LA MAFIA

    Ci sono problemi che non si risolvono mai quando sono collocati in un clima empirico ed epifenomenico: la descrizione e l'esemplificazione ne annebbiano la sagoma essenziale, rendono assai mobile e spostabile il punto di vista e risolvono la indagine in un virtuosismo aneddotico tanto più repellente al piano della storia, quanto più la storia si rende esigenza centrale della indagine.

    Uno di questi problemi tipici è il problema della mafia in Sicilia: tanto che si intenda come un capitolo della storia degli istituti giudiziari, quanto che si immerga in un clima epico-lirico.

    La mafia, mi pare che sia necessario affermarlo liminarmente, non è né può essere considerata come un aggregato spontaneo o riflesso dell'istinto a delinquere, istinto universale che in Sicilia assume questa sua particolare forma ed organizzazione, né come una forma animi in cui si condensino ed equilibrino gli istinti più generosi e più liberi della razza.

    Fuori dalla tragedia e dall'idillio ci si può intendere sopra un comune terreno storico, evitando con pari cautela l'antropologia e la poesia.

    Tutti gli scrittori (e non sono veramente molti) che hanno preso in esame il problema della mafia sono stati guidati da uno dei due pregiudizi enunciati e ne son venute fuori due mafie chiuse nei loro limiti, incomunicabili e contraddittorie: una mafia da romanzo, con le sue tradizioni esoteriche, coi suoi misteri, coi suoi dogmi, coi suoi istinti giuridici e giudiziari, col suo sistema di governo, una mafia che è il fiore concettuale e pratico dell'istinto isolano refrattario ad ogni sottomissione politica, tutto acceso da un ideale etico di giustizia e di difesa dal sopruso e dalla soverchieria, la mafia resterebbe nel cuore della razza siciliana come un principio superiore etico-giuridico necessariamente immanente, cioè intraducibile nelle forme morte dell'ordinaria e comune amministrazione.





    Errore gravissimo questo, che sposta minuto per minuto il criterio della valutazione e rende impossibile la intelligenza di quei motivi di ordine empirico che negano invariabilmente una così semplice e così seducente costruzione. Costruito il tipo del mafioso, come faremo a giustificare le sue irruzioni non eccezionali nei campi più bassi della vita animale: cupidigia, sanguinarietà, soverchieria, viltà, ecc.?

    Il mafioso da romanzo, purtroppo, non coincide con questa bassa pratica dell'uomo ex lege. E i teoreti della mafia-lirica sono costretti ad un sistema così frequente e così insistente di distinzioni e di discriminazioni fino a rilanciare il mafioso-tipo nel mito dal quale è sorto.

    C'è, è vero, in Sicilia uno stato d'animo astrattamente mafioso, cioè letterariamente mafioso, ma questo stato d'animo, risolto nell'esercizio personale del coraggio, del disinteresse, della violenza, si è sciolto in un opposto ridicolo: in Sicilia non tutti possono essere mafiosi solo che sentano questo impeto emozionale, ma sono mafiosi quelli che giuridicamente (questa parola è insostituibile!) lo sono. Il mafioso per sterile vocazione personale è destinato a cadere nella macchietta di Pasquale Ardichella, personaggio di un popolare dramma isolano (Li mafiusi di la vicaria), e cioè necessariamente attratto alla più ridicola illusione dell'esser mafioso ed alla negazione di ogni eroismo in spacconeria da burla. È l'ennesima incarnazione del miles gloriosus.

    Perché è necessario dire che non esiste né può esistere una mafia individuale; la mafia traduce un istinto sociale, è essa stessa organismo sociale. E la sua forza risiede tutta qua: ché non c'è il mafioso, come individuo, ma il mafioso, come dice il gergo, amico degli amici.





    Lo stesso brigantaggio - fenomeno che parecchi scrittori, non esclusi il FRANCHETTI ed il SONNINO, La Sicilia (Vallecchi ed., 1925, vol. I), hanno assai semplicemente legato al fenomeno della mafia - non è che fino ad un certo punto l'esercizio di un eroismo individuale. Il mafioso ha una assai limitata personalità umana: la sua virtù è la caricatura di una virtù stoica: non sentirsi mai disgiunto dall'organismo in cui si determina e vive, non presumere mai che la sua vita sia esclusivamente sua.

