La politica estera della Destra

(1871-1876)

    Gaetano Salvemini, prima di esser arrestato stava lavorando ad una vasta opera di storia della politica estera italiana dopo il '70. Offriamo ai nostri lettori una parte dei suoi studi sulla politica della Destra.



    Dopo la guerra franco-germanica del 1870, l'Italia era in Europa come un viaggiatore inaspettato, che entra in treno e cerca un posto anche per sé, e così disturba tutti gli altri viaggiatori che si erano già sistemati.

    Per dodici secoli l'Italia era stata divisa in piccoli Stati locali, spesso in guerra gli uni con gli altri. Per effetti di questa disunione, che sembrava innata nel popolo italiano, tutti i vicini avevano per secoli considerato l'Italia come un paese assai comodo ad utilizzare negli scambi diplomatici, in cui ognuno poteva entrare quando gli piaceva, prendersi quel che desiderava, ed impiegarlo come pedina nel proprio gioco. L'unificazione nazionale dell'Italia era un fatto nuovo, che si era determinato inaspettatamente nel corso di pochi anni, fra il 1859 e il 1870. E i diplomatici delle grandi Potenze tradizionali dovevano fare un grande sforzo di immaginazione per adattarsi alla idea di questa ritrova realtà: gli uomini in genere, e i diplomatici in ispecie, sono lenti a modificare i loro atteggiamenti mentali, e non amano guardare, in faccia le nuove situazioni, specialmente quando la situazione antica era più conveniente della nuova.

    A parte quest'attitudine di sdegnoso compatimento, che era tradizionale nei vicini, sta il fatto che nel 1871 l'Italia era realmente uno Stato debole, che doveva affrontare difficoltà formidabili.

    Oggi, non contando la Russia, che attraversa una fase eccezionale della sua storia, le popolazioni dei principali Stati dell'Europa si dispongono nel seguente ordine numerico:

Germania

60

milioni

Gran Bretagna

47

"

Italia

40

"

Francia

39

"

Nel 1871 l'ordine era assai diverso:

Germania

41

milioni

Francia

36

"

Austria-Ungheria

35

"

Gran Bretagna

32

"

Italia

26

"


    L'Italia, quindi nel 1871, poteva difficilmente essere considerata come una grande Potenza. Piuttosto teneva un posto intermedio fra le grandi e le piccole Potenze: era la più piccola fra le grandi, e la più grande fra le piccole. Inoltre, essa non possedeva né ferro, né carbone: cioè, mancava delle più importanti materie prime su cui si basava la potenza dei grandi Stati dopo la rivoluzione industriale del secolo XIX. Le sue finanze, la sua struttura amministrativa, le sue forze di terra e di mare avevano ancora bisogno di essere consolidate, se non addirittura create.





    Sopratutto, il Governo italiano era aggravato continuamente dalla questione del potere temporale del Papa.

    Oggi non esiste più nulla della generazione che vide mezzo secolo fa la fine di tutti gli antichi piccoli Stati locali italiani, e fra questi, dello Stato del Papa. Maestri elementari, medici condotti, giornali, organizzazioni economiche, organizzazioni dei diversi partiti politici, tutto ciò ha sottratto a poco a poco la maggioranza della popolazione alla influenza del clero. Lo spirito dello stesso clero si è interamente trasformato nell'ambiente politico, sociale e spirituale della nuova Italia. E ultimamente, la guerra mondiale ha smembrato l'Austria-Ungheria, cioè la sola grande Potenza da cui il Vaticano avrebbe potuto, caso mai, aspettare aiuto per la restaurazione del dominio temporale. Perciò la questione romana si è esinanita oramai fino a tali proporzioni che non rappresenta più nessun pericolo per l'Italia, né nella politica interna, né nelle sue relazioni internazionali.

