UNITÀ E GERARCHIE SINDACALI

nello Stato fascista.

    Dopo la polemica la Rivoluzione Liberale offre la prima storia del fascismo: se la presente obbiettività contrasti con l'antica passione giudichino gli accorti.

I.

    Nel riguardare il movimento fascista, prima della sua conquista del potere, non di rado mi tornava a memoria la bella immagine con la quale Giuseppe Ferrari rappresenta l'invasione dei longobardi nella penisola: – una moltitudine densa, compatta, ardente come la lava, che pietrifica con l'alito suo le città, gira e sopravanza gli ostacoli senza abbatterli.(1) Nel vasto dilagamento, monarchia, governo, parlamento, liberalismo, democrazia, emergevano come isole, senza che ne scoprissimo le basi nel suolo sconvolto già da un'altra alluvione.

    Se non che, calmata la commozione dello spettacolo, vedevamo che tutti quei pericolamenti quella crisi, per uscir subito dalle metafore, che investiva singolarmente e a pieno il sistema delle rappresentanze politiche, non aveva nulla d'improvviso e di nuovo, era stata proposta ormai gran tempo dalla critica socialistica e realmente determinata dai movimenti di classe degli ultimi decenni. Il fascismo perciò più che suscitarla la incontrava, più che guidarla ne era dominato.

    Il sistema rappresentativo non era stato mai, praticamente, messo in questione nelle prime fasi del movimento operaio, anzi questo, dovunque e per eccellenza in Italia e nei paesi che si dicono latini, vi si era pienamente adeguato. L'ora della Contraddizione è anticipata nella storia della letteratura politica dal comparire della teoria sindacalista, è segnata nella pratica dal confluire nel movimento operaio del movimento delle classi medie.

    In Francia, dove il sindacalismo teorico, sotto l'aspetto di una revisione del marxismo, ha avuto vita, la critica sindacalista-rivoluzionaria delle istituzioni rappresentative, si è incontrata con una critica degli stessi istituti che chiameremo "reazionaria", per usare una parola chiara, senza però attribuirle nessuna importanza, solo per dire che partiva da motivi opposti a quelli che ispiravano il movimento operaio. Queste due correnti trovarono letterariamente dei punti di contatto intorno al Sorel (2) e persino qualche trascurabile contatto sulla piazza.

    Stando a una parte delle manifestazioni intellettuali programmatiche del fascismo, ai sentimenti iniziali che hanno acceso e guidato la sua azione, sembrerebbe che esso avesse ripreso e riprodotto, di fronte al governo democratico, i motivi della critica che abbiamo chiamata reazionaria. Se non che, gli svolgimenti e le impreviste fortune dell'azione hanno costretto il fascismo ad accogliere, con crescente sollecitazione, i motivi opposti, cioè i motivi propri del sindacalismo operaio. Questo è diciamo, l’intreccio del dramma. La cosa è evidente anche dall'aspetto esteriore solo che si guardi alla composizione dell'élite fascista, dove si mescolano elementi delle due scaturigini, con prevalenza di quelli provenienti dalle organizzazioni sindacali operaie.

    Ma la determinazione più importante di questo momento del fascismo è il risultato di una tattica da esso seguita più per fatalità che per meditazione, onde ha assunto le stesse forme di proselitismo politico e sindacale dei socialisti, e s'è costituito, in progresso di tempo e di fortuna, erede, in molte plaghe d'Italia, delle istituzioni del movimento operaio, anche dove era mossa ad annientarle, anzi qui più che altrove.

    Il compito storico del fascismo culmina nella necessità di risolvere un problema istituzionale che è stato proposto dal movimento operaio e di cui non ha minimamente sollecitato la scadenza; e perciò l'aspetto fascista del problema istituzionale è accidentale (solo che si pensi alla sua particolare fisionomia italiana), senza volere togliere nessuna importanza a questa straordinaria e veramente curiosa accidentalità.





    Per collocare l'avvenimento nel quadro dei moti di classe che sono in fondo a tutti i fenomeni politici contemporanei, ricordiamo la storia e gli indirizzi della sollevazione delle classi medie, concorrente con le rivoluzioni proletarie dopo la guerra, e la particolare conseguenza, giù in altro studio accennata, del riformarsi di una élite borghese espulsa e separata dal corpus dell'antica classe dominante. (3).

    Nel fascismo l'ispirazione di questo elemento aristocratico sembra all'inizio dominare e informare tutta la fase difensiva e controrivoluzionaria. Come la mano armata di una aristocrazia industriale e terriera (lo storico non trova qui nessun motivo di scandalo), il movimento fascista procedendo come una forza estranea di sovrapposizione e di dominio, con l'azione conquistatrice di una minoranza guerriera – torna a questo proposito opportuno il paragone di cui siamo partiti – avrebbe creato, è lecito supporlo in ipotesi, una nuova era del capitalismo italiano, anzi l'era prima.

    Testimonianze di tali spiriti non sono mancate, anche se frammentarie, confuse e sopraffatte da motivi appariscenti di politica estera; le espressioni letterarie (i letterati arrivano sempre in ritardo) ne sono ancora superstiti nel linguaggio dei condottieri.

    Ma a un'azione siffatta è mancato in primo luogo la condizione essenziale dell'esistenza di un'aristocrazia ispiratrice, consapevole e capace – la rigenerazione di una élite capitalistica e ancora appena, da noi, una speranza. Il fascismo è stato trascinato dalle esigenze del reclutamento. Una aristocrazia conquistatrice non arma un uomo di più di quel che le occorra per vincere. La fiumana longobarda è una illusione ottica, la realtà, la ragione della vittoria dei longobardi (forse il segreto di tutte le conquiste vittoriose) fu l'essere infima minoranza fra le popolazioni sottomesse. Il fascismo si è trasformato, ha dovuto trasformarsi, in movimento di moltitudine, e in primo luogo far le sue reclute principalmente e quasi del tutto fra le classi medie; fra persone cioè, le quali, da qualsiasi impulso e motivo fossero state apportate al fascismo, erano in pari tempo imbevute di tutti i sentimenti della propria classe in sollevazione.

    Quando poi l'impeto travolgente dell'offensiva fascista catturò a mandre i contadini e gli operai organizzati, il risultato, volere o no, fu semplicemente questo: – che il nucleo fascista medio – borghese, si trovò allo stessa posto delle aristocrazie sindacali operaie detronizzate, disperse e bandite (anch'esse formate poi in gran parte di uomini delle classi medie). Vittorioso il fascismo, scopre un'acuta contraddizione di spiriti, di volontà, di origini, di determinazioni in sé stesso, che invano tenta affogare nella giocondità del trionfo, come ieri nel furor della azione. Non gliene dolga: effimera o duratura, questa è la sua sola speranza, la sua sola ragione di vita.

    L'eguale dissidio fra una iniziazione attivistica delle masse, esitata dalla psicologia di guerra, e i riflessi della crescente classificazione sociale che esse producevano col loro stesso andare, aveva infranto la formidabile unità del movimento operaio, per comprendere in uno tutti i moti che avevano accettato con entusiasmo o con rassegnazione, come un caso felice, o semplicemente come una dura lex, l'avvento storico delle classi più numerose.

    Studiare le manifestazioni di questo campo è non solo utile, ma necessario, a nostro parere, per giungere al cuore della crisi che oggi si rivela sotto l'aspetto del fascismo, domani avrà altri travestimenti, ed è infine la crisi dell'uomo e della società contemporanea.

