Agrari e speculatori

    Circa venticinque anni fa Achille Loria scriveva queste parole: "Di un'alleanza, per vero morbosa, fra il lavoro improduttivo e la rendita, fu, in tempi da noi non lontani, testimone e vittima una cospicua parte d'Italia: dacché il Regno di Napoli altro non era che una monarchia assoluta, appoggiata al lavoro improduttivo e alla rendita, e schiacciante il capitale e la borghesia con ogni sorta di nequizie e di infamie... Così avviene oggi nella Spagna, ove il potere è nelle mani di una tacita coalizione dei militari e dei proprietari di terre: e, in proporzioni minori, ciò avverasi anche in Italia. D'altronde, rendita fondiaria ed interesse del capitale improduttivo si raccolgono di consueto nella stessa mano, o presso i redditieri superiori: di modo che la fusione politica dei due redditi può compiersi, anche senz'uopo di una formale alleanza... Perciò niuno si stupirà se la potenza di questo capitale è oggi prevalente in quei paesi nei quali esso giunge a formare alleanza con la rendita fondiaria, e a dominare, grazie ad essa, i redditi rivali. Così in Italia, fino a poco tempo fa, si celebrano gli scandali enormi della bancocrazia criminale e le Compagnie ferroviarie sono tiranne del Governo, mentre tuttora le Società di navigazione strappano privilegi e sussidii ingiustificati, e la speculazione preme sui poteri costituiti per ottenere irragionevoli espansioni della circolazione fiduciaria".

    Ma questi tratti, debitamente temperati, riproducono abbastanza esattamente la situazione attuale, o ne indicano, almeno, alcuni lineamenti essenziali. È, infatti, una visione frammentaria quella che nella "reazione" fascista si limita a considerare due cose: la compressione politica e i sopraredditi, che il partito dominante assicura ai proprii membri. Anche questo aspetto senza dubbio esiste. Nel linguaggio di Loria si direbbe che il lavoro improduttivo, di coloro che attendono alla difesa del "regime", si è congiunto alla rendita fondiaria e al capitale di speculazione. Però non è affatto, anche se è la più visibile, la faccia più importante della realtà. Non ogni regime coercitivo è un regime di reazione politica, e, se il fascismo è reazione, nel pieno senso della parola, lo è appunto perché esso coincide con l'assorgere del capitale improduttivo e della rendita fondiaria. In questo senso, e non nel semplice senso poliziesco, si può trovar qualche affinità tra il fascismo e il bolscevismo. Entrambi rappresentano, attraverso le incalcolabili differenze nella distribuzione, un ritorno a una economia quasi naturale: ossia tutti due sono il prodotto del disfarsi o del vacillare dell'economia derivata e industriale.





    Ma ciò ci dice anche che non tutto, nella reazione economica operata dal fascismo, è frutto di volontà politica e di arbitrio partigiano. Venuta a mancare la rivoluzione socialista, che giustamente fu da noi prospettata come una rivoluzione di tipo piuttosto russo che anglosassone, non vi era, nelle grandi linee, altra alternativa.

    Solo una borghesia industriale formidabile, che avesse saputo superare di colpo la deficienza delle materie prime, l'inferiorità della attrezzatura tecnica, la scarsa attitudine inventiva e mercantile, avrebbe potuto fare il miracolo. In questa ipotesi, che è assurda, si sarebbe risolto, con la maggior produzione, quel problema di distribuzione, che è stato il tema essenziale dei movimenti eversivi del dopo guerra. Ma l'ipotesi non si è, naturalmente, verificata. Non poteva essere una borghesia industriale, cresciuta sempre all'ombra del protezionismo e del sovvenzionismo statale, e che, in sostanza, non conosceva che il mercato interno come sua bandita di caccia, quella capace di fare il prodigio. Tale miracolo borghese, della moltiplicazione dei beni, sarebbe stato il vero miracolo del fascismo, il quale infatti lo ha anche vagheggiato in questa forma. Ma appunto vagheggiandolo e tentando di preparargli le condizioni necessarie è giunto poi all'opposto risultato: di portar sugli altari le classi terriere; e, insieme, i loro naturali "fiancheggiatori" (parola esatta ed eloquente), che si trovano, sempre, nei ceti speculatori.

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    Da quattro mesi, da quando cominciò la regolamentazione del mercato dei titoli privati, la nostra economia è teatro di una lotta molto serrata.





