IL PROBLEMA DELLA
POLITICA ESTERA ITALIANA

    L'esigenza maggiore e più urgente, per l'Italia d'oggi, è quella di rifarsi, o di farsi, le ossa: intendendo, per ossa, la struttura e lo sviluppo di un'economia moderna, adeguata alla natura ed alle esigenze dell'era capitalistica, in cui viviamo e - secondo ogni ragionevole previsione - continueremo a vivere per un pezzo. Non si dirà, speriamo, che il porre come essenziale, per l'Italia, un problema economico, significhi fare del materialismo; si tratterebbe, se mai, di materialismo storico, rettamente, e cioè idealisticamente, inteso. Va da se, insomma, che il porre all'Italia l’esigenza del suo sviluppo capitalistico significa, in pari tempo, indicarle tutta una serie di altri valori da realizzare, politici, etici, culturali.

    Fra le condizioni richieste per questo sviluppo economico d'Italia, primeggia quella di una politica estera adatta allo scopo: e cioè tale da favorire la ricostruzione, l'assestamento e lo sviluppo dell'economia mondiale, promovendo in pari tempo l'inserzione in essa, e la partecipazione sempre più intensa, dell'economia italiana. Questa esigenza della politica italiana, riconosciuta generalmente - salvo da alcuni politici nazionalisti, che credono distruggerne la realtà parlando ironicamente di "ricostruzionismo" - la si formula per lo più dicendo che l'Italia deve fare una politica di pace. Ma questa formulazione dice troppo poco e troppo: non si tratta soltanto di mantenere la pace, e neppure di mantenerla in ogni caso ed a qualunque costo; ma, invece, di mantenere, e dove mancano, di ristabilire, nella situazione politica internazionale (più particolarmente in quella europea e mediterranea) le condizioni necessarie per quella ricostruzione e quello sviluppo economici di cui si è parlato sopra. Che una tale esigenza si debba cercare di attuarla pacificamente, fino ai confini estremi del possibile, va da sé, perché la guerra è per se stessa un fatto antieconomico, e dunque in contrasto colle esigenze medesime. Senonché potrebbe darsi il caso che, ad un certo punto, il mantenimento della pace risultasse più antieconomico di una guerra; e così sarebbe certamente ove avesse per risultato la progressiva, inesorabile distruzione delle forze produttive europee. La politica attuale della Francia nella Ruhr può dare un'idea di una simile eventualità.





    Non possiamo, dunque, identificare senz'altro la politica di ricostruzione economica con la politica di pace ad ogni costo, e tanto meno con quella del mantenimento puro e semplice dello statu quo. E' evidente che l'attuale situazione europea, prodotto della guerra, dei trattati di pace, e della politica intensista nel suo complesso, è tutt'altro che favorevole alla economia europea, compresa quella italiana. Ora osservando bene, si scorgono in Europa, oggi, due correnti: una che tende a mantenere questo stato di cose antieconomico, ed anzi ad aggravarlo; l'altro che tende invece ad eliminarlo gradualmente. Potremo chiamare le due correnti - con termini necessariamente un po' convenzionali, ma insomma abbastanza adatti - la prima, nazionalista, e la seconda, democratica; o anche, più in breve, destra e sinistra. Una analisi dei maggiori problemi di politica internazionale e dei contrasti interni in seno ai diversi Stati europei, mostrerebbe facilmente come, pure attraverso le differenze locali e le complicazioni dei singoli casi, la distinzione regga, ed abbia veramente un valore general. Avendo compiuta una simile analisi molte volte (per es., nell’articolo "La Quarta Internazionale", in Stampa del 30 marzo u. s., ed ora in Nazionalfascismo, p. 172), io qui mi dispenso dal ripeterla. Basterà, del resto, ricordare il problema tedesco e quello russo (i due problemi più importanti, sebbene il primo assai più del secondo e pregiudiziale rispetto ad esso, della ricostruzione economica europea) perché ognuno sia indotto a constatare da sé l'urto delle due correnti da noi indicate. Aggiungiamo piuttosto che, quando si parla di corrente democratica in opposto a quella nazionalista, non si deve intendere già, che essa escluda interessi e valori nazionali; anzi, essa trae origine e forza proprio dalla sua coincidenza con le esigenze nazionali di certi Stati (Inghilterra, Germania, Russia). Soltanto, tali esigenze nazionali coincidono con quelle esigenze generali della ricostruzione economica europea, mentre le esigenze nazionali, vere o presunte, di altri Stati vi contrastano.

    Il problema essenziale della politica estera italiana è dunque d'inserirsi in quella corrente di politica internazionale che abbiamo chiamato democratica, o di sinistra, e di promuoverne lo sviluppo e il successo. Non soltanto l'Italia corrisponderà, per tal via, a quella esigenza primordiale del suo sviluppo economico; ma avvierà in pari tempo a soluzione felice i problemi singoli e specifici della sua situazione internazionale.





    I quali sono, oggi, in sostanza, tre: stabilire rapporti normali colla Jugoslavia; impedire la formazione, ai propri confini terrestri, di una coalizione ostile; espandersi economicamente nei Balcani e nell'Oriente asiatico. Che questo terzo scopo non possa esser raggiunto se non attraverso un equilibrio pacificatore delle diverse nazionalità, superante gli esclusivismi e gli imperialismi di ciascuna di esse, è evidente per sé medesimo: non si commercia là dove c'è uno stato di guerra, o di guerriglia continue, là dove le frontiere sono chiuse e la vita economica, è arrestata. Ma anche i nostri rapporti con la Jugoslavia non si normalizzeranno, finché questa, cambiata l'atmosfera europea, non si sarà persuasa che il meglio è per lei di dedicarsi al proprio sviluppo economico, rinunziando alle costose ed infruttifere infatuazioni del nazionalismo. Infine, la coalizione franco–slava ai nostri danni sarà allontanata definitivamente quando la Francia compirà essa medesima quella conversione da destra a sinistra, dal nazionalismo alla democrazia, che sola potrà procurare a lei le riparazioni e la sicurezza, e pace all'Europa intera.

LUIGI SALVATORELLI.