    Ma cinquant'anni or sono, era questo il problema centrale della vita politica italiana. Il Papa Pio IX rivendicava, in ogni occasione, la città di Roma, e tutti gli altri territori che per undici secoli avevano formato lo Stato pontificio dell'Italia centrale. Il clero italiano dirigeva la vecchia aristocrazia fedele alla Chiesa, e dominava quasi ovunque le masse dei contadini, per i quali la parrocchia era la sola forma di organizzazione sociale e di vita spirituale. E così quelle classi sociali, che in tutti gli altri paesi formavano la base dei partiti conservatori, si trovavano spezzate in Italia in due sezioni: il gruppo, che teneva il governo, raccolto intorno alla dinastia di Savoia e il gruppo legittimista, che sosteneva la causa del Papa, dichiarava illegittima la unità politica d'Italia, si asteneva dal votare nelle elezioni politiche, era come un esercito accampato in paese nemico; pronto sempre a muovere all'attacco.

    Fuori d'Italia, le grandi masse cattoliche facevano eco alle proteste del Papa e dei cattolici italiani. L'unità politica d'Italia, sorta com'era sulle rovine del potere temporale della Chiesa, era descritta ovunque dai propagandisti cattolici come una creazione del demonio, la cui distruzione fosse il primo dovere di ogni credente.





    La ostilità più violenta e più pericolosa contro lo Stato nazionale italiano partiva dai gruppi monarchici e clericali francesi. Questi gruppi ritenevano che fosse massimo obbligo della Francia restaurare l'antico Stato della Chiesa. I preti raccoglievano ovunque firme per protestare contro la oppressione del Papa e in alcuni dipartimenti della Francia vendevano come reliquie la paglia su cui dicevano che era costretto a dormire il prigioniero del Vaticano. Nelle elezioni del 1871 i gruppi monarchici e clericali avevano conquistata la maggioranza nell'Assemblea nazionale: non riuscivano a ristabilire la monarchia; in compenso si sfogavano contro l'Italia. I deputati della maggioranza domandavano che il Governo della Repubblica intervenisse a sostegno del Papa. E solamente l'autorità di Thiers, il capo del Potere Esecutivo, riusciva a frenare le passioni esaltate e ad evitare una rottura immediata coll'Italia. Ma che cosa sarebbe avvenuto da un momento all'altro, se la maggioranza eliminava Thiers dal Governo e dava libera carriera ai suoi sentimenti anti-italiani?

    Per tutte queste ragioni, molti in Italia e fuori d'Italia avevano poca o nessuna fede alla solidità del nuovo Stato nazionale: il quale sembrava continuamente nel punto di sfasciarsi sotto il peso delle difficoltà interne ed esterne.

    Ma l'Italia aveva un grande vantaggio fra le grandi Potenze europee: il vantaggio della sua posizione geografica.

    La pianura del Po, infatti, è a contatto con i paesi dell'Europa centrale; e per effetto di questa posizione intermedia fra la regione del Danubio e la Francia meridionale, ha sempre avuto una grande importanza militare, e perciò anche politica, anche prima della unificazione italiana. Nelle guerre fra i Re di Francia e la Casa d'Austria, quella fra le due Potenze che riusciva a controllare militarmente la pianura del Po non aveva più bisogno di preoccuparsi della frontiera italiana, e poteva concentrare tutte le forze nel territorio germanico.





    Questo spiega l'importanza, che fino dal XVI secolo lo Stato della Casa di Savoia ha avuto nella politica europea: importanza così sproporzionata alla piccolezza del territorio e alla forza militare assoluta. I Savoia erano soprannominati "i guarda-portoni delle Alpi". Quando si alleavano col Re di Francia, permettevano a una parte dell'esercito francese di scendere in Italia senza difficoltà, e in collegamento con le truppe francesi minacciavano il dominio austriaco in Lombardia: e così l'Austria era costretta a mantenere una parte notevole delle sue truppe in Italia, mentre la Francia poteva attaccare in Germania col massimo delle proprie forze. Invece, quando la Casa di Savoia si alleava con l'Austria, allora la Francia si trovava minacciata in Provenza dalla Savoia, ed era costretta a dividere le sue forze fra il Reno e le Alpi; mentre l'Austria lasciava sguarnita la Lombardia e concentrava tutte le sue forze militari sul teatro germanico.

