POSTILLE

Errori che si ripetono.

    "Se nel 1848 non si posero in atto tutte le forze rivoluzionarie del popolo, non si chiamarono fuori nemmeno tutte le forze rivoluzionarie che giacevano, nell'esercito austriaco. Ognuna di quelle nazioni s'era nemica al nostro nome e alla nostra bandiera, non era nemica alla bandiera sua e al nome, caro a tutte, della libertà. Ma nessuno si curò allora se vi fosse arte di sconnettere quelle moltitudini incatenate dalla forza al vessillo imperiale, e tutte fra loro straniere e nemiche, e ripugnanti a quella oppressiva unità. Gli agitatori dell'Italia non vollero, né allora né poi, giovarsi degli stranieri contro gli stranieri, rivolgere a danno dell'Austria l'arte sua antica di por gente contro gente".

    E più di sessant'anni dopo, i nipoti ancora - che si chiamavano Sonnino e Orlando - a malincuore e fiaccamente e all'ultimo appena si indussero a seguire la via indicata con le parole sopra riferite, che furono scritte nel 1851 e sono di Carlo Cattaneo. Le leggiamo ne "Le più belle pagine di C. C." scelte da Gaetano Salvemini per la nuova serie di antologie degli scrittori italiani pubblicata dal Treves sotto la direzione di Ugo Ojetti. Non potremmo troppo raccomandare la lettura del volume, per una prima conoscenza di questo scrittore sensato, vivace, spesso modernissimo, acuto sempre - e così poco, noto!

    L'antologia è preceduta da una rapida e succosa presentazione della figura del Cattaneo, scrittaci dal Salvemini, che in più punti ci fa intravedere quel che dovrebbe essere la storia del nostro Risorgimento all'infuori delle consuete formule auliche e agiografiche.





L'attualità di Cattaneo.

    Può darsi che il Cattaneo stia per venir di moda oggi, se il movimento autonomista delle Regioni non avrà paura di sentirsi chiamare neo-federalista. Le idee del Cattaneo sulla necessità delle autonomie locali in Italia sono nettissime. Ecco ad esempio - dedicato agli autonomisti sardi! - parole che il Cattaneo scriveva a proposito della Sardegna (1862):

    "Una esperienza già troppo diuturna ha dimostrato che il Parlamento non ha mai potuto concedere, agli oscuri e scabrosi affari dell'isola se non pochi giorni, direi quasi poche ore, dell'anno, e sempre con certa attitudine di degnazione, impaziente, umiliante, quasi feudale .... Or bene, limitando il discorso alla, Sardegna, oso dire che se il Parlamento osservasse, pure ad essa sola un intero anno, deliberato d'attivare immantinente tutto ciò che in quest'isola può divenir fonte di ricchezza e di forza, ben avrebbe di che occupare per tutto l'anno quanti dei suoi membri fossero atti ad efficace lavoro. E ancora io dico che non basterebbe all'impresa. No, finché il Parlamento vorrà tenersi in braccio tutte le domestiche faccende dei singoli popoli, gli sarà più facile impedire che fare. La legislazione non è l'amministrazione.

    Il Parlamento ha una sola via da prendere in faccia ai grandi interessi regionali: ordinare ogni cosa perché si possa fare, comandare che si faccia, e lasciar fare".

    L'idea di "decentrare l'amministrazione" - commenta il Salvemini - cioè di trasferire agli uffici governativi periferici la funzione degli uffici governativi centrali, non trovava in Cattaneo nessun favore: perché tutto, si riduceva ad affidare sempre la pubblica amministrazione ad una burocrazia nominata e pagata dalla capitale, salvo a discutere poi se questa burocrazia dovesse comandare il paese stando nella capitale o dislocandosi nelle provincie in forma di satrapie. Quel che occorreva, era impedire il formarsi della casta burocratica, creando il maggior numero possibile di autonomie legislative ed elettive locali, e trasferendo al parlamento nazionale i soli affari di vero interesse comune.





    Come è arcinoto, ciò non fu possibile. La casta burocratica si formò, formidabile, e servì anche d'impalcatura alla arditissima improvvisazione dell'unità nazionale. La casta burocratica, negli anni della guerra europea testè terminata, è giunta all'apice del suo sviluppo mostruoso. Liberarne lo Stato è il grande problema attuale dell'Italia. Il programma di Cattaneo, pertanto, ci sta oggi non già dietro le spalle, ma, enunciazione precorritrice, risuonante come un monito, ci sta ancora dinanzi come una mèta. L'esperienza semisecolare dell'unità ha maturato il problema. Oggi possiamo sperare - e le nascenti organizzazioni politiche autonomiste della Sardegna, del Molise, della Calabria ne sono pegno di altissimo significato - che davvero una coscienza regionale autonomista si delinei nel paese, e possa essere un moto confluente da centri diversi in una tendenza generale, e non invece, come fu finora, programma astratto di intellettuali.

    Il Cattaneo stesso, che si ritrasse dalla politica quando l'impresa di Garibaldi nel Mezzogiorno gli ebbe svelata la immaturità pratica del suo programma, ammoniva sin d'allora (1862):

    "Bisogna che le regioni si sveglino alla vita pubblica, che pongano mano forte nei loro interessi, che alleggeriscano il governo centrale e la finanza comune da un carico troppo maggiore delle forze... Ma bisogna che i popoli spingano il parlamento; né possono farlo, se prima non hanno ben determinato la via. Pare che i popoli amino quasi d'aver diritto di lagnarsi, di poter dire che sono malgovernati... ".





