DOPO PALERMO

    Questo saggio di un fascista sul processo unitario in Sicilia ci sembra il migliore commento alle elezioni di Palermo. Luca Pignato non è né il solito giovane esaltato fascista in buona fede, né il letterato italiano di tipo cinquecentesco pronto a fabbricare idee cortigiane, felice di servire al vincitore. In Sicilia io non ho trovato un altro giovane quadrato, maturo, di limpido carattere come lui. Dal fascismo non ha accettato canonicati e non ne accetterà. Nell'articolo che segue v'è un'impostazione politica rigorosa e salda che mi pare impossibile trovare in tutti i perdigiorno che si sono provati a fare i teorici del fascismo.

    L'analisi che offre Pignato del fenomeno Orlando e delle democrazie personali siciliane è definitiva; Rivoluzione Liberale è sempre stata precisa su questo argomento e ha combattuto Orlando e Di Cesarò con la stessa ferocia intransigente con cui combatte Mussolini. Nel novembre 1922 abbiamo dichiarato che il mondo di Giolitti, di Salandra, di Bonomi, doveva essere seppellito per sempre: l'abbiamo dichiarato quando il fascismo non sdegnava di trattare con essi.

    Sempre chi ha chiesto al fascismo di essere intransigente si é illuso. Anche oggi dietro Farinacci ci sono ancora Olivetti e Mazzini. Gli squadristi di Palermo che ci rappresenta Pignato lavorano per una politica oligarchica che ancora col dazio sul grano condanna il Mezzogiorno a un'agricoltura estensiva di rapina costretta tra due protezionismi. Nessun risorgimento può nascere da un fascio, da una coalizione di interessi contrastanti ed eterogenei accomodati con italiana retorica e diplomazia. Dove ci sono conciliazioni e transazioni, dove gli interessi non si contrastano nella libera lotta politica, sorgono in varie forme la mafia, la camorra, il brigantaggio.

    Il fascismo s'è individuato come sintesi ed esasperazione di uno storico regime italico giolittiano quando ha negato la lotta politica. Chi è nemico delle oligarchie, non può accettare l'unanimità, chi non vuole Orlando non può votare Tagliavia. È questo l'antifascismo che le elezioni di Palermo non hanno sconfitto, l'antifascismo di una minoranza che ha vinto e vince il fascismo tutti i giorni sul terreno delle idee.





IL PROCESSO UNITARIO IN SICILIA

    Non vi è forse regione italiana, nella quale si dibatta in forma viva seppur non esplicita, come in Sicilia, il conflitto tra la regione e l'unità. La vecchia antitesi Nord-Sud è uno degli aspetti di questa lotta non ancora sopita sostanzialmente e che notevoli divergenze economiche di tanto in tanto acuiscono. L'asprezza di qualche episodio - che ha avuto soltanto spiegazioni approssimative - e la fugacità quasi inverisimile delle sue risonanze dimostrano, ben più che il superamento della posizione, l'immaturità della coscienza dell'isola di fronte al problema. Ricordiamo quella vasta sommossa popolare nasiana, il cui sbocco elettorale fu una squisitissima astuzia delle classi intellettuali. Se le folle di Trapani, dei "castagnari" di Palermo e di Caltanissetta per citare i collegi conquistati da Nasi - avessero avuto possibilità di esprimere politicamente il loro oscuro risentimento, e non fossero state o ingannate o sviate con la forma legalitaria della rivolta, il problema d'un'autonomia regionale sarebbe stato posto con violenza, poiché esso era il reale contenuto della sommossa. La ragione è per la coscienza siciliana una realtà non soltanto geografica ma storica: il suo destino fu troppo e lungamente separato da quello della penisola, perché possa essere trascorso senza residui.

