MANIFESTO

     "La Rivoluzione Liberale pone come base storica di giudizio una visione integrale e vigorosa del nostro Risorgimento;

     contro l'astrattismo dei demagoghi e dei falsi realisti esamina i problemi presenti nella loro genesi e nelle loro relazioni con gli elementi tradizionali della vita italiana;

     e inverando le formule empirico-individualiste del liberismo classico all'inglese afferma una coscienza moderna dello Stato".

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     Queste formule programmatiche, comportando di fronte ai lettori una nostra specifica responsabilità, devono essere francamente sviluppate e concretate. E poiché inizialmente la loro ragione e il loro significato risiedono in una nostra singolare esperienza, cerchiamo di chiarire e di fissare questo presupposto.

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     Fu pubblicato nel 1918 il primo numero di un piccolo periodico quindicinale che intorno a un generico programma (energie nove) raccoglieva giovani oscuri, solitari in mezzo all'affermarsi non poco vivace di politiche sette instancabilmente e torbidamente operose.

     Non era in costoro la destrezza dei furbi e degli uomini moderni; ma neanche li traeva la loro verginità a inconsulte professioni di palingenetica purezza. Cercavano nel realismo la più sana espressione di un rigoroso idealismo.

     La formula non escludeva l'ingenuità. Pure, ripensando, quel bisogno di agire, che riconosciamo nostro anche ora, ci liberava da tutte le eredità degli esteti e ci faceva apparire la pratica come realizzazione e quasi naturale prolungamento della nostra personalità. La storia suscitava nella nostra vita di individui atteggiamenti ed esigenze che non rimanevano singolari.

     Dove altri scorgeva ingenuità c'era forse appunto un'adesione creativa (non culturalmente preparata) alla storia. E dalla mancanza del senso dell'opportunità nasceva la nostra forza.

     Affrontammo la crisi post-bellica liberi dai pregiudizi di cui soffrivano combattenti e disfattisti. Anzi, indugiare su una questione sentimentale di gratitudine o di rimorso quando le conseguenze della guerra s'andavano sviluppando secondo una rude logica pratica e generavano situazioni concrete assolutamente nuove ci parve subito che volesse dire rinunciare a una effettiva esperienza politica (per tanto tempo attesa) e trasformare un episodio di psicologica stanchezza individuale in una generale crisi d'inerzia, che poteva addirittura diventare la nostra liquidazione storica.





     Nel problema della guerra (studiato a posteriori) c'era un problema morale non perché da ogni parte si venisse agitando un confuso desiderio di pace e di giustizia, ma perché la guerra poteva diventare il primo momento di un processo capace di condurre finalmente alla vita politica forze nazionali nascoste, le quali avevano conquistato una coscienza elementare dei loro compiti sociali nel sacrifizio creativo della loro personalità durante quattro anni di disciplina.

     Per noi l'illusione demagogica adoperava invano le sue lusinghe. La nostra spontaneità voleva forze spontanee con cui consentire; al di sopra delle formule, pensavamo alla vitalità degli uomini. Desiderosi di aderire al processo di spontaneità della Storia, ci trovavamo dinanzi, insoluto, il problema centrale della nostra vita di popolo moderno: l'unità. Le incertezze degli sforzi di autonomia popolare di operai e contadini ci ricondussero quindi a cercarne una ragione più ampia e profonda in condizioni tragicamente costrittive di debolezza organica e di immaturità storica.

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     L'incapacità dell'Italia a costituirsi in organismo unitario è essenzialmente incapacità nei cittadini di formarsi una coscienza dello Stato e di recare alla realtà vivente dell'organizzazione sociale la loro pratica adesione. L'indagine storica che qui riassumeremo deve spiegare:

     1) la mancanza di una classe dirigente come classe politica;

     2) la mancanza di una vita economica moderna ossia di una classe tecnica progredita (lavoro qualificato, intraprenditori, risparmiatori);

     3) la mancanza di una coscienza e di un diretto esercizio della libertà.

     Privi di libertà, fummo privi di una lotta politica aperta. Mancò il primo principio dell'educazione politica ossia della scelta delle classi dirigenti. Mentre la vitalità dello Stato, presupponendo l'adesione - in qualunque forma - dei cittadini, si forma precisamente sulla capacità di ognuno di agire liberamente e di realizzare proprio per questa via la necessaria opera di partecipazione, controllo, opposizione.

