LA VITA REGIONALE

La borghesia triestina

    Non credo che a un osservatore spregiudicato possa sfuggire il fenomeno di quell'assoluta indifferenza della borghesia triestina di fronte alla politica nazionale e di quel suo vuoto pneumatico intorno alle iniziative dei vari partiti che hanno presunto successivamente di parlare in suo nome.

    A questo punto qualcuno potrebbe - forse - obbiettare che tale fenomeno non é affatto peculiare all'ambiente triestino, ma che ha invece una portata nazionale.

    Si può concedere abbastanza a questa obbiezione che allude alla soppressione della lotta politica per effetto della dittatura fascista. Mi pare quasi di vedermelo davanti: il buon cittadino generico, l'uomo comune con la pancetta, the man of the street, militante per tradizione o vaga simpatia ideologica nel campo della democrazia, alle prese con quella satanica identificazione di fascismo e nazione. Me lo figuro anzi nelle sue contorsioni per resistere, novello Sant'Antonio, a quelle suggestioni militaresche, a quelle seduzioni coreografiche che tentano la libidine fantasiosa, rettorica e teatrale della sua natura di buon italiano di razza. Che dubbi amletici! Che tragici monologhi! To be or not to be! nazionale o antinazionale? Lo so anch'io: i casi sono due: o il mio uomo si abbandona nelle braccia della sirena fascista; o manda alla malora partiti, amministrazioni, governo e Mussolini, per occuparsi soltanto dei propri interessi.

    Comunque bisogna riconoscere che in tutta l'Italia settentrionale e centrale questo menefreghismo per la cosa publica, il quale ci offre, periodicamente, quel suggestivo spettacolo delle diserzioni elettorali (bel risultato davvero, della dittatura), non ha ancora impedito che nuclei battaglieri si stringessero intorno alle vecchie tradizioni democratiche, socialiste, repubblicane dei maggiori nuclei urbani.

    E io credo anzi - mi si conceda questo inciso - che proprio in questi nuclei debbonsi intravvedere quei germi che renderanno l'Italia futura una patria abitabile. Ad un patto però! Che rimangano se stessi, che s'irrigidiscano nelle proprie posizioni ideali, che non cedano ai ricatti sentimentali del "patriottismo", che eludano anche le trappole del "combattentismo". Allora la loro intransigenza, la loro "disperazione eroica", come direbbe Piero Gobetti, eliminando automaticamente gli arrivisti, i parassiti, i pasticcioni, le anime in pena e i Don Abbondi della politica, sarà la migliore pedagogia del popolo italiano, parte del quale vediamo oggi come impazza dietro al tiranno buono dalla faccia feroce, che compartisce benefici e sagre e dispensa ognuno dalle fatiche e dalle sofferenze della lotta politica!





    Ma il fenomeno risponde a Trieste a delle cause del tutto originali.

    Guardate: qui nemmeno il fascismo é riuscito a raccogliere quell'adesione intima e attiva, quel fervore religioso e sincero dei ceti medi che gli hanno fatto guadagnare, altrove, la palma della vittoria. Se il fascismo a Trieste avesse aspettato dai "paesani" sarebbe ancora oggi ben poca cosa. Ad ogni modo sarebbe altra cosa. Infatti le premesse psicologiche dalle quali germinò generalmente il fascismo non potevano sussistere qui che nell'esiguo gruppo dei volontari di guerra e in singoli elementi già assimilati allo spirito italiano; gli unici per i quali la politica presentavasi, di primo acchito, sotto la specie non più triestina, ma nazionale.

    Per averne la conferma basta leggere il manifesto-programma del primo Fascio Triestino pubblicato nel novembre 1919. Invano voi cerchereste quei tipici postulati rivoluzionari del fascismo romantico di allora. Ma troverete invece una abbondanza di affermazioni così vivacemente regionaliste che oggi sarebbero incriminate per lesa-nazione.

    Ora, chi entrava in quei giorni nel fascismo triestino? Reduci di guerra, qualche gruppo piccolo borghese della sinistra democratica del vecchio partito liberale, e una gran massa di ex-regnicoli quasi a rifarsi di quella forzata astinenza politica dell'anteguerra.

