PROBLEMISMO POPOLARE

    Gli antichi clericali non si preoccupavano di problemi pratici: risolta la questione centrale con una professione di ossequio alla Chiesa, non vedevano nello Stato la risultante di tutte le forze economiche e contingenti, o, se vedevano, non pensavano di partecipare al processo penetrandolo. Ponevano non dei problemi, ma delle pregiudiziali: come sarebbero lotta contro il divorzio e propaganda contro la pornografia. Meda anche diventando uomo di governo è rimasto a questo spirito.

    La novità dei popolari è nella revisione tecnica della cultura clericale: suscitati infiniti problemi, le diverse tendenze che nascono nel Partito derivano appunto dall'ingenua incertezza di fronte alla vastità del compito. Il problemismo ha una funzione essenzialmente politica e conservatrice: Sturzo se ne è fatta un'arma contro le intemperanze dogmatiche dei destri e contro la palingenesi demagogica dei sinistri. Il richiamo alla realtà rompe le aspirazioni in frammentarie esigenze concrete, ma nella situazione presente investe il partito popolare della sua vera missione adeguata e lo induce a farsi eco dei bisogni delle classi medie, impotenti a una rivoluzione e non più disposte a continuare sulla via presente.

    I popolari non sono liberali, ma si mantengono assai vicini a quelli che si chiamavano liberali qualche anno fa: o almeno la logica di Sturzo porta su questa via.

    Hanno assimilato il concretismo di Salvemini e han portato di fatti nel costume parlamentare almeno una parvenza di discussioni reali. Volendo essere conservatori illuminati si sono dovuti riconciliare con la realtà.

    Presto vedranno che i problemi non sono nulla senza la forza che li possa realizzare e questo sarà il vero problema intorno a cui i popolari si dovranno tormentare per elaborare la propria originalità, se pur di una originalità diventeranno capaci.


p. g.



Politica scolastica

    A consultare gli atti ufficialissimi del P. P. I. (manifesto del 18 gennaio 1909, atti del congresso di Napoli, progetti Anile) risulta evidente che perno e caposaldo del programma popolare di politica scolastica è la idea della libertà di insegnamento per ogni grado di scuola, e che il modo pratico con cui il P. P. I. vuole attuare tale idea è quella dell'Esame di Stato, e che precisamente questa riforma degli esami è dagli uomini responsabili del P. P. I. intesa come una contaminazione fra il tipo francese di esame di stato (baccellierato) e il tipo, che io chiamerei vociano, della sostituzione della ammissione alle licenze.





    Quando noi avessimo detto che in questo programma non vi è nulla di originale e di proprio, che l'idea della libertà scolastica vera e propria Don Sturzo l'ha desunta immediatamente dalla Democrazia Cristiana, la quale a sua volta la caldeggiava non in quanto era D. C. ma in quanto era una delle inconsapevoli sopravvivenze del nostro liberalismo storico, quando avessimo detto che l'Anile, relatore a Napoli sulla politica scolastica del P. P. I., e autore dell'ultimo progetto sull'Esame di Stato, è il primo firmatario dell'appello del Fascio di Educazione Nazionale, gruppo di essenza e di origine crociano-unitaria, cioè schiettamente e rivoluzionariamente liberale, quando noi avessimo detto questo e altro di simile, noi avremmo detto una banalità, e non avremmo dimostrato niente affatto che il programma scolastico del P. P. I. manchi di originalità, perché la essenza e la novità di un programma, come si sa, non è nella lettera ma nello spirito, cioè nella fede da cui sotto animati i propugnatori di questo programma.

***

    Durante il congresso di Napoli, la vigilia della discussione sul problema scolastico, a sera tarda, Don Sturzo, sempre di servizio in linea, ricordò ai congressisti che il giorno dopo si sarebbe trattato della questione - importantissima - della libertà d'insegnamento. Voci dall'estrema interruppero: "È secondaria!".

    Successe allora una scena singolarissima. Fu visto Don Sturzo, pallido e tremante, balzare su d'una sedia, e di là fulminare una così veemente invettiva contro gli interruttori e intonare una così appassionata apologia della sua idea, che tosto tutta la sala del Mercadante fu un finimondo di applausi e di acclamazioni.

    In questa scena è tutta l'originalità della politica scolastica popolare.