Filosofia di parte?

    Alla vigilia del V° Congresso nazionalista, un uomo di indubbio valore quale è il prof. Balbino Giuliano, ha esposto pubblicamente un suo schizzo storico del nazionalismo italiano nel quadro della cultura contemporanea (Il Resto dei Carlino, 22 aprile).

    Donde è nato - si domanda egli - il nostro nazionalismo italiano? "Evidentemente da quella rivoluzione idealistica della cultura che è ricominciata verso i primi del secolo XX" affermando "l'esigenza di riconoscere nella attività sempre varia e sempre nuova dello spirito, nella sua libertà di creazione il principio generatore dell'incivilimento umano... Questa nuova cultura trovò da noi la sua sistemazione filosofica ed il suo vigoroso sviluppo scientifico nell'opera di due nostri grandi italiani, cioè nel Croce e nel Gentile". Infine: "Il nazionalismo è precisamente la espressione politica della nuova cultura fondata sul concetto della vita come realtà spirituale, come libera attività creatrice di sé e dei suoi valori".

    Da un punto di vista estraneo a qualsivoglia partito, tali affermazioni sono nel complesso accettabili senza molte riserve. Queste sorgono quando ci si vuol dimostrare come il rinnovamento idealistico della cultura italiana, affermatosi nel trascorso ventennio del secolo XIX, metta capo direttamente a quel nazionalismo del quale il Giuliano saluta in Enrico Corradini il maestro. Anzi, che l'indirizzo filosofico il quale ha per maestri il Croce e il Gentile produca necessariamente ed esclusivamente, in politica, il nazionalismo.





    Pensare così è sminuire all'estremo la portata e l'ampiezza di tale pensiero filosofico: oso dire che è un disconoscerne il significato e mutilarne la fecondità.

    Non si fa qui la questione del cittadino Benedetto Croce e del cittadino Giovanili Gentile, che potrebbero anche essere perfetti nazionalisti ed inscritti al Partito Nazionalista ufficiale: ciò interessa assai mediocremente. Ma la filosofia dell'idealismo neo-critico o dell'idealismo attuale si presenta e deve valere - e, se no, è nulla - come interpretazione totale della vita, come storia. Come tale, essa spiega e giustifica - storicamente - ogni attività umana, e dunque anche ogni atteggiamento politico.

    Una filosofia che decretasse il monopolio della verità politica ad un partito, facendone l'agenzia di rivendita dei sal sapientiae, umilierebbe e rinnegherebbe sé stessa. Per carità! vogliamo far risorgere contro il moderno idealismo italiano le medesime accuse di settarismo, di prussianesimo, ecc., che furono mosse -- a torto od a ragione -alla filosofia di Hegel? Se è questo che si vuole, non c'è di meglio da fare, che mettere innanzi affermazioni di tal genere.

    L'assurdità filosofica di siffatta pretesa salta agli occhi. Ma dove se ne va la possibilità di una dialettica politica, quando vi sia un partito, rappresentante e mandatario diretto della Dea Verità, solo a combattere contro gli altri, che sono tutti seguaci di dei falsi e bugiardi? Tutto il contenuto della lotta politica si ridurrebbe allora ad una esercitazione teoretica, quasi direi scolastica. È il colmo dell'intellettualismo, un intellettualismo degno della filosofia pre-cristiana addirittura!


LUIGI EMERY.




Facta a Genova

    I rapporti che intercedono durante la conferenza di Genova tra il presidente del Consiglio ed il ministro degli esteri, fanno scrivere a Francesco Ciccotti nel Paese:

    "L'on. Facta ha avuto sopratutto questo merito: di avere scelto un ministro degli esteri di mirabile preparazione e di finissimo intuito l'on. Schanzer. Costui ha ripagato il suo presidente, facendogli fare una buona figura in ogni occasione, perché ciascuno sa che l'on. Schanzer a Genova è il mentore graziosamente dissimulato dell'on. Facta. Il celebre avvocato di Pinerolo non credeva a se stesso di dovere presiedere una Conferenza internazionale di tanta importanza ed era oppresso dal senso della enorme sproporzione tra la sua modestissima statura e la sagoma grandiosa dell'avvenimento. L'on. Schanzer se l'è caricato sulle spalle, lo ha issato così in alto e il pubblico ha potuto vedere un Facta in proporzioni notevolmente superiori a quelle reali e, presso a poco, all'altezza della situazione.

    Questo di avere agito secondo i suggerimenti di uno degli uomini politici più eminenti dell'Italia contemporanea, così povera di uomini politici eminenti, rimarrà uno dei maggiori titoli di onore dell'on. Facta, che ha consentito a diventare quello che in una monarchia costituzionale è abitualmente il capo dello Stato (che regna, ma non governa), lasciando arbitro dell'azione da svolgere uno molto più competente. Nell'interesse della nazione il "celebre avvocato di Pinerolo" ha sentito questa necessità e non ha creduto di essere sminuito nella sua dignità: è meglio essere la Regina Vittoria (seguire cioè l'avviso di ministri prudenti) che l'Imperatore Guglielmo (volere imporre ad ogni costo la propria inferiorità). Meglio, per sè e per gli altri: quod est in votis.


G. STOLFI.