    Ma la stragrande maggioranza della borghesia, grassa e magra, restava allo stato caotico, inorganico, non s'inquadrava in partiti, presentava una mutria impassibile a ogni fermento politico che tentasse di avvolgerla nelle sue spire. Qui confluiscono cause storiche, psicologiche, economiche in gran parte - e anche strettamente individuali - a esaurire il fenomeno.

    Borghesia grassa. Banca, finanzieri, armatori, grossi industriali. Vecchie conoscenze. Sappiamo benissimo cos'erano. Molte le mosche bianche: - quanti? - nazionalmente opachi, ligi al governo austriaco - anche per la logica dei loro interessi - ma privi di velleità politiche, gente d'affari, ralliès del partito liberale al quale regalavano i voti contro i socialisti. Unica loro briga nel dopoguerra: quella di risolvere i propri casi individuali presso il governo italiano, direttamente, senza mediazioni politiche; di farsi perdonare l'austriacantismo e d'inserirsi prontamente, con tutti gli onori di casa, nell'economia nazionale, per vivere come prima, meglio di prima.





    La media e la piccola borghesia si daranno invece alla pazza gioia, e crederanno che venuta l'Italia, a tutto e per tutti dovrà oramai pensare il Governo italiano. Entusiasmo, esaurimento, stanchezza, se volete. Ma anche mentalità paternalistica, ieri austriaca, oggi mussoliniana. Curiosa coincidenza. Il patriottismo di queste classi nell'anteguerra era foggiato in una guisa speciale. Già non poteva essere, salvo uno sforzo eccezionale di coltura, quella immersione piena nello spirito nazionale, quel sentire l'Italia come inrinseca a me stesso, quel rivivere e riconoscere i fatti della sua carne e del suo spirito, pregi o difetti, storia, coltura, politica, come inerenti alla mia carne e al mio spirito, come cose mie. Ed era, invece, un'adesione estrinseca, rettorica, rituale, qualchevolta estetica, a un'Italia lunare, lontana, e di per se stante, astratta, ideale, a cui si attribuivano tutte quelle perfezioni, quelle virtù che si negavano all'Austria. Italia come idea di partito.

    Voi sorprendete ora questa borghesia, ai lumi spenti della redenzione, così politicamente disorientata, impacciata e quasi smarrita, che vi sembra un piccolo squalo fuor d'acqua.

    I suoi gruppi più attivi annaspano affannosamente per cercarsi un addentellato con la realtà nazionale all'infuori del fascismo. Non ci riescono. Osservateli bene: Rinnovamento, Partito democratico-nazionale, Partito riformatore, Partito riformista. Tutti spettri apparsi tra uno sbadiglio generale, vaganti come focherelli fatui in un cimitero di consensi, scomparsi in un giorno qualunque - insalutati ospiti - senza un ricordo, né un rimpianto. Ci sono ancora, voi dite, gli "ottimati", stinchi di martiri, del vecchio liberalismo prebellico. Ma stanno tutti attorno al Governo col conto alla mano dei sacrifici compiuti per la Patria. Lasciateli fare. Altri "politiciens" di rincalzo mancano. Dei nazionalisti parleremo più avanti.

    Questa latitanza della borghesia triestina dalla politica, porta per logica delle cose, quell'influenza, quell'inframettenza, quel controllo eccezionale del Governo nella vita locale, da cui promana e si diffonde nello spirito e nelle abitudini cittadine una morale untuosa e servile; propria del vivere in colonia.

    Neppure il fascismo sembra sfuggire a questo rio destino. Ha l'aria, troppo frequente, di servire il Governo per alti scopi di polizia politica in un paese ritenuto infido.

    Ad ogni modo va in auge. Ma secondo il mio avviso, né la lotta per Fiume e per il confine Giulio, né la caccia grossa ai comunisti, che pure attizzano nei ceti borghesi le tradizionali velleità antislave e antisocialiste, sono sufficienti a spiegarne il successo.

