LO STATO NAZIONALE
E IL LIBERALISMO

    È verità elementare - che non si insegna però alla scuola di Carlo Maurras - che nell'Europa Occidentale stato nazionale e stato liberale sono tutt'uno. Nella storia moderna non è concepibile lo stato senza dignità di cittadini, così come non si potrebbe pensare la repubblica ateniese affidata alle cure di schiavi e di meteci.

    La nazione è stata realmente l'espressione più alta, cui l'umanità europea era giunta attraverso un faticoso sviluppo del secolo XVI e XIII, e in cui durante il secolo XIX ha affermato sé stessa, acquistando coscienza del proprio essere e dei propri fini. L'unità spirituale dei popoli europei si realizzava nella lotta, la civiltà si affinava nei contrasti.

    L'umanesimo, la riforma, l'illuminismo avevano preparato la società nazionale e la sua espressione etico-giuridica: lo stato liberale, lo stato-chiesa di tutte le libertà, compresa quella del negarlo, purché la negazione non si traducesse in violenza attuale, erede del libero esame e dell'eresia, anche se taluno dei suoi più grandi artefici credette di conciliare1'opera spessa per questa realizzazione del pensiero ereticale colla propria coscienza di buon cattolico.

    Non a caso tutta l'attività riformatrice dei principi illuminati, che delle forme di reggimento liberali furono i preparatori più attivi, si svolse in tenace contrasto colla Chiesa Cattolica.

    E c'è bisogno di richiamarci ad Alessio di Tocqueville per documentare il sorgere e l'affermarsi di un nuovo spirito religioso nello stesso spirito antireligioso della Rivoluzione francese?

    Così come lo stato moderno si veniva sviluppando sulle rovine degli ordinamenti clericali e feudali, la nuova religione illuministica, che ispirava il messianesimo delle loggie massoniche, rincuorava i principi nella loro opera di riforma ed infiammò infine il popolo francese nel suo slancio rivoluzionario, si era affermata sulla rovinosa disfatta delle religioni positive.





    Non comprenderà mai il motivo psicologico più profondo dell'illuminismo, e quindi le sue più profonde esigenze spirituali, chi trascuri la stanchezza degli spiriti succeduta a quasi due secoli di lotte di religione, chi non intenda il disgusto e la ribellione degli stessi animi più religiosi, nel vedere andar confusa la religione cogli interessi dinastici, e, divenuta essa stessa interesse mondano, venir patteggiata nei compromessi politici, mescolata ad intrighi di corte, di gabinetto e di alcova.

    Pensiamo tutti questo noi che usciamo da una crisi per molti aspetti analoga e non più l'ingenuo ottimismo, la fede in un ordine naturale, in un teismo nazionale ci apporranno ridicoli, ma l'altera burbanza, con cui i professori di filosofia patentati parlano di uno dei più grandi moti di spiriti che abbiano impresso il loro solco nella nostra umanità.

    Un atteggiamento polemico infatti verso l'astrattismo illuministico, legittimo nei primi decenni del secolo scorso, apparirebbe a tutti - fuorché a un professore idealista attuale - una curiosità anacronistica.

    Il sangue e le vergogne di cui si erano macchiate le religioni storiche, ingenerarono il volteriano disprezzo di ogni spirito religioso, la superficiale incomprensione della funzione storica di quelle stesse religioni, di cui si combatteva, insieme, coi traviamenti e gli errori, lo spirito che non si era più capaci di intendere. Gli eccessi del settarismo, gli intrighi del policantismo gesuitico furono scontati dal puro spirito religioso.

    Ma dall'insopportabile esigenza religiosa della vita collettiva, sorsero contro le religioni positive che dividevano, e che per lungo spazio di tempo avevano spinto gli uomini gli uni contro gli altri in lotte sanguinose, la fede in un "ordine nazionale", l'ottimismo fiducioso che riconciliavamo e affratellavano gli uomini in un ideale comune.

    Non si dimentichi intanto, nella realizzazione storica dello stato moderno, quel momento importantissimo che è l'affermarsi del Diritto naturale, cioè del nuovo diritto storico nel suo divenire.

    Non a caso i motivi etico-giuridici dell'Illuminismo furono chiariti là dove prima si era affermato lo stato parlamentare, in Inghilterra.





    Ma è di Kant la semplice definizione del diritto come libertà, e della libertà come diritto. Dal privilegio ereditario, dal fedecommesso delle generazioni passate, si è giunti alla concezione del diritto come "facoltà che ognuno ha di agire liberamente, purché non violi l'uguale libertà ai ogni altro".

    Senza questa concezione elementarissima, nota alla matricola di giurisprudenza ed accessibile al cervello più rozzo, non si concepisce lo stato liberale.

    Tanto è vero che per distruggere questo, si è cominciato coll'offuscare quella nozione negli intelletti e negli animi.

    Essa risolve il diritto nel suo aspetto formale, che viene però a costituire la massima obbiettività, anzi l'unica obbiettività possibile del diritto stesso, proprio corale nell'Etica del Dovere, da cui essa deriva, ogni contenuto viene ad annullarsi nell'Imperativo categorico che è forma e contenuto insieme.