    Noi possiamo dire, in linguaggio economico, che la Casa di Savoia occupava una "posizione chiave", aveva un "monopolio di posizione" nella politica europea; e approfittava di questa posizione per inserirsi nel gioco dei potenti vicini. Si alleava con la Francia per conquistare, con l'Austria per conservare. E così si mangiava il carciofo italiano a foglia a foglia, come diceva il duca Emanuele Filiberto nella seconda metà del '500.

    Quando con la unificazione nazionale italiana il carciofo fu quasi finito di mangiare, la vecchia "posizione-chiave" non fu in alcun modo svalutata. Anzi la unificazione politica accrebbe l'importanza della pianura del Po: perché da ora in poi il nuovo Stato nazionale poteva concentrare nell'Italia settentrionale, verso l'Europa centrale, le truppe reclutate in tutta la penisola; mentre prima il piccolo staterello piemontese poteva manovrare solamente con un piccolo esercito.

    La penisola italiana con l'isola di Sicilia esercita nel mare Mediterraneo una funzione militare e politica analoga a quella che la parte continentale dell'Italia esercita verso l'Europa centrale.





    In tempo di guerra, la Potenza che riesce a controllare il Mediterraneo, può intercettare i rifornimenti a tutte le Potenze nemiche. Ora l'Italia divide il Mediterraneo proprio nel mezzo. Concedendo agli amici e negando ai nemici l'uso delle sue basi navali e il sussidio della propria flotta, il Governo italiano rappresenta un fattore importante nell'equilibrio delle forze marittime mediterranee.

    L'importanza della penisola italiana pel controllo del Mediterraneo fu notevolmente accresciuta per il taglio dell'istmo di Suez fra il 1859 e il 1869. Per effetto di quest'opera, il Mediterraneo diventò ancora una volta ciò che era stato nel periodo classico e nel medioevo: la grande via delle genti; il passaggio obbligato per il commercio marittimo fra l'Europa e l'Oceano Indiano e l'Estremo Oriente. Per l'Impero britannico il Mediterraneo diventò la via più breve per le Indie, l'arteria jugulare dall'intero sistema circolatorio. E l'Italia si stende proprio a mezzo di quest'arteria jugulare

    Ora, precisamente in quegli stessi anni, in cui fu tagliato l'Istmo di Suez, l'Italia si costituiva in Stato unitario: cioè il Governo della nuova Italia poteva da ora in poi armare le sue basi navali con maggiore efficienza che non fosse stato possibile agli antichi staterelli locali. E in conseguenza, le altre Potenze mediterranee erano obbligate da ora in poi a prendere in considerazione l'Italia in tutti i loro calcoli militari e in tutte le loro iniziative diplomatiche, assai più che non dovessero prima che il Canale di Suez fosse aperto e che l'unità d'Italia fosse nata.

    Ho detto che l'Italia tiene un "monopolio di posizione" geografica. Ma debbo aggiungere che questa posizione-chiave, se è spesso utile all'Italia, è anche talvolta incomoda e pericolosa. Perché in grazia di quella posizione geografica, tutte le correnti della politica continentale e della politica mediterranea, prima o poi, per un motivo o per un altro direttamente o indirettamente, investono l'Italia. Tutte le Potenze, che circondano l'Italia per terra e per mare, hanno interesse ad attirare l'Italia dalla loro parte, e ad evitare che sia attirata dagli avversari. Offrono vantaggi, più o meno reali, in cambio dell'amicizia; le minacciano, più o meno apertamente, danni, più o meno gravi, non solamente se accenna a diventare ostile, ma anche se desidera di rimanere neutrale. Così l'Italia è continuamente trascinata nei problemi continentali dalla importanza militare della pianura del Po, e nei problemi mediterranei dalla importanza navale della sua penisola.





    Per questa ragione, è assai difficile all'Italia mantenere un atteggiamento di neutralità in una grande crisi internazionale. Se vuole rimanere neutrale, l'Italia deve mantenere una forza militare altrettanto grande, e deve essere assai più cauta, che se volesse schierarsi con una delle due parti nelle ostilità.