    La ragione per cui il fascismo riesce a dominare, senza contrasto, la situazione, bisogna ricercarla altrove.





    È in quell'irrompere fragoroso entro i suoi quadri di una nuova piccola borghesia: commercianti, commissionari, professionisti, impiegati, spostati - intellettuali - qui smobilitata o sopraggiunta dalle altre regioni d'Italia, ch'è in preda anch'essa a quell'isterismo nazionalista da cui sono affetti i ceti medi italiani nell'ora che volge. A questa piccola borghesia - piena di iattanza - s'aggiunge poi il contributo del Lumpen-Proletariat meridionale che i triestini sprezzano senza conoscere le dolorose vicende di quel popolo buono e generoso.

    Così una lotta a coltello si dibatte tra questi ceti immigrati e i gruppi fascisti della borghesia indigena, proprio nell'interno del Fascio, per la conquista dei posti meglio rimunerati di controllo e di comando. Lo sparuto partito nazionalista - noviziato politico di un gruppo di giovani intellettuali, forse i migliori della borghesia che scalducciarono nel proprio seno le cocche dalle uova d'oro della plutocrazia triestina - ebbe il suo quarto d'ora di celebrità il giorno in cui vi si rifugiarono i disertori "paesani" del fascismo estenuati da una lotta ineguale e senza nessuna speranza di vittoria.

    La conclusione é triste come un ricordo di cose morte. La borghesia triestina non ha saputo inserirsi profondamente nella vita nazionale, ed ha fallito davanti al suo più alto dovere. Poi si é abbattuta, come fracida, su se stessa ed ha abbandonato Trieste al suo destino...

    Soltanto di fronte al proletariato "venduto alla Jugoslavia" ha saputo di volta in volta essere vigile e ritrovare gli antichi sopiti spiriti guerrieri. Contro di esso fu spietata come verso una razza nemica. Non disarmò neanche davanti ai morti della guerra civile. Non un raggio di bontà, né di oblio. Non un saluto. Non un fiore.

    Bisogna invece oltre alle apparenze, oltre ai miti, guardare in fondo alle cose. A un mese dalla redenzione il proletariato triestino entrava nelle fila del proletariato nazionale. Ne formava un blocco solo, unitario, compatto. Non importa se coi miti internazionalisti. Ubbidiva a Roma, e non importa a chi: se a Turati o a Serrati o a Bordiga: ubbidiva a capi italiani - ecco l'essenziale - mentre la borghesia, con tutta la sua rettorica, illividiva in quel suo gretto egoismo parrocchiale. Bisognava guardare in fondo alle cose. Le masse triestine piegate sotto una ferrea disciplina di partiti rigidamente accentrati e organizzati su base nazionale; iniziate alla conquista di uno Stato operaio, diverso di contenuto, ma non meno italiano dello Stato fascista, posto dalla logica inesorabile della lotta di classe di fronte a obbiettivi classisti nazionali, incominciavano allora, a sentirsi parte integrale del popolo italiano.

GABRIELE FOSCHIATTI.




Il fascismo in Romagna

    Prima della marcia su Roma nella Romagna vera e propria, é cioè nelle due provincie di Ravenna e di Forlì, il fascismo non é mai riuscito ad avere un'influenza preponderante, impedito nella sua espansione dalla resistenza dei vecchi partiti politici raggruppati attorno alle organizzazioni e ai Comuni, quanto dai sistemi di lotta analoghi escogitati da qualcuno fra essi nel vicino e lontano passato.

    Le spedizioni punitive in Romagna hanno avuto il loro precedente storico nei famosi "cicloni" del 1908, cioè nelle occupazioni di terre private da parte dei braccianti rossi capitanati da Nullo Baldini e dall'allora direttore della forlivese Lotta di classe, ora presidente del Consiglio on. Mussolini; e le persecuzioni personali hanno avuto il loro sbocco nelle gesta, anch'esse famose, dei repubblicani accoltellatori, nonché nei reciproci boicottaggi e nei tragici episodi di Cesena e di Voltana.

