica, in quanto si rivolgono a modificare certi difetti dell'educazione e dello spirito pubblico corrispondenti ai mali da correggere. Bisognerebbe rifarsi dalla scuola elementare, anzi dalla balia. Limitiamoci a considerare i risultati che si possono ottenere con provvedimenti d'ordine giuridico. Una legge e un regolamento in primo luogo obbligano positivamente le persone a fare determinate cose. Ma questo sarebbe poco; il loro principale effetto è di influire sulla psicologia umana: di creare cioè dei sentimenti e dei costumi. Per esempio, un Governo costituzionalmente forte sarebbe quello combinato di persone estranee al Parlamento, o comunque scelte all'infuori dalle maggioranze parlamentari; un Gabinetto fiduciario di un Principe forte. Questo è stato il sistema della Germania Imperiale e ha fatto lunga e buona esperienza. Si potrebbe anzi provare che quell'esperienza ha giovato anche al Governo di tipo parlamentare che la Rivoluzione ha sostituito al primo, appunto nel senso di mantenere un costume politico rispondente alle esigenze dello spirito nazionale da cui la forma precedente era stata determinata. Circa venticinque anni fa in Italia sorse, a proposito della forza e della debolezza del Governo, lo stesso problema che noi oggi tentiamo risolvere, per le stesse ragioni e gli stessi termini (ecco la prova della sua antichità). Il Sonnino tentò, in pratica ed in teoria, di trasportare, in Italia, il sistema germanico. Non riuscì e non occorre spiegare le ragioni perché non poteva riuscire. Basterà dire che la proposta di Sonnino significava "la reazione" e quindi ha prodotto tutte le conseguenze che questa parola suole produrre sull'animo e sulla fantasia degli italiani. Se oggi uno ripetesse una proposta simile, sarebbe egualmente "la reazione" coi conseguenti effetti. Appunto, tenendo conto di questi riflessi psicologici del diritto pubblico, molto più conveniente alle idee e sentimenti prevalenti nel nostro Paese, appare una soluzione formalmente opposta. Nel sistema parlamentare, che è il nostro, si sa che il Re nomina i ministri ascoltando e interpretando la volontà parlamentare. Il Gabinetto si presenta alla Camera e chiede un volto di fiducia che solo gli dà l'effettiva autorità di governare. Questo è il nostro costume politico, jus traditum. Ora si tratterebbe di rendere positiva questa norma, con lo stabilire che il Ministero debba essere formalmente investito dei suoi poteri da un'apposita disposizione legislativa: una lex de imperio. Si noti che in Italia manca anche una legge organica dei Ministeri cosicché specialmente nella pratica di questi ultimi anni, la istituzione, lo smembramento, la soppressione di Dicasteri, è stata sempre attuata nel periodo di formazione del Gabinetto, senza preventiva autorizzazione del potere legislativo. Questa legge pertanto, oltre a istituire il rito per il conferimento ai Ministri delle funzioni esecutive che loro spettano, fisserebbe e distribuirebbe anche, legalmente, le varie competenze. Per metterci d'accordo con la tradizione giuridica richiameremo la distinzione fra il Gabinetto come consilium principis e i singoli Ministeri come organi definiti dall'Amministrazione. Il campo proprio della legge che invochiamo sarebbe precisamente quest'ultimo, escludendo il pericolo che una nuova facoltà data alla Camera in tal senso, la erigesse in permanenza in Assemblea Costituente. Un tal sistema esigerebbe uguale procedimento anche per stabilire la cessazione dei poteri ministeriali. Vuol dire che, in caso di dimissioni, i Ministri dovrebbero chiedere alla Camera la procedura formale di esonero, in altro caso questa sarebbe provocata di iniziativa parlamentare. Quali gli effetti sperabili dalla riforma? Nulla più di quanto è sperabile da un provvedimento coattivo. Nessuna legge può imporre ai Deputati di essere dei galantuomini, né tanto meno stabilire sanzioni al riguardo. Non si può proibire a Cocco-Ortu di personificare la "democrazia". Ma la crisi avrebbe sempre, necessariamente, un processo parlamentare, quindi uno svolgimento controllato dal pubblico. Non si fa in seduta quello che si fa nelle .conventicole. Una disciplina crea delle e idee delle abitudini. Insomma l'atto di cambiare e quindi di istituire un Governo, verrebbe ad acquistare ciò che nella sciagurata pratica del nostro Parlamento ha perduto: la serietà. Certamente l'attuazione pratica di un'idea come questa richiede una più precisa e circostanziata disamina. Bisognerebbe vedere se proprio la procedura formale legislativa convenisse a provvedimenti di tal natura, o se non fosse il caso di stabilire un processo sui generis. Ma lasciamo, per ora, l'idea greggia com'é. Piuttosto preoccupiamoci della rispettabile opinione di quella parte che nella riforma potrebbe scorgere una inquietante sfigurazione del potere regio. In pratica la competenza del Re rimarrebbe tal quale. La possibilità di uno scontro fra la volontà della Camera legiferante de imperio, e quella del Re, nell'atto di nominare o di accogliere le dimissioni del Ministero, sarebbero sostanzialmente quelle che ora si presentano per effetto di un voto politico della Camera. Teoricamente il Re avrebbe nel nuovo sistema, come nell'attuale, la facoltà di aprire un conflitto con la Camera, rinviandole un Ministero formalmente destituito, come ora un Ministero destituito da un voto politico; infine avrebbe sempre il potere sommo della provocatio ad popolum. Soltanto è vero che una simile riforma sarebbe difficile accordare con la lettera dello Statuto. Ma tutta la pratica costituzionale da cui la riforma procederebbe, è stata in realtà, una deroga al Patto. Infatti quando Sonnino pensò dì cambiar sistema di governo nel senso accennato più sopra, disse semplicemente: torniamo allo Statuto. Ora, è facil cosa, non lo nego, che una. proposta come la mia assuma colore demagogico: ma alla fine non si tratterebbe che di disciplinare positivamente una norma elaborata dalla consuetudine costante di mezzo secolo, e di cui la Monarchia stessa sarebbe stata la squisita istitutrice. UBALDO FORMENTINI.
|