    Un'idea covata da quelle minoranze intellettuali, che, inconsciamente ed effettivamente, reggono la vita di uno stato, una moltitudine distratta ed indifferente, attruppata alla meglio in partito; un uomo politico, un uomo, il quale dice alla massa sonnacchiosa e svogliata: "Vieni qua, qui c'è un tubo di gelatina da porre fra i reticolati della nostra vita politica, portalo su e fallo scoppiare; per quel varco passeranno tutte le libertà che a te, forse, non premono, ma che gioveranno, se non a te, ai tuoi figli"; e il "partito" che piglia su e va.





    Ecco l'originalità della loro politica scolastica.

    Anzi questa imposizione Don Sturzo con il suo P. P. I. non l'ha fatta solamente agli indifferenti dalla parte sua; ma l'ha fatta agli indifferenti che il nove aprile del '20 a Napoli interrompevano per bocca di quegli estremi del P. P. I.

    Il partito dì Don Sturzo, con la sua campagna pro libertà scolastica ha rotto il sonno nella testa anche a tutta la gente d'Italia che s'occupa di politica, e in due anni di battaglia una questione di scrittoio l'ha fatta divenire una questione nazionale; l'idea della libertà d'insegnamento ormai si è imposta a tutti e, o tardi o tosto, trionferà anche nella pratica.

    Il merito è di Don Sturzo.

    Ma è un prete! È un liberale, e giù il cappello. E, tanti auguri di sua lunga permanenza alla testa del P. P. I., non per il bene del suo partito, che a me non cale, ma per il bene della idea che a me preme infinitamente.

***

    Ma quella sera al Mercadante Don Sturzo forse esagerava scaldandosi tanto contro i poveri untorelli che lo interrompevano: la moltitudine specialmente di sinistra, un po' carezzandola, un po' violentandola, molto persuadendola, viene dove tu vuoi. Ma c'è ancora entro il P. P. I., un'altra ben più tenace rèmora all'opera di Don Sturzo anche nel campo scolastico, remora che l'impaccia assai più della sottana nell'andare, e che, forse, finirà con dargli lo sgambetto.

    Prima del P. P. I. la politica scolastica clericale consisteva insomma nel protestare platonicamente contro la tirannia statale massonica, e nell'adattarsi effettivamente dello Status quo, sfruttandolo ai propri fini di setta e di bottega. Pareggiamento di scuole confessionali, asservimento ai proprii fini di scuole sedicenti laiche o regie o pareggiate mantenute in vita dalla presenza in sede di convitti confessionali, avviamento di privatisti a scuole regie le cui commissioni fossero in fama di indulgenti, di questo constava la pratica clericale di sfruttamento del nostro vergognoso status quo scolastico e i bassi interessi della setta ne erano largamente soddisfatti.

    Don Sturzo ha gettato un sasso anche in questo pantano, e quei rospi ne sono furiosi. Hanno un bel dire, per accontentarli, che questo della libera concorrenza fra scuola confessionale e scuola di stato, non è che un primo passo, che poi verrà dell'altro, la ripartizione scolastica, il riconoscimento degli istituti confessionali, ecc., i rospi non s'accontentano di queste parole. Essi sanno benissimo che da questa forma di concorrenza la loro bottega scolastica sarà rovinata in poco tempo, e che di questa nuova libertà l'unica scuola che n'avrà vantaggio sarà, con quella di stato, la scuola libera laica, e masticano amaro, e sotto sotto fanno voti che la riforma dell'esame di stato vada per aria.





    Se la riforma non è ancora passata, la cosa si deve, oltre e più che alla opposizione professorale-massonica, alla renitenza della superstite fazione clericale; i "fessi" del P. P. I. propongono, ma i " fessi " del clericalismo dispongono. Se in quel conglomerato che è il P. P. I. ci fosse stata attorno alla questione scolastica la metà della concordia che c'è per la questione del pareggiamento delle organizzazioni bianche a quest'ora l'esame di Stato sarebbe legge da un pezzo.

    Ma tale accordo non c'è. Piuttosto, sulla questione scolastica, i clericali sorto d'accordo con i framassoni, e il documento di questo accordo si ebbe nel Progetto Corbino sulla libertà di NON insegnamento, punto della collaborazione fra il massimo dei gesuiti (professori dei Corbini figli) e il Palazzo Giustiniani dei massoni (confratelli di Corbino padre).

