Risorgimento

BALBO

    Cesare Balbo è uno dei teorici del moderatismo. Questa classificazione svela il carattere fondamentale dell'uomo nell'avversione istintiva ai tentativi mazziniani. Il senso positivo proprio al popolo piemontese è in lui dote centrale e predominante. Invano cerchereste nelle sue pagine qualcosa che attesti un lirismo sia pure sotterraneo e latente. Una qualunque affinità con Gioberti. Gli entusiasmi, i voli pindarici e via discorrendo, sono completamente estranei allo spirito balbiano. Il giobertismo della gioventù si deve considerare come effetto di uno stato d'animo fatale e transitorio. La stessa prosa irta, involuta, contorta, nella quale si avverte la volontà delle analisi che valgano poi a giustificare le sintesi e le conclusioni è prova palmare ed evidente di un temperamento alieno dagli slanci sentimentali e preoccupato sopratutto di trovare se stesso nella realtà storica. Ciò serve pure a mostrare il carattere del suo moderatismo. Il moderatismo nel Risorgimento rappresenta il punto di arrivo di una soluzione di continuità. Dal Rinascimento alla Controriforma ad esso è il medesimo processo che diviene e si attua. L'anima italiana priva del senso dei colori etici della personalità, tagliata fuori dal Concilio di Trento dalla vita europea al primo contatto con i tempi moderni, svela la sua incapacità democratica. Non ha la nozione degli inevitabili contrasti attraverso i quali la vita diviene, non percepisce d'istinto la tragicità della storia e si rifugia in sogni idilliaci, traduce l'Arcadia nel campo politico auspicando unioni e compromessi. Il moderatismo è la conseguenza di tale stato d'animo. In Balbo esso nasce invece dal culto verso la realtà, dall'attaccamento ai fatti, da una limitazione di orizzonti che non fa vedere da superiori punti di vista ideali, processi secolari e sbocchi rivoluzionari. L'esperienza della vita piemontese lo tiene prigioniero e rende goffi i tentativi di interpretazione filosofica a grandi linee, poiché essa adattandolo lentamente a sé ha spento o quasi i focolari metafisici o immaginativi ed ha plasmato il suo carattere a propria simiglianza.





    Nelle Speranze d'Italia queste osservazioni trovano riscontro e prova. Agli entusiasmi giobertiani allora non del tutto passati, egli reagisce con una premessa che vorrebbe essere l'indicazione di vie nuove da battere. Dice: "Niente sogni, niente utopie, niente progetti realizzabili a lunga scadenza. Qualora noi si intende far qualcosa di buono è necessario vedere che cosa si può fare nel corso della nostra vita e di conseguenza bandire le rosee illusioni". L'allusione contro Il Primato balza chiara ove si voglia pensare allo spirito dei tempi che vibrava all'unisono con quello di Gioberti. È l'osservazione degli avvenimenti storici, la nozione della multiformità delle vicende, della varietà dei conflitti religiosi, sociali e politici, che operano nello spirito del piemontese in tal guisa da fargli respingere a priori l'utopia neoguelfa. Questo fiammeggiare di visioni, di miti, attestante non volontà di lotta ma giubilo per un pacifico svolgersi dei fatti lontani, lo irrita in tal maniera da rendere in lui necessità interiore il porre la premessa disilluditrice senza eufemismi, con asprezza. Balbo non capisce questo sospirato primato. Poiché gli manca la potenza immaginativa del Gioberti e non sa sollevarsi sulle ali della fantasia, così da servirsi di dati storici per elaborare sogni d'artista, rimane estraneo allo spirito animatore del guelfismo. Il tono di vita del Piemonte (tutto preoccupato per le necessità del suo esistere, di mantenere attorno a sé l'equilibrio con destrezza diplomatica rafforzando d'altra parte la sua costituzione con iniziative economiche), dà alla sua natura il senso dell'attualità dei problemi da risolvere, per cui non viene compreso come il passato possa essere riproposto quale mèta dell'avvenire. L'idea animatrice della sua polemica in questo riguardo si può cogliere pensando a tali osservazioni. Qui Balbo, incapace per povertà di cultura di spostare sopra un terreno realistico il dibattito, è trascinato nello stesso piano metafisico del Gioberti. E dato che le grandi correnti del pensiero moderno non vivono nell'anima sua così da fargli tracciare sicuramente sintesi ideali, la confutazione viene basata unicamente sull'istinto e su intuizioni oscure e confuse.