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     Dai nostri Comuni, attraverso una Rivoluzione più formidabile della Francese, sono nati gli elementi della vita economica moderna. Ma la spontaneità elementare della loro azione doveva essere necessariamente intolleranza di ogni disciplina. Accanto all'autonomia è mancata la garanzia dell'autonomia.





     Lontani dall'instaurare l'armonia di Roma, i Comuni si oppongono sul terreno pratico alla Chiesa e partecipano di uno stesso peccato di esclusivismo. S'oppone all'idea di umanità l'individuo. Ma dall'attività individuale non si risale al sistema: abbiamo l'esplodere delle passioni, non l'organizzarsi delle iniziative.

     Perciò dagli sforzi dei Comuni non è stata preparata una civiltà morale e nazionale come la Riforma, ma una civiltà di estetismo. Ossia ci si è liberati dal dogmatismo cattolico solo precipitando in una disgregazione operosa e non si è costruito nell'opposizione un organismo.

     La nostra Riforma fu Machiavelli, un isolato, un teorico della politica. I suoi concetti non seppero trovare un terreno sociale su cui fondarsi, né uomini che li vivessero. Machiavelli è uomo moderno perché fonda una concezione dello Stato, ribelle alla trascendenza e pensa un'arte politica come organizzazione della pratica e professa una religiosità della pratica come spontaneità di iniziativa e di economia. Questi concetti sono fraintesi nell'immaturità della situazione secondo schemi empirici e grettezze particolaristiche. Due secoli dopo, la conclusione ideale di Machiavelli (Vico) non trova eco alcuna nel mondo pratico.

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     Al popolo estraneo fu imposta la rivoluzione dall'esterno. Solo il Piemonte rudemente travagliato intorno a un'esperienza disordinata di forze e di lavoro fu capace di realizzare la sua missione.

     Alla fine del '700 complesse esigenze di modernità caratterizzavano la vita sociale in Piemonte più chiaramente che altrove. Fuori di ogni tradizione retorica (il Piemonte è stato estraneo alla letteratura) l'attenzione è tutta alla vita economica che si organizza secondo principii liberistici. Ferve la rivoluzione dei contadini che stanno realizzando la loro coscienza di produttori. La classe feudale si è specializzata (per dir così) nell'adempiere la funzione militare e, avvertita in politica l'inadeguatezza dei vecchi metodi, favorisce francamente i programmi riformisti. Si inizia rumorosamente la critica della Chiesa cattolica (Radicati).

     In questo movimento regionale l'opera essenzialmente negativa di Vittorio Alfieri compie una funzione unitaria. La sua polemica antidommatica, il suo pragmatismo pronto a consacrare la validità di ogni sforzo di autonomia, la sua negazione della Rivoluzione Francese (la quale - nonostante tutti gli entusiasmi dei nostri illuministi - diventava tirannide appena trasportata in Italia) 1'elaborazione in parte cosciente, in parte indiretta dei concetti di popolo, di nazione, di libertà; superavano i limiti del movimento piemontese, lo ricollegavano a una tradizione, fissavano il nucleo sostanziale del mito rivoluzionario che governò il nostro Risorgimento.





     L'invasione francese turbando e interrompendo un processo appena iniziato impedì l'organizzazione di una aristocrazia la quale dal programma alfieriano (che qui non c'importa esaminare sino a qual punto fosse stato coscientemente espresso dall'Alfieri) riuscisse ad un'azione politica positiva.

     A questo punto l'incertezza della situazione genera la debolezza di due correnti imprecise di pensiero e di azione.

     Gli aderenti al movimento rivoluzionario cercano, senza chiarezza, la loro consistenza ideale fuori del cattolicismo, e vengono agitando nel popolo il bisogno di libera cultura e di libero lavoro. I governi, fiduciosi nella reazione, fermi alla rivelazione di verità dell'assolutismo, vedono nei nuovi movimenti anarchia e disorganicità e vi contrappongono l'ordine del passato.

     I due movimenti insomma appaiono altro da quel che sono, non si riporta il dissidio alla sua logica ideale (Liberalismo contro Cattolicesimo; Stato contro Chiesa; Modernità contro Medioevo): di qui confusioni teoriche e lotte insolubili ed equivoci irreali, e contrasti politici illusori.