***

    E in questo è la tragedia del Partito Popolare, ma è poi anche la tragedia della vita politica italiana. Il Partito Popolare starà insieme solo a patto di non attuare nessuna delle riforme che i liberali suoi fondatori ritengono essenziali; se domani i liberali seguaci di Don Sturzo ci si impuntano soli in scholis relinquentur.

    E lo stesso accade nella nostra vita politica. Si regge solo quel governo che abbia in animo o si rassegni a non attirar nessuna delle grandi riforme liberali che il paese attende; se domani un governo accenna a far sul serio in questo senso, succede l'ira di Dio e rien ne va plus.

    Eppure il feto è maturo e il nostro stato è in doglie. Il parto non può andar molto in là: ma perché avvenga, basteranno i conati naturali o ci vorranno i ferri? Questo è il problema.


AUGUSTO MONTI.



Decentramento

    Affermato nel congresso di Venezia un larghissimo indirizzo rinnovatore nel campo del diritto amministrativo con l'affermazione della necessità di creare l'Ente Regione, il Partito Popolare vi si è arrestato, lasciandolo più che altro come un punto da studiare e da precisare, senza pervenire, dopo la relazione Don Sturzo, ad ulteriori determinazioni concrete del suo programma. Ora, e proprio di questi giorni, le sue proposte si limitano ad una riforma immediata semplificatrice di Ministeri, come primo passo nella attuazione di un piano più vasto e più lontano.





    Non poteva essere diversamente: la creazione dell'Ente Regione è più un motivo sentimentale, una vaga approssimazione di ciò che forse dovrebbe essere, che la sicura posizione di una realtà vicina. Più che complesso, che non sarebbe molto, il problema è confuso, il che è grave: creare la regione come unità amministrativa autonoma imposta un tale rimescolamento di tutte le nostre istituzioni, da far dubitare che la si posssa realizzare con la semplice imposizione di un piano studiato, sia pure accuratamente, dall'alto. Effettuata in questo modo, essa crea l'immediata evidente minaccia di una moltiplicazione di piccoli accentramenti, sostituiti a un solo colossale centro burocratico.

    Nell'Italia settentrionale lo sviluppo industriale nelle città e nelle campagne ha compiuto una funzione di livellamento innegabile il quale ha tolto molte delle ragioni che rendevano utile un regolamento della vita pubblica, fondato su organi amministrativi regionali. Il regionalismo vi rimane quindi non come esigenza di coscienze autonome, ma affiora solo, ogni tanto, come residuo di velleità letterarie e sentimentali, oppure come passeggero esplodere di vecchi rancori campanilistici in occasione di piccoli urti di interessi fra classi le quali non rappresentano neppure le forze più vive delle regioni (piccoli commercianti, piccoli industriali). Diamo l'autonomia a queste "espressioni geografiche" e immancabilmente ne dovrà nascere un riacutizzarsi dei sentimenti tradizionali non più come fattori attivi, anzi come ritorno a riottosità primitive superate ormai da sessant'anni di unificazione. Sullo sfruttamento di questo ritorno a cose passate (serie per alcuni, e per altri, come al solito, strumento di un nuovo tipo di dilettantismo) potrà sorgere dappertutto facilmente una nuova schiera di legulei e di burocrati, pronti a crearvi il loro piccolo nido vicino, nello sforzo di emulare le glorie della corruttrice Roma lontana, deprecata e inutilmente sospirata.

    Né le masse proletarie potranno aderire a questi nuovi nuclei nei quali vedrebbero subito senz'altro la ripetizione del prodotto peggiore di un movimento che è stato, in fondo, loro estraneo. Se un movimento autonomistico potrà sorgere nell'Italia settentrionale per opera di masse proletarie (o di loro aristocrazie) sarà un moto non certo banalmente regionale; il movimento comunista torinese non ha nulla di questo. Oppure, se lo sarà, non potrà servirsi degli organismi che si vorrebbero creare ora. Il che è lo stesso, e significa che movimento autonomistico, almeno come io l'intendo, non può aver nulla a che fare con un'opera legislativa che incoroni di grazia burocratica il rude Piemonte, e l'industre Lombardia e il Veneto, ridente.