    Il ministro De Stefani, guidato da un istinto conservatore e campagnuolo un po' corto ma sano, avvertí (troppo tardi, però) una insufficienza e una contraddizione. L'antagonismo era questo: che la floridezza dell'economia privata, sopratutto industriale, non poteva sussistere che a spese della floridezza della azienda economica statale; e viceversa. Il risparmio del Paese che per diverse vie accorreva nelle casse dell'Erario, non solo veniva, naturalmente, a mancare in quelle delle imprese libere, ma vi veniva a mancare in misura tale da determinarne un arresto di sviluppo; e lo stesso nel senso opposto. E di qui l'insufficienza. Posto nella necessità di scegliere tra l'una e l'altra direzione da imprimere al risparmio, l'on. De Stefani optò, come era naturale attendersi, a favore dello Stato, ma, però, la sua scelta non raggiunse affatto l'effetto. Il risultato naturale della virata governativa avrebbe dovuto essere doppio: da un lato far evadere i capitali mobili dagli investimenti industriali in genere; e, dall'altro, farli affluire nelle varie forme di credito offerte dallo Stato. Ora si è avuto bensì il primo risultato, come è provato dalla depressione generale dei corsi azionari; ma non si è riscontrato affatto l'afflusso nei titoli di Stato, il quale, anzi, per richiamare a sé il risparmio, ha dovuto alzar il saggio dell'interesse. Fra le due vie che erano loro proposte, i risparmiatori ne hanno scelto una terza. Avendo nitidamente rilevato, attraverso lo stesso antagonismo degli investimenti, l'insufficienza globale del risparmio a far fronte a tutte le ordinarie esigenze del Paese, ne hanno desunto che, in blocco, il passivo era superiore all'attivo, e sono corsi ai ripari. I modi sono stati due. Alcuni (sopratutto, pare, delle regioni meridionali "americanizzati" dall'emigrazione e relativamente impratichiti di cambi; e delle regioni redente, prima partecipi di un nesso internazionale, e memori del crollo della corona) si son dati agli impieghi in valuta estera. Altri, invece, provvisti di maggior quantità di risparmio come è nel Nord e, d'altronde, non sprovincializzati in nessun senso, hanno scelto l'investimento del denaro in prodotti, in oggetti materiali, in cose; e, tra queste cose, sopratutto e a preferenza di ogni altra, in beni immobili.





    Il fenomeno non è affatto nuovo: parecchi altri Paesi, sopratutto dell'Europa centrale, sono passati per questa trafila. Anche l'economia reale, nelle sue posizioni iniziali e in quelle terminali, non è che una questione di psicologia concreta e di orientamento della volontà. L'economia liberale è una economia creativa e produttrice, e per questo essa storicamente si identifica, o quasi, con lo sviluppo industriale, che è specchio e quasi sinonimo di attività. I paesi anglosassoni, ossia quelli economicamente ricchi, hanno risolto la loro crisi (del resto molto più leggera) nel senso della azione produttiva: essi soffrono oggi di un eccesso di attrezzatura industriale. Noi viceversa vi abbiamo dato, non solo politicamente ma anche economicamente, una soluzione antiliberale, e cioè fondata sulla inattività e sulla inerzia: e ci siamo rimessi alla fecondità naturale, uniforme, relativamente illimitata e elementare della terra. Gli immobili, urbani e rurali, sono saliti a prezzi altissimi. Vi si impiega, anche traverso la rateazione, il modesto risparmio autonomo. Si formano rapidamente Società per l'acquisto, la costruzione, la lottizzazione, ecc., di proprietà fondiarie di ogni specie. Il fenomeno, che del resto non è recente, ha acquistato in quest'ultimo periodo un ritmo accelerato, e ha tali proporzioni da farlo rientrare in quei casi di dinamismo economico a conseguenze sociali, che Maffeo Pantaleoni ha magistralmente illustrato. Si potrebbe così dire che il capitale italiano, sorpreso nelle dure congiunture del dopo guerra, si è abbandonato alla produttività per sé stante della terra, che (almeno provvisoriamente) rende a costi umani decrescenti.

    È un atto fondamentale di pigrizia compiuto dalla nostra economia, ed è esso che ci dà, forse, l'ultima chiave per capire anche la inerte rassegnazione politica del Paese. Ma, comunque sia, il fatto certo e obiettivo è questo: che dalla menomazione dei ceti industriali in senso proprio e degli strati dei risparmiatori, stanno venendo fuori, trionfatrici, le classi agrarie. Riavremo il dazio sul grano. La rendita fondiaria, donde il fascismo ha preso le prime serie mosse, viene tutta insieme sul primo piano della politica italiana. E, come accade sempre, la élite della classe economicamente egemonica diventa il gruppo dirigente dell'intero Paese. e, più o meno, pone dappertutto la propria impronta.