II.

    La teoria sindacalista, il cui carattere, non occorre ricordare, fu in origine nel campo operaio estremista e rivoluzionario, ebbe in tempo antico anche qualche interpretazione riformistica, per esempio, a opera del Graziadei; ma la vera trasformazione del sindacalismo da rivoluzionario a riformista è un fatto seguente alla guerra, portato dai movimenti di classe che caratterizzano questo periodo, cioè dalla rivoluzione delle classi medie e dal progresso delle aristocrazie sindacali. Questi due grandi moti svolgono e intrecciano particolari concezioni economiche e politiche del sindacalismo, le quali in certo modo confluiscono nella concezione fascista, continuando nel suo seno la loro disputa incessante.





    Ci occorre dunque studiarle separatamente e insieme.

    La concezione sindacalista delle classi medie fu intellettualmente l'opera di giovani illuministi di queste classi, reduci dalla trincea, inebriati del loro sacrificio elettisi assertori e rivelatori di una nuova morale politica.

    La politica dei "combattenti", nella particolare organizzazione e attività pratica dei gruppi che presero questo titolo, può oggi aver perduto ogni importanza, nonostante la commovente ostinazione di alcuni dei suoi missionari; ma è la radice di tutti i commovimenti spirituali dopo guerra, ed anche, precisamente, la radice del fascismo.

    All'origine si classificavano in quel movimento l'attività politica dell'"Associazione Nazionale dei Combattenti", varie incarnazioni con vari nomi dell'"idealismo militante", e, alleanza singolarissima, diverse iniziative per organizzare un'azione politica concreta intorno al programma economico liberista. Movimento dunque di moralisti e storicisti, affacendati intorno a un riesame della coscienza nazionale, alla sollevazione dei valori spirituali del popolo, rinnovamento di realisti, studiosi e cultori di varie discipline anche non propriamente attinenti alla dottrina politica, tratti dalla grave urgenza alla speculazione dei problemi concreti del tempo. Il legame fra i due gruppi era che i pratici accettavano le ispirazioni dei primi come il motivo intimo e taciuto della propria azione; la differenza che quelli, fra i quali si contavano in maggior numero i cultori delle discipline economiche, tendevano al liberalismo, mentre i moralisti, pur accettando con fervore alcune pratiche liberali contingenti (antiprotezionismo, lotta contro la burocrazia, ecc.) propendevano, nel sistema generale, per un'etica socialistica.

    In un congresso tenuto a Roma nel 1921 fra seguaci di gruppi che si chiamavano allora di rinnovamento, fu posto, fra i temi della discussione, il "riconoscimento dei sindacati", inteso in senso stretto il riconoscimento giuridico, più ampiamente, il problema della politica dello Stato verso le organizzazioni operaie.

    Il relatore concluse secondo i precetti del liberalismo tradizionale, che considera il "lavoro" come una merce qualunque, sotto le leggi dell'equilibrio economico, giuridicamente regolata dal diritto delle obbligazioni. (4).

    Porre il problema crudamente, dal punto di vista dell'economia classica, fa dare un "pugno nello stomaco" ai seguaci del rinnovamento, così disse uno dei capi, ma fu mezzo efficace se pure poco grazioso, per costringere quella gente di buona fede a portare l'attenzione sopra un punto decisivo del compito politico che credevano di poter assumere.

    Tuttavia la risposta del congresso fu tutt'altro che categorica e la nuda proposizione liberale del tema da parte del relatore, non servì che a moderare nei termini l'affermazione intimamente illiberale che animava i congressisti, come si impara dall'ordine del giorno approvato: "Il convegno, mentre ravvisa nei liberi sindacati di produttori utili forme associative, che assumono funzioni sempre più vaste e importanti nel campo sociale e nel campo della produzione, si oppone ad ogni forma di riconoscimento giuridico che aumenti direttamente o indirettamente nelle minoranze di operai organizzati facoltà, diritti e privilegi a danno delle grandi masse tuttora disorganizzate; ma propugna il riconoscimento giuridico delle categorie economiche, dando a queste facoltà di eleggere consigli tecnici superiori (consiglio del lavoro, dell'istruzione, dell'agricoltura, degli enti locali ecc.) ai quali siano riconosciute funzioni legislative nelle materie loro attinenti, salvo il controllo, la coordinazione e l'approvazione della Camera dei deputati, rimanendo così ai liberi sindacati l'ufficio della propaganda, della organizzazione, delle iniziative produttrici e corporatrici in seno a ciascuna categoria economica"(5).





    Le stesse cose sono state tante altre volte, forse con più eloquenza e con più filosofia, ma il brano offre due o tre proposizioni degne di studio intorno alle quali può essere condotta una critica del sindacalismo delle classi medie, assai aderente allo spirito che lo ha suscitato.

    Si suppongono innanzi tutto "nuove forme di produzione" con le quali si giustificano nuove forme politiche: insensibilmente i termini della proposizione s'invertono e le nuove forme politiche diventano esse creatrici di una nuova economia. Questo è il processo logico caratteristico della mentalità democratica e riformistica, il quale ci suggerisce, se non erriamo, un suggestivo canone di verifica per tutte le manifestazioni di questo tipo.

    I "liberi sindacati di produttori" non sarebbero che le vecchie cooperative di produzione, il cui esperimento anteriore alla guerra non giustificava entusiasmi e previsioni miracolose: sembravano, ed erano infatti, istituzioni liberali. Il nuovo era questo: che nei sindacati supposti creatori di una nuova economia, si confondevano, concettualmente, le cooperative di produzione con gli organi di resistenza e di lotta del proletariato.

    Una tal veduta rispondeva però molto meno di quel che sembrasse a prima vista, alla realtà, alle funzioni, all'esperienza delle organizzazioni operaie esistenti.

    Per i socialisti, quindi, al momento storico della nostra osservazione, per la grande maggioranza dei coscritti nelle leghe di mestiere, i sindacati erano ne più né meno che l'esercito schierato in battaglia del proletariato, col fine immediato dell'elevamento delle condizioni materiali delle singole categorie, col fine vero e ultimo della conquista dello Stato da parte del proletariato stesso. A vittoria compiuta i sindacati non avevano ragione di sopravvivere, confluivano nello Stato socialista come fiumi nel mare.

    Le notizie che si avevano allora a questo proposito della Russia, erano confuse; pur la rivoluzione aveva insegnato alle prime battute che i sindacati, come organizzazioni di classe, divenivano intollerabili in uno Stato comunista dove non potevano lottare che contro lo Stato, cioè, secondo la logica socialista, contro sé stessi.

    Chi non ricorda il progetto della famosa costituzione dei Soviety in Italia, promossa dal partito socialista ufficiale? E' il documento preciso della preoccupazione socialista, alla vigilia del suo creduto trionfo, di non dover infondere la costituzione sindacale presente con 1a costituzione politica della società proletaria: di dover creare per l'esercizio del potere politico una associazione nuova, nella quale ciascuno aderente entrava, non in ragione della propria categoria professionale, ma come soggetto politico, diremo come uomo giuridico. Questione fondamentale se ai Soviety dovessero appartenere soltanto gli organizzati, o i lavoratori tutti, risolta dai più in questo ultimo senso. E poiché i socialisti non cessavano dal proclamare che la dittatura proletaria era transitoria e serviva soltanto, per un lasso più o meno lungo di tempo, a ridurre all'uguaglianza proletaria tutte le altre classi non proletarie: voleva dire che nella visione socialista il proletariato, al termine della sua odissea, moriva come classe, risolvendosi nuovamente nel popolo.