    Ecco quanto egli afferma: "Tra le nazioni pagane e le nazioni cristiane vi è una grande differenza. Le prime sono a fondo statico. Le altre sono basate sul dinamismo". Ragione questa per cui le une ebbero un primato unico e si dissolsero mentre le seconde avendo un primato vario e trasmissibile vivono e prosperano. Ora l'Italia il suo primato l'ha avuto: quindi è assurdo parlare di ritorni in quanto il passato è la premessa di un diverso avvenire. La natura puramente generica di tali rilievi svela un filosofo della storia improvvisato. La percezione degli abissi fra paganesimo e cristianesimo, della inesauribilità di quest'ultimo rimane primordiale, non sa trovare elementi per concretizzarsi più decisamente e giungere ad impostazioni radicali e precise. Nel dinamismo, Balbo non sa vedere gli opposti creatori, le antitesi superate poi dalle sintesi rivoluzionarie, onde nello sforzo della costruzione affloscia e giunge al paradosso. Se nel Primato non si può sperare in che cosa dunque è lecito sperare? Nell'unità, forse? Anche questa ipotesi viene scartata. Lo studio del Medioevo con le lotte fra città e città lo rattrista talmente fino a fargli perdere l'adesione alla realtà. Onde è portato a credere che le divisioni regionali secolari sieno ostacoli insormontabili per una formazione nazionale. La deficienza di fede e di cultura quì seguita a limitare la visione, fa sconfinare nell'utopia. Balbo precipita in una posizione che non si può rilevare senza spunti d'ironia. Egli, partito in guerra contro i sogni degli utopisti, contro le illusioni diseducatrici del giobertismo, per le deficienze del carattere già illustrate, cade anche lui nell'astratto e nell'assurdo. Una visione storica dell'avvenire del Risorgimento è al di fuori delle sue possibilità, invero molto limitate. A questo proposito le doti profonde dello storico avrebbero dovuto essere accoppiate con la fede e con l'idealismo mazziniano. Si finisce, perciò, ineluttabilmente nel gioco di fantasia. Balbo si chiede: Quali sono le cose realizzabili immediatamente? L'indipendenza: ecco il punto su cui convergono le sue idee. Ottenuta questa si vedrà poi. E sostiene l'unione di papa, popolo e principi al fine di cacciare gli stranieri. E si infervora tanto in codesto suo progetto sino a pensare quali vantaggi potrà ogni Stato avere da una guerra con le finalità di sopra. La quistione in cui egli in riguardo non riesce a veder chiaro è quella dell'interessamento da destare nel regno di Napoli.





    Il territorio dello Stato Pontificio non può essere toccato. Quindi? Un lampo di genio e l'enimma viene risolto. La quistione d'Oriente e la costa africana. Se Napoli aiuterà il Piemonte questo lo aiuterà dopo nelle conquiste che vorrà fare per espandersi nel Mediterraneo. Chi non ricorda l'epigramma famoso:

E Balbo vuol che dai tedeschi lurchi
Liberar non ci possano che i turchi.

    Anche l'ironia popolare trova questa costruzione priva di fondamento e la demolisce prospettando gli estremi, senza pietà. L'aridità sentimentale non dando nessun calore all'utopia la fa cadere nel ridicolo. In sostanza quindi noi siamo a considerare un temperamento realistico che per deficienza di orizzonti finisce con l'almanaccare castelli in aria. La differenza con Gioberti sta in ciò: mentre questi fabbrica falsi miti sulla scorta delle facoltà liriche e immaginative, Balbo fabbrica progetti irrealizzabili puntando su dati di fatto. Ma egli non vedendo come l'unione di popolo, principi e papa, fosse una cosa da scartarsi a priori, non comprendendo come un'azione di popolo poteva sussistere solo contro principi e papa, non intendendo che mai il papa avrebbe potuto partecipare ad una guerra contro gli stranieri se non danneggiando se stesso, si mantiene nello identico piano del suo antagonista. Il realismo piemontese qui dunque fallisce perché ignaro della dialettica rivoluzionaria del mondo moderno e perché non nasce da elaborazioni originali e creatrici al medesimo tempo di alti osservatori ideali. Per riuscire esso dovrà ricercare se stesso più che nella storia o nella filosofia politica, nell'azione diretta sulla vita secondata dalla secolare esperienza diplomatica e da un'audacia profonda e basata sulla cognizione di elementi da dominare. Cavour nel '59 battendo moderati e mazziniani colla sua opera demiurgica e realizzatrice dimostrerà le vere possibilità della razza piemontese.

CARMELO PUGLIONISI.