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     Il primo tentativo dì fondare una classe dirigente e uno Stato dopo la Rivoluzione francese risale al '21; e sorge in Piemonte dove, come abbiamo mostrato, il vecchio Governo prussianamente solido e attivo (nonostante il torpore e il semplicismo che la reazione era venuta diffondendo) era il primo modello e il primo educatore (per un'antinomia, non per un proposito) di esperienza politica.

     II nuovo contenuto ideale, oltre questi elementi tradizionali, venne alla Rivoluzione dal Romanticismo.

     Romanticismo idealistico che reagiva ai sistemi sensisti e intellettualisti, affermava i valori storici e vi fondava i concetti di tradizione nazionale, di realismo politico, di progresso e di svolgimento graduale: questo nucleo romantico di pensiero si venne formando in Piemonte durante la dominazione napoleonica pur senza una coscienza riflessa e senza liberarsi delle implicite contraddizioni.





     Il misogallismo imparato da Alfieri si concreta nell'affermazione del concetto di indipendenza e determina (oltre le limitatezze del pensiero alfieriano) una violenta polemica antisensista (identificato col sensismo il carattere del mondo francese). La scuola di Alfieri, libertario, doveva parimenti condurre a rimeditare sul concetto di libertà (purificato dai residui materialistici). Il vizio dello spiritualismo romantico era nei limiti posti dalla tradizione cattolica e nell'esigenza dell'ortodossismo, implicita in ogni sistema fondato sul principio della teocrazia e della trascendenza. Perciò il nostro Romanticismo non riuscì mai alla esplicazione completa del proprio vigore intimo e non ebbe la vitalità politica e filosofica del Romanticismo tedesco.

     Lo sforzo più intenso per spezzare le catene di una tradizione millenaria fu compiuto da Luigi Ornato, il filosofo dei moti del '21, il rappresentante più ardito della polemica antidogmatica. Una coscienza oscura delle antinomie tra cui si travagliava l'Italia nascente a nazione condusse l'Ornato a un'elaborazione dello spiritualismo che prescindesse dalle affermazioni cattoliche e realizzasse in un cristianesimo platoneggiante i bisogni religiosi e il fervore anelante a una vita più intima. Il misticismo ornatiano, culminando nel supremo concetto della libertà, santificava tutti gli ardori spirituali e poneva l'esigenza di una vita religiosa che si chiarisse e si risolvesse tutta come vita morale e filosofica.

     Ma nel Santarosa stesso la coscienza chiara dell'Ornato già si affievoliva in uno spiritualismo dogmatico e dualistico e l'espressione dell'esigenza religiosa si confondeva nell'ossequio alla Chiesa.

     Né è meraviglia perché il Cristianesimo, iniziale ardore di sentimento, momento ideale naturalmente anarchico, eretico, atto che supera tutti i fatti, affermazione violenta di spiritualità contro tutti i dati, non può avere vita e compimento reale se non realizza l'ardore in organismo, se non sostituisce alla purezza astratta dell'aspirazione l'ordine solido della praticità.

     Le correnti religiose romantiche non avendo avuto la forza di creare attraverso il primo impulso cristiano una riforma religiosa furono assorbite dal cattolicismo. Il culto romantico della storia diede un contenuto tradizionale a questi ritorni cattolici. La fecondità rivoluzionaria del pensiero dell'Ornato veniva repressa dalla moderazione dei conservatori. L'uomo nuovo fu Balbo, la nuova religiosità fu neo-guelfa, il liberalismo diventò termine inseparabile dal cattolicismo. La teocrazia riusciva con le armi stesse dei liberali, col loro spiritualismo e con la loro fede, a stroncare ogni movimento di vera rinnovazione.