    I Popolari (e Don Sturzo specialmente) hanno sentito questo, e si sforzano di dare alla regione un valore di disciplina del moto sindacale, il quale, con organismi suoi propri, dovrebbe agire parallelamente agli organi burocratici dell'ente nuovo, per aspirare nelle sue arterie tutto il succo migliore della vita regionale. Errore: perché in tal modo innestato nella vita regionale il movimento sindacale acutizzerebbe i suoi caratteri corporativistici; svilupperebbe le tendenze tipo Cooperative Emiliane della Terra e Cooperative Liguri del Mare; farebbe perdere a tutto il movimento la sua più viva forza generale, per farlo stagnare, corrente per corrente, in una ristretta concezione di particolarismo. Le masse organizzate non debbono essere per la regione, e il nord (inutile negarlo) si fonda su queste masse. Questa contraddizione non è risolubile; lo sforzo dei popolari per operare la fusione tradisce il loro sistema patriarcale di politica operaia, sistema reazionario.

    Nell'Italia Meridionale, nelle isole la situazione è diversa: regioni agricole su cui il peso delle tradizioni rimane formidabile, la loro costituzione é schietta e corrisponde al moto di rinnovamento che dopo la guerra le travaglia. Chiamate per la prima volta a sentire l'esistenza di una realtà politica italiana, le popolazioni si sono indirizzate confusamente a conoscerla e hanno trovato il loro primo appoggio in solidarietà regionali anche grette, egoistiche talvolta, ma neccessarie come punti-base. Ciò che si vorrebbe fare per l'Italia Settentrionale è l'applicazione dal di fuori di forme che la realtà sta sorpassando, per l'Italia Meridionale è l'aiuto di un movimento appena all'inizio; probabilmente, anche, un'arma troppo forte e pericolosa.

    Nessuno può negare la colossale impreparazione politica del mezzogiorno d'Italia c'è il segno promettente di una vita nuova, ma esso non è per ora che cenno confuso, rimescolio di movimenti caotici, affermazione di interessi elementari incapaci di organizzarsi. Su questa massa informe il Partito Popolare, più antiveggente di ogni altro, sta ponendo le sue basi più forti: esso adopera la tradizione religiosa così intimamente legata alle masse agricole del sud, per farne la piattaforma della sua azione politica. Mescolando curiosamente una visione chiara dei problemi tecnici con abili puntate demagogiche (il progetto Drago ne è un esponente) esso si ramifica e si afferma.

    Ma la solidificazione di questo moto in enti autonomi e obbligati a fare da sé, sarebbe la soluzione prima del processo. Darebbe in mano a popolazioni impreparate delle armi di cui non si saprebbero servire. Riforma troppo profonda per essere largita improvvisa, fonte quindi di conseguenze estranee agli scopi che il rinnovamento dell'Italia Meridionale ricerca, nel suo sforzo enorme che ci deve dare, attraverso lotte penose, una unità. Anche qui dunque, e per altri motivi, degli enti non vivi, impalcature senza il cemento, pronte a ricevere scorie e calcinacci o peggio verniciati.





    Delineata in questo modo approssimativo la situazione, sono lontano dal trarne delle conseguenze fisiocratiche, dei sorpassati "laisser faire". Lo stesso Partito Popolare, nella sua opera pratica realizzatrice, ha tratto da sè le conseguenze: l'Ente Reazione rimane una aspirazione che non si tradurrà in realtà. Per ora il Partito organizza, muove, agita, in un affannoso accaparramento delle masse; e in questa sua opera sente il bisogno di liberazione da un accentramento statale stupido, e contro di esso praticamente agisce.

    Le proposte precise di Don Sturzo al recente congresso del partito limitano e specificano quella che può essere una prima azione di semplificazione dell'organismo burocratico. Abolizione degli enti statali, dei monopoli, soppressione e riunioni di ministeri, di sottosegretariati, di intendenze, sono stabiliti in modo netto; tracciano sicure direttive, per quanto abbisognino ancora di studio.

    Su questo piano si possono accennare subito delle critiche: in parte si tratta del semplice smantellamento finale della bardatura di guerra, la quale sta già sfumando, quasi, per inerzia. D'altro lato, abolire, riunire ministeri, sopprimere intendenze può essere una prima azione, se si precisa il modo di assegnazione delle relative funzioni, l'effettiva economia da realizzare; perché rimane pur sempre la possibilità di sopprimere una cosa, per ingrandirne un'altra.