    I casi di mafiosi che, raggiunta una indipendenza economica con mezzi schiettamente sociali, vogliano acquistarsi una indipendenza assoluta dall'organismo in cui sono vissuti, non sono abbondanti, perché le sanzioni che ne derivano sono assai persuasive. Un esempio recente: il cav. X, ex-sindaco di un paese della Sicilia, pensò di ritirarsi a vita privata; si guadagnò parecchie tremende schioppettate a lupara; fu creduto e fu lasciato per morto; trasportato in condizioni assai gravi in una clinica privata, fu ancora oggetto di attentati a base di bombe; miracolosamente strappato alla morte, fa ora passi per rientrare nella società degli uomini d'onore.

    L'uomo d'onore è, in questo senso, un po' l'animale politico di aristotelica memoria.

    Or la mafia, come organismo tipicamente sociale, ha fatto nascere l'illusione e l'equivoco opposto a quello esaminato: ha creato l'altro mito della mafia come associazione a delinquere.





    Equivoco forse più pernicioso, perché ha messo lo Stato nella comoda convinzione che il problema della mafia in Sicilia non sia che una delle tante appendici del problema della pubblica sicurezza. Il problema della mafia e la sua risoluzione sono stati affidati alla intelligenza, alla perizia, alla solerzia del funzionario o del commissario straordinario più o meno tecnico che crederanno con assai buona fede che le previggenze statali (risoluzione del problema del latifondo, del problema dell'acqua, del problema della viabilità, del problema della disoccupazione, dello accattonaggio, ecc.) basteranno a risolvere automaticamente gli ingorghi pericolosi della mafia rurale e cittadina.

    Quante illusioni si annidino in una concezione di questo genere si è poi visto nell'atto dell'esecuzione: la buona volontà di questo o di quel prefetto, di questo o di quel questore vengono ad infrangersi dinanzi al minaccioso tabù politico. Si vive, allora, alla giornata: il prefetto Mori, in provincia di Trapani, ha mano libera contro la mafia, perché la mafia di Alcamo, Castelvetrano, Marsala e quella dell'Agro Ericino fanno capo al nasismo o ad altre clientele politiche in disgrazia dell'attuale regime. Ma contro chi si esercitò l'attività del Mori? con gli elementi epifenomenici della mafia, con gli elementi avventizi e strumentali. Il centro ed il motore è imperseguibile. Si rallenta l'attività dei rapinatori o degli abigeatari: ma la mafia non perde e non ha perduto gran che della sua potenza.

    Sonnecchia, per ora. Aspetta tempi migliori.

    In provincia di Palermo, invece, la mafia fiancheggia il regime: è un reciproco rapporto di quiescenza. Gli amici sonnecchiano per timore di peggio.

    La verità è che la mafia non è né fascista né antifascista per la semplice ragione che essa è apolitica.

    Forse nell'apoliticità della mafia è da ricercarsi il significato della mafia: ed in questo significato c'è il rimedio concreto alla sua scomparsa.





    La mafia non è né una forma animi, né un'associazione a delinquere: essa è l'innuclearsi e l'organizzarsi spontaneo di quello strato refrattario della popolazione siciliana, refrattario ad intendere le profonde ragioni dell'unità e della centralità dello Stato. La mafia vive fuori dello Stato perché non lo intende e non lo intende perché lo sente da sé lontano ed estraneo.