     Distrutta la giovane aristocrazia del '21 la nuova aristocrazia è ancora lo strumento di un trascendente governo, espressione di un esterno dominio. La riscossa del '48 ha soltanto più le apparenze della rivoluzione; il liberalismo confuso col neo-guelfismo ha perduto la coscienza del suo significato storico. Lo stesso equivoco continua col cattolicismo liberale. L'ossequio alla Chiesa stronca la volontà etica da cui dovrebbe nascere il nuovo Stato. Il pensiero ufficiale del liberalismo, sviluppando le premesse del Santarosa, non quelle dell'Ornato, vede nello Stato e nella Chiesa un dualismo di corpo e spirito, spoglia di ogni significato ideale la funzione dello Stato e lo riduce a mera amministrazione lasciando le cure delle anime alla Chiesa. Invero la dominante psicologia libertaria di questi anni, poteva accettare per mera inerzia una forza tradizionale come la Chiesa, ma non poteva dare la sua vitalità a creare il nuovo Stato; e, poiché la Storia nella sua dialettica europea superava le contingenti volontà della maggioranza dei cittadini italiani, dello Stato liberale si accettò l'ossatura esterna, il meccanismo, senza vivificarlo dall'interno.





     Consci di questa degenerazione e di questa immaturità furono soltanto pochi teorici - più di ogni altro Giovanni Maria Bertini - accanto a lui B. Spaventa con gli hegeliani di Napoli. Il Bertini dopo aver vissuto i motivi cristianeggianti della rivoluzione quarantottesca, dopo aver vigorosamente difese le più solide tradizioni di pensiero italiano contro il sensismo e lo scetticismo d'oltralpe riuscì attraverso una logica inesorabile a vedere la funzione del nuovo Stato contro ogni attività del Vaticano e della trascendenza religiosa. Ma non ebbe animo per creare un'organizzazione politica dei suoi concetti - né il momento, venuto dopo troppe transazioni, era propizio. Gli hegeliani, pochi e isolati, dimenticarono le formidabili lotte dello Spaventa contro i gesuiti e contro i liberali cavouriani e si confusero con i conservatori. Così si formò una Destra che aveva un pensiero teorico, e nessuna capacità per realizzarlo. Si dimentica in questi anni Gioberti che aveva intravveduto il processo teorizzato dal Bertini e dallo Spaventa. Mazzini, creatore dei primi impulsi all'autonoma liberazione, rimane solo e frainteso.

     Una coscienza pratica di questa immaturità si avverte nelle infinite polemiche che sorgono nel Risorgimento a proposito del problema scolastico (e non ne sono spente ancora l'eco e le conseguenze; ecco un problema attuale che noi illumineremo attraverso la visione dei necessari antecedenti storici). La pratica superava come valore di coscienza la limitatezza teoretica. L'educazione popolare sembrava la sola via per cui potesse nascere nel popolo una volontà. Il nuovo Stato doveva adeguarsi alla sua funzione, ma prima di esercitare la funzione doveva creare gli elementi capaci di operare e di prendere significato di condizioni. Onde il dissidio implicito nel nostro liberalismo che non si può accontentare di esprimere il risultato della dialettica delle forze politiche, ma deve rinunciare all'immanenza per imporre un elemento del processo al di sopra degli altri. Il governo erede del cattolicismo ha conservato una funzione etica astratta di egualitarismo democratico: il Risorgimento dimentico delle leggi del liberalismo si faceva democratico: per continuare le tradizioni patriarcali della teocrazia. Nel mito democratico però trionfalmente penetrava l'elemento che lo doveva dissolvere perché rappresentava l'ineluttabilità del progresso moderno. I cattolici si dovettero chiamare liberali; il governo indulgeva al cattolicismo solo per indulgere al popolo. La legge Casati (nonostante tutti i suoi errori tecnici) imponendo allo Stato il compito di vincere l'analfabetismo costituiva una violenta sovrapposizione di un principio trascendente all'autonomia e all'iniziativa che sorge dal basso, ma poneva le premesse per far entrare nel mondo della coscienza moderna quel popolo che ne era rimasto fuori per un'intima malattia feudale. Ma ancora proprio all'inizio del processo sorge un'altra opposizione interna a negarlo. L'autonomia dell'azione svolgendosi entro i vecchi organi (Comune e Regione) condurrebbe a un superato Federalismo. Si doma il Federalismo soffocando le iniziative nel mito indeterminato dell'Unità. Ecco le origini e le ragioni di un altro formidabile problema moderno, il decentramento. Ecco la via che noi seguiremo per studiarne l'essenza e le soluzioni.

     Per tutte queste premesse il governo piemontese (con il governo italiano che gli succede) deve essere un socialismo di Stato.