    Tuttavia Don Sturzo e i suoi sembra abbiano idee più ferme di tanti altri che strillano alla riforma, e per salvare il loro posto manderebbero in malora l'amministrazione: di fronte alle attuali agitazioni di impiegati il loro contegno sembra deciso. Non cadono almeno nelle ingenuità tattiche dei nittiani, che vorrebbero tutti gli impiegati bene a posto con stipendi aumentati e stabilità, ecc., per poi poterli selezionare benino.

    In queste, il P. P. è coerente: partito di masse, ha una lontana funzione indiretta di preparazione rivoluzionaria nel campo agricolo, i cui orizzonti sono ancora assai vaghi; i termini del problema ci sfuggono. Ma esso ha pure una funzione attuale conservatrice, in cui la superiorità indubbia della sua organizzazione disciplinare e, anche, delle sue competenze tecniche gli permette di dare alle masse meno vivaci un senso di sicurezza nel vantaggio immediato, che ne smorza il malcontento e ne sopisce i desideri; impone riforme e disciplina, e lascia loro l'illusione di essersi conquistate le une e l'altra.





    Ecco il trapasso dal problema delle autonomie alla semplice riforma dell'amministrazione attuale: creare 1'attaccamento degli impiegati all'Ente locale, è, forse, illusione. Nei grandi municipi gli impiegati, pagati abbastanza bene, non lavorano di più degli impiegati di Stato. Ad ogni modo, questo attaccamento può ottenersi con un semplice miglioramento delle finanze locali, con una libertà più ampia concessa ai comuni. Su questi punti il partito popolare ha idee chiare e forse agirà. Così minuzzato il problema diventa suo: e non è semplice, tanti sono gli ostacoli e gli interessi da vincere per avviarne la soluzione.

    Il partito popolare è veramente, e non solo con Don Sturzo, erede del salveminiano amore per i problemi concreti (tradizionale conoscenza dei bisogni umani, su cui i gesuiti crearono un tempo il loro potere); e vi si sforza come nessun altro partito in Italia. Questo è uno dei risultati positivi cui il suo potere ci deve condurre, man mano che la necessità di demagogia si smorza.


M. BROSIO.



Sindacalismo

    Due masse potenti di organizzazioni sindacali si contavano fino a poco tempo fa in Italia: la socialista e la popolare. Dal parziale sgretolamento della prima sotto l'urto di una violenza spesso risanatrice, sta sorgendo una terza massa: la corporazione fascista. Le organizzazioni comuniste rimangono esigue ed in posizione dubbia: non si può prevedere se il loro atteggiamento assoluto creerà dei nuovi nuclei di élite o si limiterà invece, in un costante atteggiamento negativo, a ripetere i fasti del socialismo estremista.

    La confederazione bianca ha resistito all'urto, anzi non è stata quasi toccata: essa rimane salda e potente, ordinata, metodica, con dei principii di azione, sicuri, con una linea programmatica definita che si può delineare così, nei suoi cardini: Consiglio del lavoro, sviluppo cooperativo, legalizzazione dei sindacati, sviluppo delle assicurazioni sociali, sicurezza di contratti di lavoro, salari minimi e ore lavorative minime, tendenza all'abolizione del salariato per mezzo della compartecipazione.

    Sono i cardini del socialismo riformista, ma posti come fondamento, ab initio, delle aspirazioni delle masse bianche; il socialismo italiano vi sta andando in rinculo, dopo essere passato attraverso ad una esasperata serie di affermazioni estremiste: il socialismo cattolico l'ha posto subito, decisamente, come base.

    Quando, dopo il periodo di assenteismo politico, il partito clericale ritornò apertamente nella vita politica, prese la forma di democrazia cristiana: i cattolici nazionali non ebbero seguito.