    Ci sono tradizioni e, in un certo senso, fissazioni, che nella loro stessa inconsistenza rischiarano le radici stesse del regionalismo. Fa senso, per esempio, la larghezza straordinaria della letteratura dialettale siciliana, qui dove si costruì, alla Corte degli Svevi, il primissimo centro della letteratura nazionale. Siamo in pochi a fuggire ogni contatto con una mania che, come fenomeno di educazione generale, contrasta con l'esigenza unitaria che ha il suo pernio nella formazione della lingua nazionale. Le classi colte siciliane sono, com'è noto, per la scarsa vita commerciale e industriale, molto più vaste che in molte altre regioni d'Italia; ora, i poeti dialettali sono centinaia, il dialetto è ricco di tradizioni rettoriche e nell'illusione di parecchi avrebbe quasi il diritto di essere il "provenzale" d'Italia; numerose compagnie teatrali girano l'isola, sbarcano a Tunisi a risvegliare le nostalgie della colonia siciliana di laggiù e assorbono l'attività di molti giovani.





    Tutto ciò naturalmente va segnato tra le passività del regionalismo, e rivela la persistenza d'un provincialismo che è qualche cosa di più del provincialismo.

    Uomini autorevoli d'ogni partito, in ogni tempo, non si sono nascosti la gravità del fatto, e ne hanno, purtroppo, dovuto documentare le ragioni. Il Colajanni stesso - uno dei pochi uomini politici nostri che si possono citare come esenti di moltissimi e inevitabili difetti della vita pubblica dell'isola logorata dalle clientele personalistiche - che si pose con vigore contro il "vento di follia" del nasismo, spese molta parte della sua opera a dimostrare che il risentimento regionalistico era fondato su valide ragioni, poiché indubbiamente l'isola è stata lungamente trattata, moralmente e, quel che più conta, economicamente, come una colonia. La convivenza nazionale, da un punto di vista materiale, é stata un reale sacrificio per l'isola.

    Naturalmente, tutto ciò non poteva aiutare come non ha aiutato la formazione unitaria della regione; e ne ha guastato, come ogni sistema coloniale che collega la vita politica alle prefetture, e agevola le clientele affaristiche, lo spirito: lo ha reso opaco da una parte, rettorico dall'altra. L'accentramento politico unitario, influenzando naturalmente anche gli enti autarchici, ha privato la regione delle più elementari libertà. I prefetti sono quasi sempre riusciti a fare tutte le elezioni nell'isola, con tutti i mezzi, e alla loro azione non corrispondeva, in linea di massima, un qualsiasi consenso generale.





    Le gigantesche difficoltà incontrate dal socialismo prima e dal fascismo poi a creare un movimento sindacale sono precisamente dovute all'apoliticismo radicale delle masse. Gli intellettuali da una parte e le masse dall'altra sanno, da tempo immemorabile, di non poter nulla contro ostacoli esteriori; e, mantenendo un divorzio - che è il carattere di tutte le decadenze politiche - lasciano padroni del campo gli uomini più inetti a rischiar qualche cosa per la rieducazione dell'isola, che del resto sarebbe contro il loro interesse. Quando i cosidetti partiti proletari parlano d'una loro presunta organizzazione in Sicilia, vendono fumo. Qui si tratta sempre di situazioni personali, e un deputato mantiene il suo seguito di migliaia di zolfatai quando dal socialismo rivoluzionario passa al riformismo, da questo alla democrazia sociale, da questa all'antifascismo e dall'antifascismo al filofascismo. Sono esempi, cotesti, dei quali trascuro i nomi, perché non hanno importanza. Il fascismo ha distrutto molte vecchie posizioni, senza crearne di nuove. Molte province sono state decapitate di queste vecchie teste capaci, con l'appoggio delle prefetture, di dare magnifici risultati elettorali. Naturalmente, a me il valore di questa opera negativa, in vista d'un travaglio politico che determinerà formazioni personali e ideali spontanee, appare rilevante. Poco interessa, che, per una diecina d'anni, al momento di fare le elezioni non si sappia con chi farle, se non con poche centinaia di studenti squadristi e di fascisti intellettuali. Non tengo soverchiamente agli scrupoli elettorali, quando so che sino al '22 le elezioni erano affidate a un elenco di persone facilmente identificabili riscontrando tutte le concessioni di porti d'arme rilasciati dalle prefetture. E mi par triste cosa che i fascisti manchino talvolta del coraggio di instaurare un sistema spicciativo e ricorrano a vecchi uomini che godono fama di seguito imponente, in modo da giustificare i risultati; perché, a cotesto seguito, non ho proprio nessun elemento per crederci. Insomma tra il vecchio trucco che deformava moralmente le nostre popolazioni e la spregiudicatezza scettica delle minoranze fasciste, non vedo che ci sia da esitare.