     Come Lassalle, su basi di pensiero realistiche, conduce a Marx, Berti, o per esso Cavour conduce a Mazzini. Mazzini e Marx (ove si prescinda dalle espressioni singole che trovano i loro miti) pongono le premesse rivoluzionarie della nuova società e attraverso i due concetti così diversi di missione nazionale e di lotta di classe affermano un principio idealistico o, se meglio piace, volontaristico, che fa risiedere la funzione dello Stato nelle libere attività popolari affermantisi attraverso un processo di individuale differenziazione. In questo senso Mazzini e Marx sono i più grandi liberali del mondo moderno. Ma dal '50 al '914 l'eredità cattolica e le condizioni di disgregazione sociale dell'Italia (problema meridionale) costringono il nuovo organismo statale ad affermarsi secondo un'astratta funzione di moralità che corrompe il principio attivistico (liberistico) in una concezione democratica di statica grettezza utilitaria. Questa è la validità, questo il compito del riformismo italiano che i nostri socialisti credono di aver inventato e che è sorto invece con le prime polemiche contro i Gesuiti a proposito della Scuola popolare.

     L'evoluzione sociale dopo il '50, essendo stato introdotto nella vita italiana un elemento di riorganizzazione economica (sulla nuova base industriale), ha sostituito alla legislazione scolastica del socialismo di Stato il riformismo economico.

     La ricostruzione scolastica come rivoluzione morale, aveva potuto creare un embrione di classe dirigente, ma si era dimostrata inadeguata a un'espressione politica che fecondasse tutte le forze individuali. In verità il primo momento dell'organizzazione delle coscienze popolari doveva essere un momento per eccellenza economico, affermazione elementare dell'autonomia e della libertà.





     L'opera della Sinistra (come riformismo economico) era il coronamento logico della nostra impotenza rivoluzionaria. Era il risultato dialettico di due forze incerte e incapaci di esplicarsi; la teocrazia si continuava nella democrazia e nel riformismo, il liberalismo si riduceva a funzione amministrativa opportunistica. In sostanza un tentativo di conciliazione che trasformava l'equivoco iniziale tra Chiesa e Stato in equivoco tra popolo e governo.

     L'ideale che si propone il governo è sostanzialmente il Socialismo di Stato di Lassalle (secondo il Missiroli, ideale del giolittismo : la monarchia socialista). Ma per l'eredità della rivoluzione non riuscita il movimento riformista (poi socialista) italiano non si può svolgere nei quadri di uno Stato a cui il popolo non crede, perché non l'ha creato con il suo sangue. Il Socialismo tedesco coincide nel suo valore etico con il significato dello Stato, rappresenta il realizzarsi dell'idea Stato nella coscienza dei cittadini. La lotta pratica s'è ridotta nei termini dell'economia perché un principio comune già è coessenziale agli spiriti e dal progresso economico trae esso stesso sviluppo.

     In Italia una tradizione, che, se non è liberale, è almeno individualistica, si oppone senza rimedio alla vitalità di ogni sistema che ignori la libera iniziativa e faccia dello Stato un'attività distinta dall'attività dei cittadini.

     Il Socialismo di Stato, come noi l'abbiamo seguito nelle sue origini e nel suo sviluppo, è dunque un momento effimero che rappresenta una transazione e che bisogna superare. Una volta venuti sul terreno della legislazione sociale la politica diventa un perpetuo ricatto in cui a eterne concessioni fanno eco esterne richieste; senza che s'introduca nella lotta politica un principio di responsabilità e di educazione.

     Lo Stato viene corroso da un intimo dissidio tra governo e popolo: un governo senza validità e senza autonomia perché astratto dalle condizioni reali e fondato sul compromesso; un popolo educato al materialismo, senza coscienza e volontà, in perenne atteggiamento anarchico di fronte all'organizzazione sociale. Questa contraddizione che scoppiò nel fallimento africano è la critica più conclusiva del programma nazionalista. L'imperialismo è un'ingenuità quando restano ancora da risolvere i più formidabili problemi dell'esistenza. La pratica della nostra attività dopo la Sinistra deve necessariamente culminare nel giolittismo.