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    Ma il deprezzamento crescente della lira ha prodotto, accanto alla valorizzazione in blocco della proprietà terriera, anche una differenziazione profonda nel campo della economia industriale.

    Questa può, nelle grandi linee, dividersi in due branche: le grandi industrie, o protette o che lavorano per l'esportazione, e le industrie minori che, in massima, producono per il mercato interno. Ora, mentre queste ultime, a conti fatti, non ne hanno cavato un gran che, le prime sono state favorite in tutti i modi. La svalutazione della moneta è stata per esse un danno cessante e un lucro emergente. La povertà del mercato interno le avvantaggiava, perché metteva a loro disposizione la mano d'opera a buon mercato. Viceversa non recava loro nessun danno, perché il loro principale mercato di collocamento era all'estero, e, naturalmente, nei paesi a valuta pregiata. Sia all'uscita che all'entrata questo congegno, così disposto, costituiva per loro una rendita secca. Il gioco, essendo evidentemente forzato, non manca di inconvenienti; i mercati esteri (lo stiamo vedendo) si difendono; ma in complesso si può dire riuscito, e riuscito sopratutto in forza dell'artificio monetario. Ora quando un processo produttivo vive su questi margini ed è, in sostanza, doppiamente protetto dai dazii alti e dalla valuta bassa, esso è molto vicino ai fatti della pura speculazione. Siamo di fronte ad atti di parassitismo privato determinati dai poteri coercitivi, fiscali e monetari dello Stato, e che cesserebbero il giorno in cui il potere politico desistesse dal difenderli. Il vivissimo allarme, che ha suscitato nei circoli in questione il ventilato proposito di deflazione o di stabilizzare la moneta, ne è la prova non necessaria, ma, però, definitiva. È la loro logica necessaria, ed essi, anzi, vanno chiedendo di più: vanno chiedendo che, per un verso o per l'altro, si stampi dell'altra carta moneta. Le industrie, foggiate su un piede d'artificio, richiedono dei dazii di protezione alla frontiera sempre più alti: esse, per vivere, debbono comunque avere un margine di spogliazione del consumatore interno. E nello stesso modo, quando la protezione è nella valuta, esse esigono una svalutazione progressiva della moneta: perché, se non c'è, viene loro a mancare quel margine di spogliazione invisibile del lavoratore interno, dalla quale, precisamente, traggono i loro profitti.





    Da una industria, posata su basi di questo genere, alla speculazione pura e semplice, il passaggio è brevissimo. Sotto un certo aspetto si può anzi dire che le due cose di identificano, e che questa specie di pseudocapitale produttore agisce anche come capitale speculativo. In occasione dell'ultimo precipitoso ribasso della lira si è appreso che le industrie esportatrici non realizzavano in lire il ricavato della loro vendita in dollari e sterline, ma riportavano i loro crediti in valuta estera. In sé e per sé l'operazione è più che normale. Poteva anche essere saggia, perché queste industrie dovevano pur fornirsi, sulle piazze estere, di materie prime; però, in ogni caso, il riporto del credito in valuta estera, in tanto aveva un senso in quanto la lira fosse ribassata. Ma il ribasso della moneta nostra era, in parte, determinato dalle esigenze appunto delle industrie esportatrici: e queste, quindi, guadagnavano due volte: una prima volta, all'interno, come produttrici, e una seconda volta all'estero, come speculatrici. Del resto è notorio che una valuta in istato di squilibrio continuo e di discesa ininterrotta, determina il nascere di ceti specificatamente speculatori. Essa fa nascere la possibilità di trasformazioni di ricchezza, nello spazio e nel tempo, le quali non sono mai propriamente accompagnate da lavoro. Anche da noi le Banche, come pure negoziatrici di valute estere e di moneta nazionale, si moltiplicano: entriamo sul terreno tipico della speculazione. Ma questa si estende, d'altronde, a tutti i campi. Man mano che la lira si deprezza, vi è un rialzo rapido e generale dei prezzi, e, su ogni gradino di questa scala, prende posto un intermediario. Cresce di giorno in giorno, nelle città e nelle campagne, la categoria dei cittadini che vivono sulle differenze delle compre-vendite successive (e in grandissima parte a vuoto) degli immobili e delle merci. Anche la Borsa si è risentita del fenomeno; si assiste ad operazioni di portafogli minimi: si formano associazioni di operatori minuscoli (vere cooperative) per comprare e vendere titoli nei lotti di uso.