    Da allora ad oggi la linea di condotta non è molto mutata: ma il movimento è divenuto enormemente più importante: esso aduna e confonde elementi eterogenei. Molti piccoli borghesi nelle città, sterminato numero di masse contadine di incerta composizione (dal contadino operaio del Cremonese al coltivatore del latifondo Siciliano); una piccola massa di operai, la meno viva; tutto questo amalgamato da un clero disciplinato e tenace. Ma se si cerca in questa enorme raccolta di uomini un motivo animatore approssimativamente unico, non si trova: i1 cosidetto spirito cristiano non trapela. Compare molto nelle parole ma in realtà o è l'indice di un fanatismo incomposto e brutale ben lontano da ogni senso cristiano, il che si verifica specialmente nelle masse agricole del mezzogiorno, ed è segno di forza ancora da inquadrare, ma la cui azione non si può prevedere, e non tende troppo facilmente a svolgersi secondo le direttive gradualistiche del partito popolare; o è semplicemente un tenue senso di sentimentalismo, amore di quiete, speranza di pace, desiderio di vita senza scosse e di sicuro domani con la benedizione di sacri affetti e di piccole estasi non costose: come è, certamente, nelle città; oppure è ridotto a meccanismo formalistico, non sentito se non come abitudine di cui non si può ancora fare a meno, come un accessorio necessario alle comuni contingenze della vita come è in gran parte dei contadini dell'Italia settentrionale.

    Questa somma di sentimenti sembrerebbe non inquadrabile da un programma e da una organizzazione del partito popolare: è il riformismo tipico, la socialdemocrazia patriarcale in azione quella che si adatta meglio alle aspirazioni piccolo borghesi e al convinto forte egoismo del contadino. Ma quando questo contadino come nell'Italia meridionale è troppo lontano da ogni sistemazione, perturbato da una vita incerta e bestiale, primitivo e pronto a violenza, allora il suo sentimento religioso trabocca oltre l'indirizzo preciso del sindacalismo bianco: non per nulla il partito ha dovuto riconoscere e cintare le invasioni di terre, e ora deve regalare a ogni costo ai siciliani una legge sul latifondo che riconduce demagogie.





    Malgrado queste deviazioni, queste incertezze che si dovranno acuire, probabilmente, in futuro, il sindacalismo bianco, la pura forza conservatrice di prim'ordine. del momento politico attuale. Incerto in questo senso è ancora il fascismo, travagliato dalle conseguenze teoriche della sua azione violenta, dagli interessi reazionari formidabili da cui è sostenuto, dalle improvvisazioni medesime delle sue masse che forse avranno tanta facilità nel disgregarsi, quanta rapidità hanno avuta nel raccogliersi. Contraddittorio pure il movimento socialista, sbalordito oggi ancora, per la fretta collaborazionista della Confederazione, i residui rivoluzionari verbali dei massimalisti, e il verme della propaganda comunista che tenacemente lavora.

    Di fronte a tanta incertezza, i bianchi possono essere fieri della loro apparente unità; se l'urto del fascismo non li ha toccati, ciò è l'indice della loro stessa non temibilità come forze vivacemente rinnovatrici. Ma è pure segno di uno spirito diffuso che tende disperatamente alla pace; che vuole finalmente addormentarsi in qualche via sicura, dove i punti siano segnati visibilmente, e dove non ci sia che da seguire. Mentre l'economia liberista pura continua imperterrita ad affermare i suoi principi teorici e a riconoscere i suoi insuccessi pratici, mentre la sua sostituzione appare lontana ed incerta, e non potrà essere data che da nuclei nuovi con nuovi interessi e mentalità politica diversa, i quali appaiono appena in formazione; il blocco popolare rimane come la guida più certa, in questo periodo di transizione, che possa condurre a una sistemazione provvisoria e necessaria della vita politica delle masse. Con i socialisti, ma superiore ai socialisti nella organizzazione e nei capi; erede di tanti principi del giolittismo, ma superiore al giolittismo perché non compromesso, e, apparentemente, forza vergine e nuova.

    Questi i punti che fanno del sindacalismo bianco il nugolo del moto attuale delle masse italiane, in attesa che questa loro stessa partecipazione approssimativa alla vita politica indichi loro le vie nuove, veramente autonome, da seguire, senza bisogno di una disciplina dall'alto e di una mèta fissa preordinata da raggiungère, oltre alla quale è proibito andare.

    Avremo dunque certamente, attraverso alla sua azione il consiglio del lavoro e le buone assicurazioni, e lo sviluppo ulteriore del cooperativismo, e le organizzazioni fregiate di legalità: ciò che dovrà seguire a questo però, non potrà essere compito del partito popolare; è fuori della sua mentalità e della sua possibilità.


M. BROSIO.