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     La guerra europea mentre ci coglie in piena crisi unitaria sconvolge tutti i piani e tutti i giudizi e dove il problema era insolubile crea dialettiche soluzioni. Dopo secoli di compromessi e di riformismo, dopo 50 anni di pace sociale, ci precipita in una crisi disordinata che è finalmente operoso esercizio di libertà. La guerra civile presente ponendo a cimento tutti i partiti e tutte le forze è l'espressione massima di nuovi bisogni e di nuova attività.

     In questa crisi la nostra opera deve avere la sua funzione chiarificatrice e deve elaborare un pensiero che comprenda l'esigenza dell'unità. La storia ci ripete i motivi che avevamo avvertito nel mondo presente. Ma la nostra teoria diventa una pratica in quanto aderisce a tutte le esperienze di autonomia, proponendosi di chiarire, aiutare, rinnovare secondo la logica dello sviluppo empirico il movimento di redenzione del popolo.





     Chi ha compreso questa posizione non ci può accusare di astrattismo. Astrattista sarebbe un proposito di azione empirica che dovendo aderire agli schemi illusori della lotta politica, quale è vista dagli uomini smarriti nei pregiudizi odierni, condurrebbe a fare più grave la confusione. II nostro pensiero centrale postula appunto la verità di un nuovo concretismo, che generi la nuova storia avendone in sé la più profonda coscienza. Compito nostro preciso diventa dunque l'elaborazione delle idee della nuova classe dirigente e l'organizzazione di ogni pratico sforzo che a ciò conduca.

     Falliti i miti sentimentali che della società hanno una visione patriarcale, la disciplina sociale si deve esprimere nello Stato come organismo - non l'indeterminatezza meramente potenziale della nazione, non la piccolezza egoistica della patria, ma una vita nuova per cui l'individuo rifà la vita sua. Nello Stato affermo l'umanità non più come affetto, ma come razionalità, annullo il mio egoismo per affermarmi uomo sociale, organo di un organismo. L'anima di questo organismo è (mazzinianamente) il popolo come espressione di un valore, di un'attività, esercizio di una missione.

     Ma gli strumenti di questa attività, le forme empiriche e momentanee di questa missione (i partiti), nati nel passato, non sono chiari nella situazione presente: il dissidio che li travaglia ci impone di distinguere fra la loro opera di interpretazione del reale e la loro praxis. Come organi di interpretazione del reale sono stati distrutti dalle nuove realtà imprevedute. La lotta politica non dà più la misura della lotta sociale.

     Il liberalismo è morto perché non ha risolto il problema dell'unità. Chi vorrà raccogliere l'eredità del liberalismo dovrà rimeditare il problema, che pone tali esigenze da determinare tutta una nuova economia. Il più nobile sforzo per dare al liberalismo la sua coscienza negli ultimi anni fu il giornale del Salvemini, che nella crisi rappresentò un tormento chiaro, precursore di nuovi tempi, quando lo sforzo individuale fosse idealmente e storicamente maturo.

     Il cattolicismo ha ucciso l'idea liberale, ma ne è stato alla sua volta intimamente indebolito. Il partito popolare che ne è sorto, fuori di ogni serietà ideale persegue, attraverso una praxis demagogica, un risultato di conservazione. E' per una logica teocratica che il rappresentante del dogmatismo e della diseducazione nel mondo moderno arma le turbe dei contadini a soffocare la civiltà.

     Il socialismo, per deficienza di preparazione, si è sfasciato mentre doveva realizzarsi. Ha espresso in Turati la sua impotenza. Invece di mantenersi coerente ad una logica autonomista ha accettato l'eredità della democrazia. Coerenti ad una visione marxista, o, meglio, italianamente marxista sono rimasti alcuni comunisti (non il Partito Comunista), che agitando il mito di Lenin vedono nella Rivoluzione il cimento della capacità politica delle classi lavoratrici, della loro attitudine a creare lo Stato,





     Ma per ora, spezzata l'unità dei movimento popolare, queste idee non sanno più inspirare una disciplina alle masse. La grande rivoluzione è avvenuta solo per metà. Il movimento operaio è stato in questi anni il primo movimento laico d'Italia, il solo capace di recare alla sua ultima logica il valore rivoluzionario moderno dello Stato, e di esprimere la sua idealità religiosa anticattolica, negatrice di tutte le Chiese.