    Questa è ideologia precisamente in antitesi a quella dei filosofi delle classi medie, per i quali l'assetto futuro era fondato sulla permanenza delle categorie, e, fatalmente, sul loro insolubile contrasto.

    Vi furono, è vero, altri episodi della rivoluzione proletaria i quali poterono essere apprezzati come iniziazione di una pratica produttrice autonoma delle organizzazioni di classe: parlo dell'occupazione delle fabbriche (6).

    Di questa iniziazione abbiamo avuto principalmente manifestazioni riflesse, direi, letterarie, anche se si tratti di qualche brano di letteratura propriamente operaia. Certo albeggiano nello episodio commozioni delle classi inferiori alle quali lo storico non può negare credenza; ma nel momento, e per i più, le appropriazioni delle fabbriche non furono che atti rivoluzionari ed episodi di combattimento, senz'altro fine che di condurre i dirigenti alla conquista politica del potere. E anche quando nei consigli di fabbrica si riusciva ad abbozzare un organo funzionale della produzione, il motivo soverchiante, intimo, era quello sempre di dare vita, a un organo dello Stato, nel quale l'organizzazione sindacale doveva confondersi e scomparire.





    Il fatto è, finalmente, che questa debole esperienza operaia fu spenta in fasce non da una forza esterna, ma da una forza interna; dalla volontà dei capi delle organizzazioni stesse e dal consenso della maggioranza; per incomprensione, per frode, per viltà, dice la polemica delle parti che non ci commuove; veramente da chi mirava giusto e colpiva al suo segno, di chi svolgeva nell'atto, consapevolmente o no, la logica del classismo post-bellico. La stessa logica che guidava poco dopo, gli stessi capi a respingere gli allettamenti dell'azionariato operaio e della partecipazione operaia alla azienda, contrapponendovi un chiaro disegno oligarchico di dominazione politica degli organi della produzione economica, attraverso il controllo sindacale. (7).

III.

    La dottrina liberale dello Stato – per restare alle manifestazioni italiane – fu attaccata dall'intellettualismo socialista principalmente in nome di una pretesa concezione scientifica, così detta positivista, non altro in realtà che una deformazione del materialismo storico marxista. In pari tempo e in altri campi un indirizzo che diremo storicista, con più e diverse ispirazioni aveva mosso al medesimo assalto.

    L'"idealismo militante" dopo la guerra riprendeva, con maggior simpatia, i motivi del secondo tipo, ma tentava conciliarli col motivo fondamentale del socialismo: l'acquisto del potere politico da parte delle classi più numerose (adesione allo Stato delle masse).

    Una critica dottrinale di questo indirizzo è per più riguardi, impossibile: le sue manifestazioni letterarie non furono che d'occasione; non ne abbiamo alcun testo definito. Ma che valeva demolire l’"individuo astratto" dell'ideologia liberale, quando gli si sostituivano entità egualmente indeterminate come la classe, il sindacato. Tutti i problemi proposti dalla teoria liberale ricomparivano intatti e giganti al momento di determinare queste nuove entità, di definire cioè lo stato giuridico dell'uomo nel sindacato, del sindacato nella classe.

    Il sindacalismo idealistico non aveva scoperto un nuovo diritto come non aveva scoperto una nuova economia. In volgare poi tutto si riduceva a questa proposizione: – dato che, felicemente o inesorabilmente, le moltitudini devono assumere il potere politico, questo risultato non è conseguibile che erigendo in organi i sovrani con gli stessi organi volontari che le moltitudini hanno creato per la propria erudizione, per la propria disciplina, per il governo delle cose proprie.

    L'uomo governa nel sindacato certi suoi affari, non tutti, è evidente, e nemmeno forse quelli che più gli premono. Per giustificare il disegnato coordinamento politico-sindacale dello Stato, bisognava dimostrare che gli affari che lo Stato gestisce sono nient'altro che la somma di quelli che i sindacati negoziano singolarmente; affermazione semplicista e ridicola, la quale somiglia stranamente all'altra del dogmatismo scientifico pseudo-socialista (Schäffle, Ferri e compagni), che deduce le leggi dell'aggregazione sociale, dalle leggi degli organismi animali elementari o inferiori.

    Gli è che, stando ugualmente alla natura e alla storia, non è mai caso che un'attività interna, e riguardando il caso nostro un'attività privatistica, svolgendosi in attività esteriore, e qui diremo politica, non si trasformi, cioè non si snaturi e non si estranei dalla sua storia; trasformazione sempre inesauribile di accidenti, di meraviglie di "comicità".

    Infatti solo lo spirito alla commedia potrebbe permetterci di agevolmente perseguitare le rozze e ingenue fantasie di certi costruttori di mondi.

    Il Parlamento così com'è non funziona, il regime dei decreti-legge rappresenta il governo irresponsabile della burocrazia, deputati e senatori dovrebbero possedere una dottrina enciclopedica per votare con coscienza di causa tutte le leggi che l'attuale regime di accentramento legislativo scarica sul Parlamento. Ebbene, si ripartisca la compilazione dell'enciclopedica legislativa in due, tre, quattro, nuovi parlamenti; un progettista, ricordo, arrivava a enumerare sette, con la giunta di due eccetera, che non lasciavano veder terra: parlamenti tecnici a base di rappresentanza professionale. Peace! the charm’s wound up: – quegli stessi cittadini elettori che, distribuiti in collegi e sezioni elettorali secondo il luogo di residenza e i registri delle nascite, eleggevano le diffamate assemblee del tempo, riuniti in altre circoscrizioni e collegi, in ragione della loro professione, arte e mestiere, avrebbero acquistata la grazia immediata, di far scaturire dal numero, a migliaia, i competenti, i pratici, i tecnici, gli esperti, e i perfetti legislatori, di estrarre il diamante – come dice Renan – dalle folle impure (8). Anzi quei medesimi deputati che disonoravano la assemblea legislativa, sarebbero divenuti fior di competenti il dì che si fossero accolti in un palazzo, con la scritta: Parlamento del Commercio, dell'Industria, del Lavoro e via dicendo. Facile rivelazione che si faceva con cambiare di casa!





    Sianvi un parlamento degli industriali, uno dei commercianti, uno degli agricoltori, ecc., assemblee sovrane con potere di far leggi generali.

    I sindacati dei trasporti col loro parlamento avranno la facoltà di amministrare le ferrovie e la navigazione, soltanto, o avranno anche dei poteri tributari, avranno la disciplina dell'importazione e dell'esportazione all'interno e all'estero, faranno la politica estera? Si discute la questione doganale; dovrà trattarne il parlamento degli. industriali, dei commercianti o degli agricoltori? o chi, in ogni modo, regolerà le competenze? Si capisce che nel caso la definizione della competenza, risolverebbe anche implicitamente il merito. Oppure, il parlamento degli industriali, quello dei commercianti, quello degli agricoltori faranno leggi ciascuno in modo loro, come un tempo fecero il papa e l'imperatore, il conte e il vescovo, il comune e la consorteria?

