IL LIBERALISMO E LE MASSE

    Su questo problema desidereremmo conoscere il pensiero degli amici.

I.

    Si svolge fra Corriere della sera e Stampa una assai importante discussione sulla vivacità e possibilità del liberalismo come partito di masse o, più semplicemente, come partito politico: la Stampa riterrebbe che liberalismo non possa essere che democrazia o social-democrazia, il Corriere, o meglio Luigi Albertini, sarebbe invece d'avviso che liberalismo possa ancora essere un partito di masse senza accodarsi a nessuna democrazia, e serbando intatto il suo patrimonio di idee e di dottrine.

    Io, modestamente, credo che dei due più nel vero sia il sen. Albertini; e questo credo non solo per ragioni teoriche, ma anche, e più, per ragioni di esperienza pratica.

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    Il tentativo di creare intorno ad un programma essenzialmente liberale un movimento politico, che avesse i suoi gregari fra le moltitudini operaie e piccolo-borghesi, è stato fatto recentemente in Italia da quei salveminiani, che nell'immediato dopo guerra crearono e diressero in varie parti d'Italia (Bari, Brescia, Genova, Molise, Sardegna) il movimento politico autonomo dei combattenti. Basi del programma offerto da questi giovani alle masse dei reduci furono appunto quelle su cui il sen. Albertini vorrebbe assidere l’azione liberale in Italia: riconoscimento dei diritti dell'Italia vittoriosa in guerra senza infatuazioni nazionaliste; opposizione all'"intervenzionismo" dello Stato nelle cose dei commerci, delle industrie e della vita locale; lotta a oltranza contro ogni protezionismo esercitato a favore di gruppi privilegiati sia padronali che operai.

    Come esperimento della capacità che l'idea liberale conserva di richiamare a sé i consensi delle "masse" e, mutuamente della disposizione di codeste "masse" a intendere l'idea liberale, il tentativo suddetto è stato dei più felici: dappertutto dove si son trovati elementi abbastanza edotti del programma e forniti di abilità "propagandista", il buon successo è stato immancabile, e le masse, specie nei luoghi vergini (mezzogiorno rurale, zone agricole di piccola e media proprietà, media e piccola borghesia cittadina) han dato chiari indizi della loro simpatia per le idee che venivan loro predicate. E adesso, dopo il ciclone fascista, chi torna in quei luoghi, sente ripetere, anche dalla gente che allora rimase ostile al movimento, perché già inquadrata dai "rossi", che "quella era la via buona" e "che fu un peccato non averla seguita tutti".

    Il movimento politico dei combattenti, che io chiamo salveminiano, ma che si potrebbe chiamare benissimo liberale, ha dimostrato praticamente anche la verità di un altro lato della tesi sostenuta dal sen. Albertini: cioè della possibilità, anzi della necessità che il movimento liberale, per essere movimento di masse, non si confonda con la democrazia.

    Il movimento dei combattenti che io dico, dove si affermò, fu cordialissimamente odiato e asperrimamente combattuto da tutti i partiti, dal socialista al popolare, dal liberale al democratico; ma il maggior male glie lo fece dappertutto la democrazia, la quale (io parlo per Brescia, ma dappertutto è accaduto lo stesso), in un primo momento accarezzò, dove c'era, questo movimento, e, appunto con queste carezze e ostentazioni di simpatie, gli alienò gran parte delle masse; e poi, in un secondo momento, quando i combattenti seguitarono a battere sull'antiprotezionismo sulla libertà della scuola, sull'antinazionalismo, allora si buttò al fascismo, e con questo fu la più accanita e spietata nel tentativo di stroncarlo.

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    Il movimento liberale dei combattenti ora è, in tutti i luoghi dove fiorì, o morto o agonizzante: e dappertutto il colpo di grazia glie l'ha recato, dalle elezioni del'21 in qua, il fascismo. E qui la storia postuma di questo effimero ma interessantissimo movimento, ci offre un altro insegnamento per l'esame della questione che ora si discute.





    Se il liberalismo vuole prendere, o riprendere, contatto con le masse, lo potrà fare come e quando vuole; ma ad un patto: che si ponga fermamente e decisamente contro il fascismo. In Italia, in un prossimo, e forse immediato, futuro la fortuna sarà per quel partito che saprà, rimanendo sul terreno della costituzione (della libertà) e della nazione, pigliar coraggiosamente per le corna il nuovo Minotauro.