    L'on. De Stefani ha segnalato questo stato di cose, e si è proposto, fra l'altro, di "moralizzare" la Borsa. L'intento era, in fondo, lodevole e sano: si trattava di impedire l'epidemia della speculazione di rapina. Ma il risultato è stato questo. La folla di questi speculatori minuti è stata dispersa. Viceversa la élite dell'alta speculazione in cambi e in titoli è rimasta; e, mentre la moneta oscilla, giocando al rialzo o al ribasso, sulla lira o sulle azioni, indifferentemente, e, in ogni caso, prelevano un tributo sulla ricchezza.

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    La moneta è stato uno strumento potentissimo, meditatamente impiegato, con cui il fascismo ha variato la distribuzione dei redditi e la stratificazione politica delle classi, in senso nettamente conservatore: al tipico conservatorismo italiano viene regalata una vigorosa reviviscenza.

    Il mondo agrario si affaccia, dopo il fuoco del napoleonismo industriale espansionistico, al primo piano, avendo al proprio seguito un corteo multicolore di ceti predatori di Banca, di Borsa, di dazii, ecc., ecc. Man mano che le cose si chiarificano, appare che il Paese viene posto a disposizione della manomorta fondiaria e della aubaine finanziaria. È questo l'aspetto sostanzioso del rivoluzionarismo istituzionale. Il pseudo cancellierato non ha per obiettivo che quello di contenere gli sviluppi, inesorabilmente liberali, d'una borghesia sana, libera e produttrice. Nella macchina corporativistica deve andar distrutto ogni sforzo emancipatore della classe operaia, dei ceti tecnici, e, forse, degli stessi gruppi imprenditori non schiavizzati. L'onnipotenza del potere esecutivo vuol dire il privilegio immobile assicurato alle rendite non guadagnate, derivate dalla terra e dalla mera congiuntura. Il sindacalismo di Stato significherà l'equa elemosina, invariata, del lavoratore mansueto. Vi è una logica in questo sistema, e una logica correlativa deve rivelarsi anche nella Opposizione. È assurdo credere che le correnti liberali, anche se rappresentino una borghesia nuova ed economicamente attiva (e ce ne è pochissima), possano accamparsi da sole di fronte al fascismo. Sono antiquate e a orizzonti limitati. Le posizioni-limite della Opposizione sono indicate dai comunisti e dai repubblicani: i comunisti vagheggianti una repubblica del lavoro, e i repubblicani orientati verso una autonoma comunità borghese. Per ragioni tattiche da queste posizioni tattiche ci si può ritrarre; forse ci si deve; ma esse restano sull'orizzonte come i punti estremi e più nitidi della lotta. Questa, così come oggi è posta, non può avere che un obbiettivo: trasformare una economia di monopolii e di speculazioni in una società, operaia e borghese insieme, di libertà e di produzione.





    È, in sostanza, l'immutato obiettivo d'oggi rinnovamento profondo della nostra esistenza collettiva; ed esso fu così già nitidamente vaticinato: "Tutta la politica economica dell'Italia, così larga di favori ai proprietari di terre ed ai banchieri, si impernia nella coalizione della rendita e del capitale improduttivo. Le deficienze del nostro ordinamento bancario, come le esorbitanze del nostro protezionismo agrario, non cesseranno, se non quando un ministro di genio avrà associato il capitale industriale col popolo in una alleanza compatta contro i banchieri e gli agrari, o almeno avrà infranta l'alleanza di questi con quelli". Sono, anche queste, parole di Achille Loria: e sono, anch'esse, di venticinque anni fa.

N. MASSIMO FOVEL.
Queste note erano già state scritte quando si è avuto la crisi "tecnica" del Ministero. Il senatore Volpi ha sostituito l'on. De Stefani, e l'on. Belluzzo è andato al posto dell'on. Nava. Questa crisi ha seguito l'annunzio della "battaglia del grano" che doveva concludersi, come qualcuno ha già richiesto, o col ristabilimento del dazio sul grano, o col fissamento d'un prezzo politico "remunerativo" ai produttori granari a più alto costo; in conclusione, con una forma qualsiasi di protezionismo. Altra "battaglia" da portar a buon fine è quella della lira. Si attende dall'on. Volpi la quadratura di questo circolo: la deflazione a favore dei consumatori (più precisamente, di categorie a reddito fisso) e l'espansione industriale a favore dei produttori. Questo sarebbe il nuovo "ciclo economico"; del quale è superfluo dire, e si vedrà che si risolverà a vantaggio di quella oligarchia plutocratica a cui l'on. De Stefani aveva fatto negli ultimi tempi un po', e non più di un po', il viso dell'armi.