    Vero è che di fronte a queste prospettive, i progettisti si acconciavano il più delle volte a tollerare l'esistenza di assemblee generali legislative, con diritto di veto, con la facoltà di correggere (lapis blù e rosso) le deliberazioni delle assemblee tecniche. Da conciliare gli interessi sconcordanti dei gruppi e delle classi sociali, mettere d'accordo gli agricoltori con gli industriali, gli uni e gli altri con i consumatori, e tutta l'arte, tutta la scienza della politica. Allora, o l'assemblea generale avrà dei poteri limitati e illusori (quel che accadrà infatti, perché gli stessi gruppi che formeranno i parlamenti professionali modelleranno quello politico, il quale non sarà che rappresentante dei gruppi più forti) e l'azione dello Stato sarà scissa in perpetue fazioni, con alleanze, congiure, guerre, o in tal nuovo ordinamento, più viva più alta, più gagliarda risorgerà la necessità di una tutela e di una rappresentanza politica dei singoli e della collettività, e bisognerà rifare poco o meno che 1a rivoluzione francese perché questa esigenza si riappaghi.

    Ora io non dico che previsioni del genere non possano avvicinarsi al vero, dato che certe circostanze si avverino. Può darsi che dopo una catastrofe o un dissolvimento, comunque, in seguito a un regresso, l'umanità ricominci proprio, faticosamente, la ricostruzione di quella aggregazione superiore che noi esprimiamo nell'idea di Stato, con un allacciamento di organi elementari, consigli dì fabbrica e d'azienda, entranti fra loro in rapporti di alleanza e di comunione, così come forse dalle convenzioni fra le tribù o la gentes è scaturita la prima attività legislativa. Supposto che l'organizzazione politica della società moderna vada infranta da una forza esterna o interna, che si riproduca una catastrofe come quella dell'impero romano, può darsi, dico, che gli elementi della organizzazione sindacale, la cooperativa e la lega, rimangano vivi come i soli organi primordiali dello Stato, e allo stesso modo che l'organizzazione privata del fondo romano, si trasformò, con l'autarchia del possesso signorile, in organizzazione politica, accelerando in sé attivamente tutti processi che portarono alla ricostruzione dello Stato, questa funzione sia assunta antarchicamente dai sindacati moderni.

    Ma cercar qui il "potere dei più, la vita soggettiva l'adesione delle masse allo Stato" è come cercarli nel sistema curtense.

    Tutto questo però ci dà la spiegazione psicologica del sindacalismo idealistico; nonostante le sue previsioni ottimiste di una nuova economia e di un nuovo diritto, esso era suggerito intimamente dal timor vago ed inquieto di una catastrofe: era una visione del mondo con gli occhi dilatati.

    Il movimento dei sindacati, nella sua realtà, divorava lentamente gli istituti giuridici e politici del vecchio Stato, corrodeva l'antica economia, guidato da istinti sempre più ciechi via che si versavano nel movimento gruppi elevati nella gerarchia intellettuale. E chi, nel gretto spirito di categoria, nell'"apoliticità" confessata e bandita dei sindacati majorum gentium, avrebbe potuto riconoscer la squisita sentimentalità politica delle prime sollevazioni plebee? E davvero la rivoluzione creava un'etica nuova; ma nuova precisamente contro alla morale ispiratrice del socialismo: – il sentimento del privilegio, la morale dei più forti.

    Il socialismo realistico della Confederazione Generale del Lavoro, nelle sue manifestazioni letterarie, prendeva qua e là dai testi antichi e nuovi dei sindacalismo, ma l'istinto dei suoi capi aderiva ben altrimenti alla realtà. Scettici, per esperienza, questi capi, sull'attitudine del sindacato economico accreavano nuova economia, preferivano considerarlo come una aggregazione di privilegiati, dirigendo il loro sforzo politico a porre le élites operaie a parte dei privilegi dei gruppi capitalistici; diffidenti delle promesse di un novum jus, indirizzavano le riforme giuridiche a conseguire una lenta sproporzione a beneficio di minoranze operaie, le quali non desideravano altro che di lasciarsi addietro le moltitudini lente e fameliche (Nord e Sud), per godere in pace i frutti delle loro rapide conquiste. Teorizzino gli accademici e le birbe dei basso impero democratico sul governo dei più (9).





    A noi giova rilevare il momento nel quale il Partito Socialista, senza proporre esplicitamente il problema, ma mettendo in opera inibizioni

    e restrizioni sempre più rigorose, limita il suo proselitismo politico; allontana cioè le masse dall'iniziazione culturale e politica del socialismo, e la caccia verso la coscrizione obbligatoria dei sindacati, per riaverle poi, in più salda mano, sotto i vincoli d'un patto di alleanza fra partito e Confederazione. Questo sistema non è stato scevro di pericoli per la compaginazione politica del partito; la nuda praxis sindacale ha alimentato le tendenze tradunioniste da una parte, non meno minacciose, dal lato opposto, le iniziative autonomistiche rivoluzionarie delle masse respingenti la mediazione dei politicanti. Ma alla fine il patto d'alleanza fra Partito Socialista e Confederazione del Lavoro è stato un capolavoro di costruzione gerarchica congegnato dall'istinto delle nuove aristocrazie operaie.

    L'organizzazione politica del partito socialista di fronte alle organizzazioni di resistenza e alle organizzazioni cooperative, ha sempre rappresentato una piccola minoranza; non solo, ma per il sistema di captazione degli aderenti, si è ognora più rigidamente definita come il collegio proprio dei dirigenti di fronte al corpus dei dominati.

    E' noto che le cariche politiche maggiori e minori, il jus honorum, erano riservati, per precisa statuizione, agli inscritti nel partito; per una consuetudine rigorosa, se non per uguale precetto, anche i gradi gerarchici delle corporazioni di resistenza, gli uffici e le prebende delle organizzazioni cooperative spettavano agli stessi inscritti, il cui dominio nel tempo stesso, era garantito dalle forme statutarie interne di queste corporazioni, dove praticamente si faceva venir meno ogni potere della assemblee, si sostituiva apertamente al sistema delle rappresentanze dirette una graduazione gerarchica di fiduciari.

    I dirigenti socialisti delle organizzazioni operaie studiavano di rappresentare il patto come il pegno dell'assistenza e delle guarentigie politiche che il partito dava alle rivendicazioni di classe; e infatti il partito socialista non ha mai mancato formalmente a questa obbligazione, ma il jus belli et pacis (ordine di sciopero e risoluzione dei conflitti operai) spettava agli organi politici del partito, il quale manovrava le massa a suo talento, vigile all'occasione per stroncare ogni loro autonoma iniziativa.

    Patto d'alleanza dunque, si, ma foedus eniquum nel vero senso della parola, per il quale si sarebbe tentati di tradurre alla lettera le formule romane delle impari alleanze (10).

    Infine è da notare la scarsa cura che i dirigenti politici prendevano per diffondere fra gli aderenti alle leghe e alle cooperative i dogmi e le credenze elevate del socialismo: "en Trace – dice Montaigne – le roy estoit distingué de son peuple d'une plaisante maniére et bien rencherie; il avoit une religion à part, un dieu tout à luy, qu'il n'appartenoit à ses subiects d'adorer" (11).

    Fra i coscritti delle organizzazioni economiche e di resistenza, i capi preferivano sostituire all'umanismo della aristocrazia socialista, un culto materialistico degli interessi di categoria, per cui anche il concetto così spesso richiamato della solidarietà proletaria, si riduceva uno scambio di promesse, a un do ut des fra i vari gruppi operai.

