LA POLITICA DI LUIGI XVIII

    Nel turbato ordine interno del fascismo, nel periodo d'una ricaduta parlamentare, Mussolini sconta il non aver assunta piena responsabilità della rivoluzione nazionalistica con la giusta investitura d'un mandato plebiscitario.

    Da che il personaggio di Cesare apparve, ogni cesarismo, cioè deposizione di oligarchia e concentrazione di poteri nel capo militare, fu legittimata mercè delegazione personale e diretta. Anche Mussolini è capo militare perché mandatario, in sostanza, dell'esercito; il quale, finto nel diritto attuale, superiore alle competizioni di parte, non potendo più operare i colpi di Stato diretti del divo Giulio o di Napoleone, munisce di armi, contro le libertà e i corpi, persone interposte. Di fatto Mussolini è investito dai comandi militari: idealmente è investito dalle necessità di difesa del principio nazionale. Manca l'investitura di diritto - il plebiscito. All'indomani della marcia su Roma, Mussolini avrebbe ottenuto direttamente, a milioni di voti di maggioranza, poteri pieni per un settennato o decennio, restandogli, in questo periodo di costituzione sospesa ma non abrogata, a render conto solo ai capi dell'esercito, ultima istanza, in ogni caso. Si sarebbe liberato a questo modo, non solo del Parlamento, ma anche del fascismo che più del Parlamento ora lo frastorna. Avrebbe disposto senza patti dei componenti dell'antico regime i quali oggi riarmano invece contro lui irriducibili ambizioni e vanità; mentre la fazione sua, che per incapacità non può aiutarlo a governare, si cruccia che la prestazione d'opera di poteri da essa abbattuti, possa a buon diritto chiamarsi collaborazione. Napoleone assunse gli uomini della rivoluzione e ne soppresse gli istituti: Luigi XVIII fece il contrario. Sebbene precedente non fosse di buon augurio, Mussolini s'è attenuto alla politica della Restaurazione.





    Ma, a prevenire una rivincita di parlamentari, framassoni, editori di giornali e altri componenti l'idealistica oligarchia italiana, le cui facoltà e prerogative non sono in principio soppresse, Mussolini ha mantenuto anche l'esercito privato che lo levò sopra costoro. In questa milizia volontaria, un regime nuovo è in embrione contenuto che non rinunzia ad affermarsi contro il serbato regime antico. Sotto i manganelli, levati sulla sua testa, lo stato parlamentare è costretto a rimettere anima e volontà nelle mani del dittatore, il quale, allogato nell’involucro vuoto, lo adopera e muove a proprio talento come ieri crostacei fanno entro conchiglie abbandonate dal mollusco. In luogo di annullare, in una nuova formazione, fascismo e Parlamento, Mussolini li erige uno a minaccia dell'altro, arbitro egli fra i due. Questo gioco s'è sviluppato nelle simultaneità delle violazioni e degli omaggi allo Statuto: nella sostituzione della censura statale con minaccie di saccheggio delle tipografie: col raddoppiamento che paralizza, senza amputarli, gli organi dello Stato, Gran Consiglio accanto al Consiglio dei Ministri, milizia nazionale accanto all'esercito, eccetera. Sistema elastico di pressioni indirette sugli elementi dello Stato liberale-democratico, perché legittimino la dittatura schiva dal legittimarsi in conformità della legge sua propria. Dissimulata dalla facciata statutaria, essa guadagna, o crede di guadagnare, forza e prestigio, specialmente all'estero, dove è trasferito il centro di gravità d'ogni nazione continentale.

    In quelle che per me sono le categorie della storia attuale - stato nazionale e crisi europea: insularismo e continentalità: egemonia mondiale anglo-sassone e sistema demo-nazionale - la dittatura di Mussolini è dunque uno stato di tipo continentale, cioè militare che, per opportunità diplomatica, non si libera delle forme di governo insulari, e vi si adatta svuotandole di ogni contenuto, anzi concimandole di disprezzo per meglio sfruttarle.