    C'è una nozione oscura ed approssimativa dello Stato come confluenza di valori etici e giuridici che non riesce ad adeguarsi con lo Stato in atto: il borghese o il contadino siciliano non intendono né possono intendere lo Stato se non nell'appariscente e mutevole prassi di governo. Il governo è nella sua mobilità continua sovranamente irrazionale: il contadino ha l'esperienza atavica della mobilità del governo e dei suoi difetti, sente che il governo è la volontà di una persona e sente pertanto che la persona che vuole non è la legge. Ha perduto la fede nella legge perché non tien fede alle persone, non intende lo Stato perché sente il governo. Di contro al doloroso scorrere delle dominazioni governative in Sicilia (romani, barbari, greci, arabi, normanni, tedeschi, francesi, spagnuoli, austriaci, borboni, italiani) si è spontaneamente costituito un nucleo organizzativo di Stato-morale. Non ha assunto mai forme chiare definitive, ma ha mantenuto sempre una efficienza reale ed un reale dominio.

    La mafia è l'istinto dello Stato; ed è naturalmente una, necessariamente, oscura pratica di governo.

    Il governo, questo o quel governo, rappresentano la legge fuori di noi. La mafia è la legge dentro di noi.

    Tra l'essere e il non essere non c'è equazione ma attività dialettica: il mafioso si sente, in buona fede, il custode della legge, l'interprete di un organismo giuridico, il mallevadore di una giustizia reale.





    Quello che pare a noi delittuoso ed arbitrario ha invece nella mafia una rigorosa logica ed ivi rigoroso sviluppo conseguenziale; la mafia è gerarchia, è ordine interno di Stato; questa gerarchia vigila sui limiti di un diritto di natura ed è massimo organismo etico e legislativo (esempi spiccati della legislazione mafiosa: a chi ti leva il pane levaci la vita; meglio una volta "aggiornare" (diventar pallido) che cento volte "arrossicare" (arrossire); difendi il tuo a torto e a diritto, ecc..).

    Lo scippo, la rapina, l'abigeato, la lettera di scrocco sono atti delittuosi quando non ubbidiscano ad una necessità amministrativa; la mafia impone le sue tasse e i suoi controlli, e li difende coattivamente coi suoi colpi di mano. Ha, si può dire, un assai rapido sistema procedurale; ma non per questo crede di esser fuori della giustizia.

    Al Tizio è stato sottratto ingiustamente alcunché, al Caio è stato fatto irragionevolmente un torto: chi ricorre, in questi casi, all'uomo d'onore è matematicamente sicuro d'esser reintegrato nel suo pieno diritto e chi ha commesso il torto la paga!

    I tribunali della mafia si sentono in questo senso depositari di un concetto eroico della giustizia fondato sul principio naturale del taglione: il biblico chi uccide muoia, trova la sua più rigorosa applicazione in confronto alle elusive ed evasive ferraggini procedurali e giudiziarie del governo esterno.





    Il governo esterno, lu cuvernu, è per il mafioso siciliano il massimo termine di arbitrio; ecco perché l'uomo d'onore che è così scrupoloso nell'adempimento di quelli che crede i suoi doveri, non piglia mai sul serio le funzioni dell'amministrazione e del controllo statale, ma ama eluderle, neutralizzarle, renderle, per quanto è possibile, inefficaci.

    Il contatto con lo Stato si impone dunque: ma si impone ab extra.

    Il mafioso conquista i Consigli comunali, quelli provinciali, le rappresentanze parlamentari non perché crede nello Stato che egli sente irrazionalmente greve sulle sue spalle, ma perché ha bisogno di neutralizzare la sua potenza, ha bisogno di sentirsi più libero che sia possibile nell'esplicazione del suo mandato reale.

    In questo senso il mafioso è apolitico: perché non intende né i partiti, né la dinamica politica delle ideologie. E non l'intende perché egli si sente sommamente politico.

    Questa mafia originariamente politica non si distrugge né con le crociate, né con le alleanze.

    Si distrugge in un senso positivo: attraverso una illuminata e chiaroveggente educazione politica.

    Nei paesi come il nostro, per far penetrare la nozione dello Stato è necessario che passino molti e molti anni; è necessario che l'unità d'Italia diventi una esperienza in atto.

    Bisogna risolvere la questione del Mezzogiorno.

    Bisogna creare, nel mafioso, la razionalità, cioè la necessità dello Stato.

PIETRO MIGNOSI.