    I piani di trasformazione politico-costituzionale tracciati e in parte costruiti dai dirigenti operai, nel periodo immediatamente succeduto alla guerra, con al sommo il trasferimento di poteri legislativi alle rappresentanze professionali, alla base l'erezione di organi elementari del nuovo Stato attraverso i consigli di azienda e il controllo sindacale, non facevano che modellare la società politica della nazione a perfetta somiglianza dei rapporti che regolavano dualisticamente le organizzazioni volontarie economiche e politiche del proletariato, del che abbiamo altrove sufficientemente discorso (12).

    Ora noi abbiamo veduto questi condottieri improvvisamente abbattuti sull'orlo delle posizioni espugnate; e pare che il loro ironico destino, il compito loro, sia stato quello soltanto di educare (o diseducare), le masse perché servissero più prone ai nuovi venuti.

    Sicuro che, riposando gli occhi dal barbaglio degli avvenimenti, scorgiamo molte ragioni intrinseche di decadenza delle élites socialistiche; una delle principali si riferisce appunto alla loro interna circolazione, improvvisamente alterata dal tumultuario proselitismo politico dopo la guerra. Veramente, le limitazioni e i freni accuratamente studiati e messi in opera, del partito per la selezione dei suoi adepti, divennero improvvisamente inefficaci; i sospetti contro "i socialisti di guerra" sorsero dalla prima ora, infine, in tutte le grandi secessioni che hanno diminuito e rotto la formazione del partito, è sempre presente ed operoso l’istinto del patriziato socialista che ricerca le antiche limitazioni. Più a fondo vi ha poi una ragione psicologica; il dissidio evidente fra i motivi intimi, oligarchici e aristocratici, dell'azione politica del partito, e la necessità pratica di far il massimo conto dei moventi d'indisciplina e di disordinata autarchia delle masse accorrenti ai suoi ordini.

    Ciò non ostante l'aspetto affascinante della sconfitta socialista è sempre quello di una catastrofe provocata da un assalto esteriore, impetuoso e corrusco; insomma quella potenza è caduta in un giorno come Ninive, mentre alla vigilia pareva piuttosto di dover prevedere la sorte di Bisanzio, una "putredine dorata"; questo ci guardi dalle teorizzazioni sociologiche della circolazione delle aristocrazie.





    Il rapporto di discendenza fra il socialismo o il fascismo è inquietamente sentito e variamente definito dagli intelligenti del partito vincitore, e non potrebbe avvenire diversamente, dato che per i più si tratta di fare delle autobiografie. Comunque, sia per l'interventismo socialista in alcuni casi, sia per il sindacalismo sorelliano in molti altri, sia per altre vie sentimentali e culturali un legame genealogico c'è sempre (13).

    "Il fascismo dopo aver vinto la battaglia di difesa della Patria sta iniziandone la ricostruzione sindacalista" (14).

    Se "in queste aspirazioni che vanno elaborandosi sotto la spinta degli interessi contrastanti e della necessità di poggiarsi sulle masse, senza spingerle tuttavia contro le aristocrazie dirigenti, non fossero, come pare all’Einaudi, che "ricordi e balenii di quelle dottrine di organizzazione della società di quelle gerarchie sociali che Saint-Simon e Comte ed altri posero a fondamento di quel socialismo costruttivo che i marxisti deridono come utopistico" (15), non sarebbe che una curiosa coincidenza. Il fatto e che queste regole e discipline si traducono in organismi già sistemati ideologicamente del processo di classificazione promosso dal socialismo, già in parte fondati in istituti giuridici positivi. Quella posizione di "centro", che all’ultimo congresso di Napoli, il Grandi ha definito propria del fascismo, determinata "dallo sviluppo della sua attività sindacale che veniva trasformandone sostanzialmente la fisionomia primitiva di minoranza pugnace", presuppone e mantiene, un avvicinamento e una collaborazione (fuor dal senso politico) tra capitalisti, classi medie e operaie, continua cioè quella che è stata, in fondo, l’ultima e positiva operazione storica della democrazia socialista.

    Ma il quid novum del fascismo sarebbe nel poter svelare la dottrina ermetica delle aristocrazie sindacali proclamandole schiettamente i motivi e le aspirazioni gerarchiche, nel potere insegnare ed imporre, senza transazioni verbale e pratiche con gli impulsi autonomistici delle masse, una obbedienza e una subordinazione che ha già fermamente esperimentato nelle proprie file; è così è che egli crede di poter affrontare il suo compito superiore di "far aderire le masse alle stato Nazionale" (16).

    Delle due grandi esperienze psicologiche della guerra, l'autarchia e l'obbedienza, la democrazia avrebbe male utilizzato la prima, il fascismo bene la seconda; certo, è che anche l’altra lezione continua. Far coinciderci 1e due esperienze è la promessa che tutti i partiti, o, tuta gli attori della politica solitamente fanno agli altri e a loro stessi: – si coelum digito tetigeris…

IV.

    La storta narrata sembra il prodotto di una azione cieca e fatale, "si direbbe – ripigliando il paragone del Ferrari – che tutto cede a leggi esclusivamente fisiche ".

    Quel che preme è sapere quale governo la nuova classe dirigente farà dei soggiogati; – problemi soggettivi, dunque, che s'impongono alla coscienza dei vincitori, problemi obiettivi, di obbedienza, di adesione, di capacità di adattamento e di trasformazione, delle masse. Altrimenti il tutto non sarebbe che "prendere una cosa qua e metterla là ", come, secondo dice Marco Aurelio, fa la natura.

    Uno di questi problemi è stato affrontato dal Prato nella rivista di cultura del fascismo, uno dei principali, e quello precisamente che attiene al tema del nostro discorso: – "monopolio o concorrenza sindacale?" (17).

    Certamente il Prato presta al fascismo, più di quello che non ne prenda. La comprensione del movimento ha generato nell'osservatore simpatia, e lo ha indirizzato a dar consigli: compito politico, piuttosto che speculativo. Non è strano perciò che anche uno storico di tanta accortezza faccia soverchia credenza ai "postulati programmatici del partito" proclamati e banditi nei congressi e nelle allocuzioni al popolo, i quali segnerebbero la "decisa negazione del socialismo di Stato". I principi del liberalismo non hanno cessato d'essere solennemente proclamati dai politici di ieri, nel mentre davano mano alla demolizione degli istituti fondamentali dello Stato e dell'economia liberale. Frettolosa e ottimista del pari è l'affermazione che la pratica dei fasci risponda, meno qualche caso, alla teoria. Più sotto, il Prato cita un caso di Siena, nel quale si scorgono i fascisti a ricorrere al sistema anti-economico dei socialisti imponendo a palliativo della disoccupazione agraria, il minimo di mano d'opera". Forse alla data dello scritto del Prato non erano noti episodi più gravi che furono rivelati dall'Einaudi nel "Corriere della Sera", con maggior inquietudine quanto era minore l'ottimismo dell'osservatore. Infine la testimonianza più importante, secondo il Prato, della pratica liberale del fascismo, "l'intervento emancipatore onde l'annoso problema dei porti fu ricondotto a semplicità di termini che consente soluzioni non subordinate a presupposti di privilegi intangibili" non sembra decisiva se nelle discussioni seguite immediatamente, alla débacle delle antiche oligarchie portuali, i fascisti hanno accettato, ovunque e particolarmente a Genova, senza opposizione, il concetto del lavoro arruolato la sostanza dell'antico regime (18).