    In altre parole v'è perfetta analogia - dico analogia e non rispondenza - tra lo stato liberale, la cui base etico-giuridica riposa unicamente nell'esigenza dell'ossequio formale alla legge (il tanto deriso agnosticismo dello stato liberale, contro cui scagliano i loro dardi spuntati tutti i parvenus della politica e della critica) e l'Etica del Dovere, che non riconosce altra eticità se non quella formale.

    Appare perciò una bella contraddizione quella di coloro che nel campo etico riconoscono l'autonomia della coscienza e del dovere e nel campo politico si fanno assertori di una eticità dello stato, diversa da quell'una ed altissima eticità formale, distrutta la quale - e non sopravvivendo alcuna trascendenza - non si vede in che cosa la nuova eticità possa risolversi se non nell'arbitrio di chi contemporaneamente governa, o nei sofismi dei suoi cappellani laici.





    Proprio negli anni stessi, in cui il filosofo di Königsberg, superava i motivi più profondi dell'Illuminismo, nel riconoscerne i limiti, e ne inverava, nell' autonomia del dovere, la confusa aspirazione morale; la nazione più antica d'Europa, movendosi da quella fede illuministica, acquistava più lucida coscienza di se combattendo la sua lotta rivoluzionaria contro il proprio sovrano, contro le avverse coalizioni di sovrani, contro l'ordine vecchio e la reazione. "La nation" è contrapposta dapprima alla "royauté" e non alle altre nazioni, che anzi si invitavano anch'esse ad insorgere e ad unirsi al nemico comune. Ma per altre nazioni quegli ordinamenti, quei sovrani, quella nazione stessa rappresentavano ancora, sia pure per poco, la realtà dell'oggi, qualche cosa ch'era pur degno di esser difeso.

    Ed ecco che la lotta della "nation lumière" si sposta dai principi ai popoli che quelli difendono e che difendon con essi le particolari esigenze della vita nazionale. Si passava così dal cosmopolitismo del secolo XVIII al nazionalismo dei secolo XIX.

    Intanto era ascesa la nuova classe borghese, ricca di freschezza e di pienezza di vita, le giovani spalle cariche di difficili promesse.

    Essa aveva ormai sicure premesse per la propria libertà e per la propria lotta: poteva coi suoi musicisti sciogliere inni sinfonici alla gioia e cantare coi suoi poeti la liberazione di Prometeo.

    Per carità non facciamo confronti - anche solamente artistici - tra quella fresca e ricca umanità, che si esprimeva nella vita e nell'arte e la gelida sterilità di questa nostra decadenza! Basterebbe ad annullare le pretese rivoluzionarie del fascismo - ed a far sorgere chiari segni di precoce decrepitezza nella giovinezza che vien cantata in tutti i trivi - la sua constatata impotenza all'ispirazione ed all'espressione artistica, che lo diversifica da tutti i movimenti realmente rivoluzionari e rinnovatori, bolscevismo compreso. Ma chiudiamo la parentesi estetica.

    Colla affermazione del liberalismo la borghesia aveva posto le premesse necessarie per la sua lotta e per la sua libertà.





    Che tristezza dover ripetere ancor oggi, a gente sportiva, dinamica, ecc. ecc., che nessuna forma di reggimento politico è più sciolta di quella liberale, che nessun'altra concilia come questa le massime possibilità di sviluppo economico e culturale col massimo di lotta; che ogni altra, anche se rivestita delle più seducenti attrattive della modernità veloce e meccanica (si dice così?), anche se spiritualizzata dal dinamismo antisedentario ed antisuocerale (la mia modestia mi costringe a confessare che questi peregrini fiori stilistici vennero scelti da telegrammi ufficiali; a quando, fra parentesi, un'antologia del fiero stil nuovo?), anche se tenuta a battesimo da bollenti giovani, passati per il crogiolo rivoluzionario e impeciati di futurismo, porta con se e favorisce nei governanti e nei governati un germe di quietismo, uno strano desiderio di riposarsi, di dirsi che l'opera è compiuta, e di star lì, soddisfatti, a contemplarla!

    E quanta tristezza, e quanto spreco di fiato a spiegare agli analfabeti politici che quietismo, assenza di lotta, tranquilla soddisfazione nei governanti e nei governati voglion dire, nonostante tutte le declamazioni retoriche, politica del piede di casa, rinuncia, tutto fuorché imperialismo!

    Val meglio ammirare come la borghesia europea - ed una piccola, eroica minoranza di quella italiana - instaurasse il solo reggimento che assicuri la libertà, evitando l'anarchia.

    Chiave di volta di quel sottile e delicato equilibrio era per l'appunto la mozione formale del diritto e della legge.