    Durante il periodo preparatorio delle elezioni di Palermo, andavo sostenendo - e consentivano anche gli amici antifascisti - che le elezioni veramente libere potevan esser fatte da quattro o cinquecento fascisti (uno per mille!) che almeno essi avrebbero votato i nomi dei 64 squadristi, non per le persone, ma per l'idea; espressione energica di un grande risveglio unitario. La libertà non è quella che garantiscono i carabinieri, ma quella che si celebra nelle coscienze.

    Ma anche in questo episodio, tutt'altro che trascurabile, bisogna vedere il conflitto tra il regionalismo (Orlando) e l'idea unitaria. Se c'è una sostanza in tutto l'antifascismo elettorale, che fa capo all'on. Orlando, essa è appunto, come cemento sentimentale delle varie clientele locali, l'orgoglio per un uomo che l'Italia dovrebbe riconoscere come il più grande, perché siciliano. Se tutti i partiti si contendono Crispi, la ragione è cotesta. Così come Giovanni Meli è un grandissimo poeta, grande come Virgilio.

    "Se per mafia - ha detto nel noto discorso elettorale l'on. Orlando - s'intende il sentimento dell'onore portato sino all'esasperazione, insofferenza contro la sopraffazione, generosità... ecc., ecc., allora mafioso mi dichiaro io". Egli ricopriva col vecchio e logoro mito della mafia tipica dei paladini di Francia cari al nostro popolo, una realtà molto più seria; traduceva in linguaggio da "romanzo storico siciliano", in linguaggio da Beati Paoli, una questione politica.





    Se si percorre, putacaso, la storia di tre o quattro anni della delinquenza comune di un collegio siciliano, poniamo senza particolare preferenza, di uno dei quattro o cinque nomi pronunziati dall'on. Farinacci (a cui l'on. Orlando rispondeva), si vedrà, senza bisogno di commenti, attraverso gli archivi della P. S. quali delicate connessioni leghino quella storia a quella delle clientele politiche di quegli stessi collegi, e come certi contatti stabiliti in occasioni elettorali influissero gravemente sul corso delle indagini e dei successivi procedimenti. Alla generosità di alcune zone della mafia, al loro fondo cavalleresco, alla logica della loro formazione, come espressione del parassitismo che vive ai margini del feudo economico e politico, io sono disposto a credere; ma, appunto per questo, non è possibile negarne il carattere antiunitario, e l'opposizione a ogni libero sviluppo di autoformazione politica della nostra regione. Ora se pure il fascismo abbia dovuto a Palermo - come altrove - ricercare forze dello stesso tipo, per assicurarsi la vittoria, anche gli avversari hanno sentito che il peso decisivo nella lotta lo portavano le squadre indomabili degli iscritti che non s'attendevano nessun compenso. La loro libertà era reale, perché consapevole e attiva; e sollecitava l'avversario a mettersi sullo stesso terreno. Ma l'avversario non poteva, perché non disponeva neppure di cento giovani di fede. Il regionalismo antiunitario, come dicevo, non ha nessuna maturità politica: è una forza inerte. È l'astensione.

    Le masse degli astenuti sono state enormi. Le cifre ufficiali dicono che i votanti furono il 40 % degli elettori iscritti; e alle cifre si sa che bisogna non credere troppo.

    Tuttavia sarebbe un errore credere che l'inerzia, che l'astensione, non abbiano valore e non combattono a loro modo. Esse indicano, anzitutto, la mancata partecipazione delle masse siciliane alla vita razionale, partecipazione consapevole costruttiva, che gioverebbe a rifare in tutti i sensi, ab intus, la regione: perché la regione è un'idea necessaria nella dialettica nazionale. Il regionalismo è l'impotenza della regione ad esprimersi.

LUCA PIGNATO.