    Non dunque da un punto di vista "storico" si pone il Prato quando considera l'antiliberalismo dei fascisti come un "errore tattico", e i procedimenti del proselitismo fascista come un "pericolo". Bisognerebbe dimostrare che il fascismo, anche all'infuori di queste forme di propaganda, avrebbe potuto avere 1’ eguale fortuna, il che non è dimostrabile; vedere se, al, contrario, l'antiliberalismo e la tattica sindacale, non rappresentino il fascismo nella sua realtà e nella sua razionalità storica.

    Ciò premesso, tutto quanto abbiamo detto qui ad altrove, e ciò che stiamo per dire, suffraga modestamente la proposizione storica del Prato, di una ineluttabile disintegrazione della unità sindacale, per cui le organizzazioni operaie siano incessantemente ricondotte ad agire esse stesse come organi di concorrenza.

    Questa disintegrazione si scopre con tanta evidenza nei fatti, da smentire ogni contraria deduzione e in particolare quelle che il Cabiati ha tentato, col solito acume, di rilevare dalle innegabili tendenze unitarie del movimento sindacale. Dice il Cabiati: – "l'organizzazione per raggiungere i suoi intenti non può che essere unica: un sindacato. Perché se in uno stesso mercato e per uno stesso mestiere esistessero più organizzazioni in concorrenza fra di loro, ciò equivarrebbe a ritornare, al sistema del cosiddetto lavoro libero che è poi nella realtà la libera schiavitù, per la maggior gloria del capitalismo" (19)

    Tutto l'artificio e nella conclusione ironica del discorso, efficace, dal punto di vista dell'eloquenza, quanto il discorso è rivolto a persone a cui la frase: "a maggior gloria, del capitalismo" produce un senso sgradevole: ma uno potrebbe sostituire alla parola "schiavitù" la parola "gerarchia" e pronunciare il "gloria" con entusiasmo invece che con dispetto. Chi dice che il "capitalismo" non possa aggiungere nuove glorie alle sue glorie antiche?

    La verità è che l'infrangimento della pretesa legge dell'unità sindacale è il risultato di una gerarchia di sindacati che si stabilisce autonomamente, in ragione della forza di decisione che, per circostanze indominabili intrinseche e estrinseche, uno raggiunge di fronte all'altro, per cui la pratica sindacale, in breve, è impotente alla pari della pratica politica democratica, a raggiungere il requisito essenziale della unità, l'eguaglianza; – come, un sindacato di ferrovieri può essere pareggiato a una corporazione di portinai, se questa equivalenza non è imposta da una forza estranea allo stesso movimento sindacale, cioè da una forza politica?

    Questa disintegrazione dell'unità sindacale, nella quale crediamo con egual fede del Prato, è in sostanza, per noi, il risultato spontaneo della dialettica intima del movimento stesso, più che l'effetto dell'azione fascista, od in genere di forze estranee al movimento operaio; nel senso che i sindacati, scindendosi e classificandosi in gerarchie di sindacati deboli e forti, ripropongono ineluttabilmente a loro stessi i problemi dell'economia e del diritto liberale.

    Anzi questa ci sembra la sola giustificazione sub specie aeternitatis della organizzazione di classe.

    Volendo ora assumere il problema come specifico problema fascista, non è tanto da speculare sulla possibilità che i capi accettino questo o quel consiglio – in egual posizione di storici e di economisti, altri sollecitano, a differenza del Prato, soluzioni di "sinistra" (20) – quanto su fatti obiettivi, fatti anche intendiamo principalmente dello spirito umano, sempre debolmente commossi dalle iniziative dei dirigenti politici.

    Le teorizzazioni sul "governo dei pochi", sullo "stato organico", sulla "religione dello Stato", ci dicono soltanto che ci sono dei filosofi, sia detto senza malizia, i quali offrono ai vincitori una filosofia (21). Ma una pura vittoria logica sul "governo dei più", sullo "Stato contrattuale" e via dicendo, non sarebbe se mai, che il principio d'una erudizione aristocratica.

    "L'orgia dell'indisciplina è cessata, gli entusiasmi per i miti sociali e democratici sono finiti. La vita torna all'individuo. Una ripresa classica è in atto. L'egualitarismo democratico anonimo e grigio, che aveva bandito ogni colore e appiattito ogni personalità, sta per morire. Nuove aristocrazie sorgono: ora che si è dimostrato come egualmente le masse non possano essere protagoniste della storia, ma strumenti della storia" (22). E sia. Ma anche quella mano di uomini del parlamento, della burocrazia, delle grandi clientele dello Stato capitalistiche e operaie, che faceva ieri la politica "anonima e grigia" della democrazia, era un governo di pochi, era una aristocrazia. L'"indisciplina" che una tal politica alimentava era la disciplina utile e necessaria a quei "protagonisti della storia" per impugnare gli "strumenti della storia". Tutto si ridurrebbe a una gestione di vocaboli. Ma la critica liberale combatteva quel gruppo, non perché non fosse un'aristocrazia, ma perché era un'aristocrazia politica soverchiante l'attività privatistica dei migliori mentre il concetto liberale di una aristocrazia è quello d'una cernita perpetuamente suscitata e rinnovellata dal gioco delle concorrenze e delle iniziative private.





    Or dunque, la vera domanda che, dal punto di vista liberale, deve farsi al fascismo è questa: se voglia essere e sia una aristocrazia politica dominante l'economia nazionale attraverso gli organi politici ed amministrativi vecchi, nuovi e futuri, o se sia pronto ad annientarsi come minoranza conquistatrice per ricreare le condizioni sociali e economiche nelle quali una nuova aristocrazia possa aver vita.

    Tenteremo di rispondere, per altri, a questa domanda, tenendoci a due indirizzi principali dell'azione e del metodo fascista, con l'intento non già di fare un pronostico lontano, il quale crediamo finora

    in tutto dall'accorger nostro scisso

    ma di determinare, quanto si può imparzialmente, la posizione del fascismo all'inizio del suo esperimento di governo.

    A). I delicati problemi che il fascismo, divenuto "Stato fascista", incontra rispetto ai suoi aderenti si rivelano in tre aspetti: rapporti col partito, con lo "squadrismo e con i sindacati nazionali.

    Tralasciamo i primi due che non attengono al nostro argomento e fermiamoci sul terzo.

    I sindacati nazionali costituiscono, secondo recenti dichiarazioni dei capi una massa di circa un milione di lavoratori organizzati: il che equivale alla forza numerica raggiunta dalla Confederazione Generale del Lavoro prima del reclutamento eccezionale del periodo rivoluzionario, la cui influenza fu l'unica causa del sorgere e del progredire delle forme protettive nell'economia e nella legislazione avanti la guerra. La sostituzione dei miti nazionali ai miti internazionali nelle nuove corporazioni operaie, avrà ed ha conseguenze indissimulabili sotto l'aspetto politico, ma non contrasta, anzi sotto certi riguardi favorisce, le tendenze monopolistiche degli organizzati. E il puro dato numerico, qui assunto a criterio di valutazione, è meno empirico di quel che pare, se si considera che il seducente quadro del Prato, nel quale le corporazioni fasciste sono rappresentate come operanti a spezzare con continua agilità il "blocco monopolistico" delle organizzazioni rosse, definisce tipicamente un'azione di minoranza (23). Presuppone cioè la permanenza del blocco contrario; ed infatti logicamente il Prato è costretto a dare credito alla profezia del Rigola che la lotta e le violenze siano per stringere intorno alle vecchie organizzazioni una compagine più densa e più agguerrita di militi. Ma 1o spostamento del numero infirma a rigore questa previsione e d'altra parte il contegno dei dirigenti delle organizzazioni cooperative e sindacali vecchio stile, la loro riacquistata indipendenza nel campo politico, fanno scemare la probabilità della lotta feconda intravista dal Prato. Vero è che si potrebbe prevedere (cosa, non so se al Prato, a me certo indifferente) uno scambio di parti, cioè che le minoranze rivoluzionarie agissero come elementi disintegratori dell'unità sindacale, contro le organizzazioni fasciste divenute maggioritarie: ma io sono in linea di fatto, ben dubbioso di questa profezia.