    Con essa e per essa soltanto è assicurato quel tranquillo ricambio delle aristocrazie - di cui parlò Novello Papafava - mentre ognuna di queste porta nel governo dello stato il contenuto positivo di una fede. Ma ciò avviene e può avvenire senza bruschi salti, senza soluzioni di continuità perché esiste in tutti, coscienti che ne siano o no, il presupposto che proprio quella etica meramente formale, quel mero ossequio alla legge ed alle sue forme, ed in più largo senso il rispetto della altrui libertà e della altrui dignità, siano più alti e più necessari di quei sostanziali contenuti etici.





    E ciò non è perfettamente analogo a quanto afferma l'etica idealistica: che il vero contenuto, 1'universale, di ogni concreta eticità, è il formale imperativo del dovere, all'infuori dell'empirico e contingente suo oggetto?

    Se i signori professori di filosofia questo dimenticano per giustificare il... liberalismo fascista, vuol dire che in questo caso son loro che sbagliano e non la loro filosofia.

    Ed ecco come lo stato nazionale-liberale - lo stato-chiesa della libertà, secondo una nota definizione - non pur nelle dottrine dei suoi teorici, ma nella sua concreta realtà superi e contenga tutte le fedi. E ciò fa si che ognuno vi si senta a suo agio, vi apporti il proprio amore e la propria fede - quando anche si illuda di negarlo - senza venire respinto.

    Oggi si mena vanto anche sui quotidiani che, per la prima volta dacché è sorta, l'Italia non sia più espressione di quegli universali cari allo stupidissimo secolo scorso, e non ci si accorge, che se ciò realmente è, si intona il canto funebre all'idea di patria.

    In Italia poi il contrasto è più vivo e doloroso che altrove perché, nonostante la consuetudini di dittature personali, le idealità liberali dei creatori dell'unità nazionale hanno lasciato un'impronta profonda e incancellabile nell'organismo politico e giuridico del paese. Con grande e malcelato dolore degli scolari del Maurras e del minore Daudet lo stato italiano porta e porterà sempre in sé la tabe ereditaria di quello stupido secolo XIX, in cui vissero i suoi autori, e di quelle idee, cui credettero, nonostante le necessarie differenze, Cavour e gli Spaventa, Garibaldi e Mazzini, che, nella loro semplicità, non antividero le critiche dei sapienti nipoti.

    E tanta è la forza, sia pure d'inerzia, di quelle idee e di quegli istituti che neppure la cosiddetta "rivoluzione" osa apertamente combatterli ed annullarli, ricorre invece a sottili manovre e a compromessi sapienti, ed è costretta per mantenersi ad accoppiare la pratica violazione al formale ossequio ad essi. E così l'arbitrio - pessimo fra tutti i sistemi di governo, come quello che maggiormente risente del personale e del provvisorio - finisce col diventare la pesante condanna che grava e graverà sempre su chi ha creduto di poter scavalcare l'opera del Risorgimento e rinnegarne lo spirito.





    E Mussolini sente questa condanna: non per nulla la vecchia Italia, rappresentata da quattro politicanti imbelli di fronte ad un esercito di camice nere, è un po' la sua ombra di Banco. Che cosa dovrebbe temere egli, assertore della più grande e nuova Italia, da quella vecchia Italia casalinga e borghese, timida ed inerme? Eppure sente confusamente che quella Italia modesta, pur con i suoi difetti che nessuno nega, qualche cosa rappresentava, se, pur attraverso difficoltà e tentennamenti, era giunta a superare ed a vincere una guerra immensa!

    Per quanto di grande egli possa fare, che cosa potrà mai compiere che non dico superi, ma uguagli lo sforzo degli anni 1915-18, e che fu reso possibile proprio da un quinquennio di svolgimento democratico?

    Non occorre essere psicologi profondi per in tendere come questa pratica di arbitrio e di personalismi debba necessariamente finire col disgustare gli spiriti - dai più consapevoli ai più ignari - dalla vita politica del paese, spingendoli o all'aperta rivolta, o - il che è pericoloso - al disinteresse, politico, alla rinunzia.

    Così ancora una volta la dialettica della storia avrà dimostrato - dopo le recenti esperienze della Russia, zarista e della Germania guglielmina - che nessun'opera é più deleteria per lo spirito nazionale che lo straniare intere moltitudini alla vita spirituale e politica del proprio paese; che l'indifferentismo politico, sul quale soltanto la tirannia di un solo, di pochi o di molti, può fare assegnamento per la propria durata, è la più efficace propedeutica per la distruzione dell'idea e del sentimento di stato, la via più comoda aperta alla soggezione straniera.

    Noi possiamo prevedere con scrupolosa esattezza quale avvenire si preparerebbe al nostro paese il giorno, in cui si applicasse sino alle estreme conseguenze il regime da molti vagheggiato, senza che primi o poi una ribellione salutare non venisse a ristabilire il contatto fra lo stato ed il popolo; la distruzione di ogni concetto di legalità, e per naturale conseguenza, dell'idea stessa di stato, nella quotidiana pratica di arbitrio; l'annullamento del sentimento nazionale per il malcauto infeudamento di esso ad una fazione politica.

PIERO BURRESI.