    Questo per dire che, almeno come metodo, il fascismo al suo primo apparire in Romagna non ha avuto grandi possibilità di successo perché sulla "piazza" esistevano già concorrenti temibili a vincere i quali se per uno, per il partito repubblicano, ha molto giovato il tendenzialismo idem dell'on. Mussolini e l'avito antisocialismo dei bottegai anticlericali; per il secondo, e cioè per l'organizzazione cooperativa rossa, c'è voluto l'illegalismo legale della marcia su Roma, perché non é bastato l'incendio della sede centrale delle Cooperative ravennati avvenuto nel 1921 e l'olio di ricino e le bastonate prodigate a qualche caoo.

    Le poche scaramuccie contro i comunisti di prima della "marcia" non si possono chiamare una battaglia a fondo ingaggiata contro gli scarsi e deboli elementi bolscevichi della regione; ma piuttosto devono essere considerate come gli episodi reattivi d'una felice simbiosi oggi compiuta tra gli elementi giovanili e turbolenti, per inconsapevolezza militanti in partiti diversi, perché ignari del comune fondo spirituale e del comune grado di sviluppo civile.





    Così oggi vediamo incolonnati nelle centurie della milizia nazionale gli arditi russi del '19 e gli squadristi repubblicani di tutti i tempi; mentre nel campo politico vero e proprio rivediamo a galla i molteplici rifiuti dei vari partiti, e nelle sezioni trionfare gli ex-rivoluzionari e gli ex-bonzi verdi e neri, che per la loro immoralità si aveva diritto di credere per sempre radiati dalla vita politica.

    Sembrerebbe strana questa miracolosa risurrezione se non servisse a dimostrare che la vantata rivoluzione fascista non é stata viceversa che la liquidazione finale della già scossa autorità statale e l'insurrezione della vecchia classe dirigente contro la nuova che stava sorgendo - anzi era già sorta - dal duro tirocinio della guerra rinnovatrice.

    La marcia su Roma e l'illegalismo legale che ne seguì, pur lasciando intatte le posizioni politiche della vigilia, a sorpassare le quali sarebbe stata necessaria una rivoluzione politica sul serio o una evoluzione in meglio delle coscienze, non offrì ai giovincelli di belle speranze ed ai "risorti" che la man salva per compiere una serie di abusi, a cui prima non si sarebbero neppur arrischiati di pensare. Il fondo anarcoide della razza, non mai domato, rigurgitò.

    I passivi - che nella "generosa" Romagna son tanti da non immaginare - s'acconciarono subito alla volontà dei nuovi "padroni". Basti dire che la maggior parte dei passaggi di cooperative e di leghe rosse ai sindacati fascisti é posteriore alla marcia su Roma, quanto le imposte dimissioni di parecchie Amministrazioni comunali; e quanto le conseguenti inscrizioni ai fasci di molti impiegati; così che oggi vediamo il capo-lega socialista leggere ancora - forse per nostalgia? - l'Avanti! e la Giustizia, ma andare anche a votare per la lista fascista e prender la Messa durante i giorni di "sagra" delle commemorazioni, e il capo-ufficio e lo spazzino e lo scribaccino del Comune fregiarsi del distintivo fascista colla stessa sfacciataggine con cui ieri ancora si fregiava di quello republicano o socialista, o con cui saliva la gradinata della Cattedrale per farsi vedere da quelli dell'Amministrazione popolare ad andare alla Messa di mezzodì. Quindi nulla di cambiato, anche nelle faccie; o tutt'al più, se un cambiamento é avvenuto, esso consiste in ciò: che i giovani sono stati violentemente allontanati dalla vita politica per lasciare di nuovo il posto alle vecchie avariate carcasse, che nella violenta trasformazione dei quadri politici del dopo-guerra, s'erano ritratti dalla circolazione.

    Così, in grazia al fascismo, ritornano sulla scena, travestiti, i vecchi campioni del liberalismo, del radicalismo, della loggia e del repubblicanismo "ancien régime", per cantare "Giovinezza!".

ICS.