    In conclusione negata l'unità sindacale, come "legge", rimane la spinta verso l'unità, come una tendenza sempre operosa negli aggruppamenti sindacali, e perciò il compito dei dirigenti fascisti (supposto che essi siano chiaramente assistiti da una ferrea ispirazione liberale, sarebbe quello di provocare incessantemente nel seno delle organizzazioni fasciste e non fasciste, un perpetuo disintegramento ed affrontamento di gruppi, compito che non può essere assunto da alcuno se non quando sorgano e vivano nelle organizzazioni operaie iniziative ed esperienze autonome. Il caso in sé, dunque, prescindendo dal modo e dall'occasione di proporlo, come caso fascista, o come caso antifascista, si risolve, nel più alto senso, in un problema dello spirito.

    B). Lo "Stato fascista" pel modo come è sorto, per le sue proclamazioni, per la sua logica, non può affidarsi alla sorte di un semplice governo parlamentare, non solo di fronte alla Camera attuale, questo è chiaro, ma anche di fronte all'istituto in sé stesso ed alla potestà comiziale da cui i parlamenti hanno origine.

    Per spiegare l'attività politica e legislativa della élite operaia nell'ultimo periodo, dice il Prato, che questa, consapevole dell'incerta stabilità delle conquiste ottenute, corse ai ripari, cercando di consolidarle entro riforme giuridiche e costituzionali. Ora il caso del fascismo è identico di fronte alla uguale incertezza Esso può consolidare le sue conquiste con due mezzi: rinnovare e rafforzare il potere di vecchi istituti permanenti dello Stato, già indeboliti e menomati dal prevalere del parlamento; o trasferire in parte il potere e le competenze di questo di organi nuovi. Probabilmente, le esigenze pratiche suggeriranno allo Stato fascista l'uno e l'altro espediente, la reazione e la rivoluzione insieme, per usare parole di più comune apprendimento.

    "Il popolo italiano – ha detto l’on. Mussolini – ha scavalcato un ministero e si è dato un governo al di fuori, al di sopra; è contro ogni designazione del Parlamento" (24).





    Questi sembrerebbero oasi e mezzi eccezionali dopo di che il governo parlamentare continuerebbe a vivere secondo le sue tradizioni. Ma l’on. Mussolini, nel dipinger la sua salita al potere come un atto rivoluzionario, si è compiaciuto, secondo il suo gusto, di un solo aspetto della cosa; l'altro aspetto è che noi abbiamo ora in Italia, per effetto del colpo di Stato fascista, formalmente un governo fiduciario del Principe, di fronte al quale la funzione dell’assemblea è pura funzione di controllo. Duri o no questo è un cambiamento di costituzione. L’on. Mussolini poteva però essere più indulgente coni i "melanconici zelatori del supercostituzionalismo", i quali dopo tutto non possono non attestargli che il suo è, nel senso del1a più pura ortodossia, salvo il modo d'acquisto, un governo statutario. Vuol dire che soltanto per una consuetudo contra legem, il governo parlamentare ha vissuto in Italia; questo faccia accorti coloro che lo rimpiangono della sua debolezza.

    Insieme con il potere sovrano si è rafforzato per evidente conseguenza, l'altro dei grandi istituti costituzionali extra – elettivi, il Senato, cosa la quale si era già avvertita da tempo, prima ancora che il Presidente del Consiglio ne facesse la proclamazione solenne nella giornata del 16 novembre: – "Ho la sicura coscienza di poter affermare che considero il Senato come uno dei punti fermi della Nazione; considero il Senato non come un'istituzione superflua, secondo certe vedute fantastiche di una piccola democrazia, considero invece il Senato, come una forza dello Stato, come una riserva dello Stato, come un organo necessario per la giusta e oculata amministrazione dello Stato".

    Ma il fascismo nella sua particolare sensibilità di partito di moltitudine, non può non avvertire il pericolo che incontrerebbe uno "Stato fascista" poggiato prevalentemente sopra istituti extra – elettivi, di fronte alla resurrezione di una "mito" del parlamentarismo, quando questo, purificato dalla mortificazione e dalla penitenza, fosse riproposto alle moltitudini come l'espressione del loro potere. I primi scontri fra Gabinetto e Parlamento, indicano già chiaramente che la parte soccombente si affida con raffinata avvedutezza alla possibilità di questa rivalutazione.

    Ora, se la "rivoluzione fascista" ha un senso e una ragione, li ha e non li può avere altrimenti, che nel poter appagare quella insopprimibile esigenza delle masse con un processo nettamente antiparlamentare. E appunto la "Ricostruzione sindacale" sollecitata da una buona parte dei capi del fascismo (25) sopra l’indirizzo politico che caratterizza gli abbozzi delle deposte aristocrazie sindacali, non può restaurare (in senso subiettivo, è quel che conta) il sentimento della "sovranità popolare" così logoro e degradato dall’esercizio dell'antico potere comiziale? E l'irrevocabile carattere gerarchico di queste costruzioni, mentre soddisfa le esigenze delle élites vittoriose, non assicura insieme allo Stato fascista un appoggio più fermo e duraturo che non la capricciosa mobilità delle assisi elettorali?

    Sono interrogazioni alle quali non si risponde se non con un giudizio di previsione sugli uomini e sulla loro capacità; il che non è di nostro gusto. Noi ravvisiamo nel complesso delle osservazioni A e B un giuoco di forze e lo stimiamo sotto l'aspetto morfologico, lasciando all'etica e all'economia gli apprezzamenti di qualità. Ma l'osservazione è sufficiente per delineare il chiaroscuro della posizione iniziale del fascismo, situazione di equilibrio e di "centro" secondo la già ricordata espressione dell'onor. Grandi, lungi dalle audacie di un liberalismo integrale come da mistici assolutismi, in contraddizione mirabile coi suoi procedimenti di lotta e di conquista, col suo linguaggio e con 1e sue teorizzazioni più ostentate; posizione la quale, mentre esclude, salvo una nuova rivoluzione, che il fascismo sia per inaugurare un'epoca eroica del capitalismo, lo avvicina ai sentimenti, alle aspirazioni, agli interessi dei ceti medi (26).

    Da ciò quella particolare concezione unitaria del fascismo, che risolve in un tecnicismo ottimista di "gruppi di competenza" il contrasto delle classi (27), ottimismo a cui l’Einaudi oppone dubbioso, nel campo spirituale l'esperienza della Riforma e nel campo economico la storia dell'industrialismo.