     L'impulso non ebbe sistemazione perché la parte sana della nostra classe dirigente non seppe riconoscere il valore nazionale del movimento operaio. D'altra parte i dirigenti del movimento socialista mancarono alla loro funzione per paura e vanità insieme del governare. La politica unitaria di Serrati è un giolittismo diseducatore (senza l'ingegno di Giolitti) e dimostra la più sterile impreparazione a recare le situazioni alla loro chiarezza. In vero solo la lotta può condurre all'unità. Mancando un'etica coincidenza di popolo e Stato, solo il governo può parlare di funzione unitaria e l'astenersi diventa la sua vera moralità. Nel pensiero di Serrati si sono confuse le opposte aspirazioni di contadini e operai prima di riconoscersi. Perché ognuno raggiunga ciò che gli spetta è necessario invece che le affermazioni dal basso procedano autonome, quasi secondo una legge di separatismo. I partiti devono guidare la lotta: al governo spetta il compito supremo della conciliazione, perché la lotta non alteri, nel suo sviluppo normale, le necessarie esigenze di equilibrio. Affermare a priori questo risultato significa annientare i liberi sforzi proprio mentre nascono.

     C'era implicita nel movimenta socialista, fuor degli astratti programmi di socializzazione, una possibilità di nuova economia che risolvesse finalmente l'insolubile antinomia di protezionismo-liberismo. Nell'esame di questo problema non bisognerà dimenticare nemmeno ora le feconde discussioni sul Consiglio di fabbrica. È necessario vincere le astratte formule del liberismo e far scaturire la nuova economia dalle viscere del movimento operaio e agricolo. Il Liberismo sorge in Piemonte e in Toscana come organizzazione economica della fiorente agricoltura (dei piccoli proprietari). Ma 1'industria che pur deve vivere in Italia accanto all'agricoltura è estranea al movimento liberale: illuminino su ciò le tendenze protezioniste degli stessi operai e le nuove vie che apre il taylorismo. Sì viene preparando un'economia della fabbrica che si sviluppi liberisticamente dal punto di vista dello scambio, ma con una rigida disciplina interna dei rapporti tra industriali e operai.

     È nostra ferma convinzione che l'ardore e l'iniziativa che condussero gli operai all'episodio dell'occupazione delle fabbriche non siano spenti per sempre e non si possano in ogni modo acquetare con le lusinghe della legislazione sociale.

     La base della nuova vita italiana deve trovarsi nella costituzione di due partiti intransigenti, di opposizione ai programmi riformisti, rivoluzionari nella loro coerenza: il partito operaio e il partito dei contadini. I nuclei iniziali di queste due tendenze stanno operando nella realtà della nazione anche se ancora non si esprimono in termini di parlamentarismo: e sono il partito comunista (nonostante la demagogia ridicola dei Bombacci e dei Misiano) e le prime organizzazioni agricole del sud sostenute dal partito sardo d'azione che si sta estendendo ad altre regioni mature ad accoglierlo. Queste sole forze si scorgono oggi capaci di accettare la eredità della piccola borghesia, ormai burocratizzata in tutte le sue manifestazioni.





     Il franco riconoscimento di questa realtà non ci può condurre ad aderire a una delle due formule, appunto perché noi crediamo alla validità di tutte e due e nella nostra rivoluzione liberale comprendiamo le visioni dei due elementi contendenti. Il nostro è un liberalismo potenziale che non ci deve suggerire un'opera di conciliazione (ché allora negheremmo le premesse autonomiste), ma deve farci aderire alla doppia iniziativa.

     Un compito tecnico preciso ci attende: la preparazione degli spiriti liberi capaci di aderire, fuor dei pregiudizi, nel momento risolutivo, all'iniziativa popolare: dobbiamo illuminare gli elementi necessari della vita futura (industriali, risparmiatori, intraprenditori) ed educarli a questa libertà di visione.

     Politicamente una parola d'ordine ci affratelli nell'azione e nella lotta: il mito della rivoluzione contro la borghesia si determini, nella sua dialettica storica, come rivoluzione antiburocratica.

     Questa formula ha nel nostro pensiero un significato caratteristico che potrà forse diventare l'ideale intorno a cui si organizzerà nei nuovi anni l'attività degli Italiani.

PIERO GOBETTI