    Se il liberalismo saprà fare questo gesto, le masse saranno subito con lui, e gli perdoneranno anche gli amoreggiamenti e le indulgenze sue al fascismo, e la fortuna del liberalismo come partito di masse sarà fatta e sarà duratura.

AUGUSTO MONTI.

II.

    Il problema della politica futura, partendo dagli spunti di Luigi Albertini, non è di sapere se il liberalismo potrà avere con sé le masse, dubbio già risolto mentre si propone, ma di determinare quali masse potrà e vorrà avere. Domanda che pare veramente un problema più che un progetto o una fantasia se si vuol seguire brevemente il nostro discorso.

    Dei due termini liberalismo e democrazia è difficile individuare le differenze se ne discutiamo ricordando gli ambienti da cui li abbiamo visti scaturire, come sarebbe malagevole e retorico distinguere con un ragionamento metafisico i due concetti "storici" di eguaglianza e libertà. Se invece l'osservazione storica si trasporta dal settecento all'ottocento e dall'Europa all'Italia potremo dire che la democrazia ci venne come una forma attenuata di liberalismo, fu il riparo cercato dagli Italiani all'equivoco affrontato invano; e la sostituzione del mito egualitario al mito libertario segnerebbe appunto l'inaridirsi dello spirito di iniziativa e di lotta di fronte al prevalere dei sogni di palingenesi e di tranquilla utopia.





    Un partito liberale privo di una dominante passione libertaria è nulla più che un partito di governo, una diplomazia per iniziati, che eserciterà la sua funzione tutoria ingannando i governati con le transazioni e con gli artifici della politica sociale. La pratica giolittiana poteva essere liberale solo in questo senso conservatore, e la politica collaborazionista proposta da La Stampa, non salvava il liberalismo, ma le istituzioni, tenendo conto non del movimento operaio, ma dello spirito piccolo borghese del partito socialista. Di fronte al problema storico la democrazia socialista di Frassati e il liberalismo dei consumatori di Albertini sono conservatori secondo una misura identica, diversamente atteggiata per la diversa psicologia delle due città da cui sorgono.

    Dopo l'arte demiurgica di Cavour, l'Italia resta priva di una tradizione liberale perché i liberali non risolvono nella loro logica i problemi del movimento operaio, la sola forza che rinnovando l'equilibrio sociale potrebbe risuscitare un mito libertario.

    Ma da Sonnino (Rassegna settimanale, 1878) a Giolitti il problema sociale, quando non è negato in nome di un assolutismo reazionario è trattato dai capi liberali quale un problema di beneficenza e si parla di assistere le masse per diminuirne i dolori e le possibilità di ribellione. I casi di scrittori eretici che dal concetto di libertà di sciopero fossero tratti a considerazioni più complesse di azione politica restano singolari: appena si potrebbero citare le cronache di Francesco Papafava e i primi scritti di Luigi Einaudi.

    Economisti e politici hanno sempre preferito rivolgersi al consumatore, che è figura meramente logica, grossolana, parassitaria e apolitica. Gli sforzi dei liberisti per dare una coscienza ai consumatori dovettero quindi restare vani, perché il consumatore è un elemento di calcolo, non un individuo capace come tale di coscienza politica.

    Luigi Albertini ha ragione di invocare la rinascita dello spirito liberale contro il fascismo. La morale del liberalismo è eroica e realistica, produttrice per un processo di ascesi; la morale fascista vuole la pace sociale, la rinuncia alle iniziative, la tutela del governo paterno: quella è rigoristica e autonomista; questa socialista e utopistica. L'antitesi non potrebbe scoppiare più vigorosa. Luigi Albertini ha ragione di opporre al fascismo le stesse critiche che opponeva al turatismo. Mussolini non ha da rimproverarsi troppe incostanze sul suo passato. Nonostante il suo temperamento di illogico, di intuizionista è restato un social-riformista malato dell'estremismo di cui parla Lenin.

    Ma perché si possa discorrere di azione liberale Luigi Albertini deve rispondere al nostro dilemma: o accettare la lotta di classe e chiamare gli operai al mito libertario o accontentarsi di fascismo, palingenesi collaborazionista e morale social-democratica.

P. G.