    Solo in Italia si dànno rivoluzioni calde di testa e fredde di cuore, e disegni politici fini, sottili e tortuosi come questo di Mussolini. Il tutto appartiene a quella specie designata, in parecchie lingue europee, con la parola italiana, dubbiamente encomiastica, di combinazione. Ed è cosa italianissima in quanto ha di nobiltà, cioè, l'intento di assicurare allo Stato italiano un massimo di efficienza all'interno e all'estero mercè di accorte transazioni tra gli elementi ideali che lo compongono. Ma italianissima anche in quanto ha d'ignobile: la passiva accettazione, come presupposto di fatto, d'un paese che tocca la contemporaneità solo perché possiede sentimento nazionale allo stato grezzo ma dove è vana lettera il diritto moderno e non sentito l'habeas corpus, e liberismo o democrazia niente altro che insegna per affaristi, domestici e mezzani. Mussolini si adopera sinceramente per un'Italia forte, ma non si preoccupa menomamente di una Italia civile. Il compito specifico che egli si dà, la difesa del principio nazionale minacciato dai propri trascorsi, si svolge fuori di quella che fu categoria della politica romantica, il progresso civile e morale dei popoli. Salva la romanticissima ostentazione di energia, Mussolini, e ogni altro patriota odierno, somiglia ai politici del Rinascimento, ottimi tecnici, aderenti alla realtà, ma presi in particolarismi che nessuna ragione ideale potette attingere: non ai politici del Risorgimento, intransigenti nel principio, inflessibili nella fede europei per universalità di pensare e sentire, e italiani solo in quanto europei. Se si occupasse di storiografia, Mussolini starebbe bene con gli esaltatori di Machiavelli, riduttore dell'attività politica ad arte di potenza, e contro gli avversari che nel machiavellismo condannano l'isterilimento della politica a virtuosità. Ma vi è forse una nuova posizione di questa questione nella ricerca di quanto il pensiero del Segretario fiorentino ebbe in sé di quella incapacità che esso scopriva negli italiani del cinquecento a tenere il passo col resto d'Europa.





    E, ritornando a Mussolini, non sembra forse oggi - domani la scena potrebbe esser mutata, ma oggi - non sembra che, lo slancio, e la splendida audacia e l'innegabile virtuosità sue si compiano, a traverso un vacuo circolo, in se medesime, come accadde agli scaltrissimi italiani del quattro e cinquecento? Su due fattori faceva egli assegnamento: un Parlamento mercato e un fascismo milizia. Un corpo vile e morto strumento d'un’anima viva e pura. Or ecco che l'anima si contamina della putredine del corpo. Ecco che quella poltiglia senza connotati che è la Camera italiana, prende vendetta, non già, consapevolmente, in persona degli invertebrati che la compongono, bensì vendetta involontaria, implicita nella sua sopravvivenza o continuità. Le lue elettorale ha contagiato parte del fascismo e disgustata un'altra parte. Mantenuta in officio una Camera dove la dittatura conta una ventina di voti su oltre cinquecento, Mussolini s'è posto nell'ingrata necessità non solo di coartarla, ma di umiliarla; e da questo invilimento prende vigore il grido che l'aula d'Augia sia vuotata e riempita pulitamente con gente nuova, ossia di fascisti. Ma più prende corpo il fantasma di una Camera fiorente di quattrocento fascisti, come chi dicesse quattrocento Padovani, De Vecchi o Misuri, più Mussolini inclina verso la bolgia dove le camicie nere avevano da accendere fuochi di bivacco. Onde l'ironico spettacolo della rivoluzione antiparlamentare affannata nella ricerca del miglior sistema elettorale possibile; e che talvolta, dagli occhi di fiamma e sangue, lascia tralucere addirittura il borghese rimpianto del collegio uninominale... In certi momenti, Mussolini, non si crederebbe, assume i tratti, alquanto cuneensi, del vecchio Giolitti. In altri ricorda Lenin.

    Molto italiana, questa situazione, troppo italiana!

    "Non bisogna dimenticare - scrive Mario Vinciguerra nel Fascismo visto da un solitario - che una delle caratteristiche della tattica mussoliniana è quella di tenere varie pentole a bollire. Mussolini non chiude mai le porte per le quali è passato. Ed è passato per parecchie porte". Sta bene: ma chi mai, in Italia tenne il potere in nome di un principio solo? La forza di chiudere, anzi di sbattere dietro di sé le porte risiede in una fibra civile che la storia religiosa e politica d'Italia non ha temprato ancora. Umiltà premiata: il Signore tiene le grandi catastrofi lontane dal nostre capo.

BERGERET

    Anche se i motivi di critica di Bergeret sono concordi con quelli di R. L., non bisogna credere che identici riescano i due pensieri. Bergeret, per chiarire il suo articolo con le parole dì una sua lettera recente, crede che il liberalismo abbia in politica "senso limitato e preciso di un certo programma (libero scambio, suffragio ristretto (?), regime parlamentare) incompatibile con la necessità nazionale obbiettivamente riconosciuta, e contrastante con la storia religiosa e civile degli italiani". Soltanto per queste premesse missiroliane - rafforzate dal pensiero, che è per noi più un'immagine che un concetto, che il liberalismo sia un fenomeno insulare, mentre le esperienze continentali sono tutte nazionali – Bergeret a indotto a giustificare in linea puramente astratta il fascismo come governo di difesa nazionale.

    Tuttavia la sua "fiducia in una solidarietà non astrattamente umana, bensì europea, continentale" lo guida per altra via, ad una valutazione storica non troppo diversa dalla nostra.