    "Io dico che coloro che dannano i tumulti in fra i nobili e la plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima cagione di tener libera Roma; e che considerino più à romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano che ai buoni effetti che quelli partorivano; e che non considerino come è sono in ogni repubblica duoi umori, quello del popolo e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà nascono, dalla disunione loro..." (28)

    In questa breve sentenza, è quel tanto che, dell'abusato concetto della lotta di classe, è da tenere per verità, il cui lume non può mai disgiungersi da una spassionata osservazione storica.


(1) Le Rivoluzioni d'Italia, I, p. 69.
(4) Corbino, Riconoscimento dei Sindacati e loro funzione nella produzione, nell'"Unità", 1920, 16.
(5) L'Unità, 1920, 24.
(6) Cfr. Gobetti, Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale nella Rivoluz. lib., I, pp. 25-27; contra, Ansaldo, In margine al processo di Torino, ivi, pp. 21-22.
(10) Cfr; Bonfante Storia del D. Romano, ed 1909, p. 262 e sgg.
(13) Cfr. M. A. Levi, Genealogie fasciste, nel "Popolo d'Italia"; 9 nov. 1922.
(14) M. Rocca, L'errore di Sorel in Gerarchia, 1, p. 366.
(18) E' noto che i fascisti accettando il sistema del lavoro arruolato, han immaginato di introdurvi la concorrenza con la pluralità delle cooperative: "vedremo – scriveva il Corbino – come sarà conciliato il turno di lavoro con la creazione delle cooperative multiple, la cui conseguenza fondamentale è la soppressione del turno e la possibilità di far risorgere le vecchie squadre fisse". (Il por.o di Genova, nel Giornale degli Economisti, XXXIII (1922), vol. LXIII p. 459 in nota). E' anche escluso che negli ordinamenti portuali sollecitati dai fascisti la concorrenza fra le cooperative multiple si faccia sulle tariffe, si farà sulla "bontà al servizio"; il che è possibile soltanto quando le cooperative che istituiscono la concorrenza siano una minoranza; quando saranno maggioranza (evento che nel caso si può ritenere prossimo) agiranno monopolisticamente, come è nel loro istinto. Comunque, dice il citato autore: "occorre rivedere le tariffe tenendo conto soltanto della produttività media normale del lavoratore e senza preoccuparci del coefficiente di applicazione; se non si trascurerà questo coefficiente, l'unico risultato delle giornate d'agosto sarà quello di aver aumentato la mano d'opera che grava sul porto e per riflesso, d'aver fatto crescere il costo delle operazioni". (loc. cit).
(19) La Stampa, 10 agosto 1922.
(20) Lanzillo, Le rivoluzioni del dopo guerra ed. "Il Solco" 1922.
(21) Giuseppe Rensi, offre un anti - idealismo: "l'idealismo è antitaliano e antifascista" (Gerarchia, I, p. 70-76); contra: Grandi: –"il fascismo che nella sua estrinsecazione immediata può apparire ai molti un fenomeno di passione nazionale esasperata, è destinato invece, trasformandosi in movimento politico, a riassumere in sé i principi fondamentali che diedero vita ai tre accennati movimenti idealistici dell'anteguerra (Modernismo, Sindacalismo o Nazionalismo)" op. cit. p. 67); più esplicitamente Pellizzi (Idealismo e Fascismo in Gerarchia, I, p. 574) – la scuola idealista italiana "é in modo inconfondibile e esclusivo, per ragioni ideali e per ragioni nettamente storiche, la nostra filosofia".
(23) Così anche il Preziosi, quando diceva al convegno della Corporazione marinara: " noi vogliamo che le nostre cooperative di mano in mano che sorgono, si mettano nelle condizioni di potere, attraverso la libera concorrenza, avere, non una posizione di privilegio ma una posizione di battaglia", sembrava prevedere, e desiderare, un progresso cauto e moderato delle corporazioni fasciste, a cui una più tenace resistenza delle organizzazioni avversarie sarebbe riuscita fruttuosa.
(25) Il comm. Michele Bianchi, segretario generale del Ministero dell'Interno – stampava il Popolo d'Italia del 24 dicembre 1922 – ha consentito a rendere pubblica una conversazione amichevole, che per l'importanza degli argomenti assume carattere di intervista di alto interesse politico.
Lo Stato – secondo il pensiero di Michele Branchi – va ridotto alle sue funzioni essenziali di ordine politico e giuridico. Esso deve investire di capacità e di responsabilità le associazioni, conferendo anche alle Corporazioni professionali ed economiche diritto di elettorato al Corpo dei Consigli Tecnici Nazionali. Per conseguenza debbono essere limitati i poteri e le funzioni attualmente attribuite al Parlamento. Di competenza del Parlamento i problemi che riguardano l'individuo come cittadino dello Stato e lo Stato come organo di realizzazione e di tutela dei supremi interessi nazionali, di competenza dei Consigli Tecnici Nazionali i problemi che si riferiscono alle varie forme di attività degli individui nella loro qualità di produttori. Con l'introduzione di questa nuova forma di rappresentanza, quei cittadini che danno una partecipazione attiva alla vita sociale, avrebbero doppio voto: il voto politico, comune a tutti i maggiorenti, e il voto di categoria della attività produttiva, dal quale sono esclusi i pesi morti".
Il compito della prossima legislatura, cioè della futura Camera, a maggioranza fascista, sarebbe appunto, secondo il Bianchi, l'attuazione di questa riforma costituzionale.
La concezione mediocratica del fascismo reagisce anche sulla sua politica estera nel senso di moderarne il nazionalismo originale (Cfr. Lanzillo, Op. cit.).
(27) Un bel saggio di questo genere di ottimismo leggesi in Gerarchia (I. pp. 575-83), dove M. Govi, ripropone, in coerenza alle finalità del fascismo, gli identici schemi di riforma costituzionale già elaborati dalla democrazia socialista sul tramonto del suo regno. Istituzione di Consigli legislativi speciali per ogni ramo di legislazione, costituiti esclusivamente "di scienziati specialisti e di periti per pratica esperienza" fiancheggiati da "uffici di legislazione" i quali avrebbero questo facilissimo incarico: "mantenere il contatto fra la scienza politica e la realtà sociale da un lato, e l'opera legislativa dall'altro, in modo che questa fosse sempre conforme a quella".
I Consigli legislativi sarebbero poi all'occorrenza integrati con le rappresentanze paritetiche di "tutte le classi di produttori" il cui ufficio non sarebbe più, a quanto pare, quello di creare dei beni economici, ma di far leggi.
L'A. sa il nome e l'indirizzo di questi scienziati specialisti e periti per pratica esperienza, e giura che ve n'ha dovizia. Gli effetti del recipe, immediati e stupendi: – "come al regime puramente monarchico successe quello democratico, parlamentare e burocratico insieme, a questo succederebbe un nuovo regime che si potrebbe dire aristocratico, che però non sarebbe un'aristocrazia della nascita, del censo, o della potenza economica, né una vaga aristocrazia dell'ingegno o della cultura, bensì quella della attitudine specifica, data e garantita dalla preparazione scientifica e dall'esperienza pratica. Sarebbe un regime che si potrebbe quindi propriamente dire epistemarchico (dominio della scienza) e come tale, il solo adatto a promuovere il progresso, ad assicurare la felicità del popolo, a porre la nostra Nazione un'altra volta alla testa della civiltà".
(28) Macchiavelli, Discorsi sopra le prime deche di Tito Livio, I, 4.