    Ed è spesso assai difficile agli uomini di Stato vedere chiaramente e scegliere saggiamente una direzione sicura nel complesso intreccio delle questioni continentali e mediterranee. Derivano da questa condizione di cose le oscillazioni, o - se più vi piace chiamarle così - le ambiguità col così detto "machiavellismo" italiano. Ma noi italiani sappiamo benissimo che esse derivano quasi sempre da quella indecisione, che è inevitabile, quando ci sono molte e incerte possibilità, e quando non abbiamo la fortuna di avere al timone del Governo un uomo di genio come il Conte di Cavour.

    La esperienza degli anni, che succedono al 1870, dimostra in quali difficoltà e pericoli incorre il Governo italiano, se vuole mantenere una posizione di neutralità.

    Era allora ministro degli esteri un nobile lombardo, il marchese Visconti Venosta. Egli pensava che in Francia le tendenze liberali sarebbero alla fine prevalse sulle tendenze clericali e che la marea dei sentimenti anti-italiani sarebbe passata. In attesa cercava di evitare una rottura violenta, e osservava per quanto era possibile un atteggiamento conciliativo. Nello stesso tempo procurava di avere sottomano qualche combinazione diplomatica, su cui l'Italia potesse appoggiarsi nel caso che la Francia movesse guerra senz'altro all'Italia.

    La più ovvia di queste precauzioni consisteva nel coltivate rapporti amichevoli colla Germania. La maggioranza parlamentare francese era ostile non solo all'Italia, ma anche alla Germania. Se la Germania e l'Italia fossero rimaste divise di fronte al pericolo francese, il primo paese ad essere assalito dalla Francia sarebbe stato probabilmente l'Italia; e in seguito, prima o poi, la Germania avrebbe trovato l'intera forza militare della Francia concentrata verso il Reno. Invece, un'alleanza fra la Germania e l'Italia - per quanto Bismarck non avesse un'alta opinione della capacità militare dell'Italia - avrebbe obbligato la Francia a dividere le sue forze fra le Alpi e il Reno, e avrebbe reso disperato ogni tentativo di rivincita della Francia contro la Germania.

    Per questa ragione, Bismarck diceva nel 1873 che l'alleanza fra la Germania e l'Italia era "predestinata".





    Ma sotto l'apparenza della cordialità, c'era una profonda disarmonia fra Bismarck e Visconti Venosta. Bismark avrebbe desiderato con l'Italia una permanente alleanza non solamente difensiva, ma anche offensiva. Visconti-Venosta non voleva saperne di un legame così completo e incondizionato. Pensava che la Germania avrebbe dovuto sempre affrontare la inimicizia della Francia per la questione dell'Alsazia-Lorena. L'Italia invece non avrebbe avuto più nulla da temere da parte della Francia nella questione di Roma, non appena i gruppi democratici e repubblicani riuscissero a prevalere in Francia. In questo caso, neanche un'alleanza difensiva con la Germania avrebbe rappresentato per l'Italia la stessa utilità che per la Germania: i rischi, che l'alleanza difensiva avrebbero coperti, non sarebbero stati equivalenti per i due paesi. Meno che mai Visconti-Venosta avrebbe consentito ad un'alleanza offensiva.

    Nel luglio 1875 egli scriveva al conte Robilant, ambasciatore italiano a Vienna: "Se la guerra dovesse essere provocata dalla Francia, con un atto di follia o di grande imprudenza; se la guerra dovesse scoppiare sulla questione clericale; la nostra posizione sarebbe perfettamente chiara; e il nostro atteggiamento ci sarebbe dettato e sarebbe giustificato da un diretto interesse comune fra la Germania e noi. Ma potrebbe anche darsi che la Francia non desse alcun ragionevole motivo di guerra; la guerra potrebbe scoppiare semplicemente per la ferma intenzione della Germania di assalire la Francia. Quale sarebbe, in questo caso, la nostra posizione?

    Da una parte, io ammetto gli inconvenienti della neutralità. Dall'altra, confesso che proverei la massima repugnanza a vedere l'Italia prendere parte, essa sola, ad una guerra, che sarebbe ingiustificata nell'opinione dell'Europa, e vederla seguire la Germania, meno come un'alleata, che come un sicario prezzolato. Inoltre, se dovesse scoppiare una guerra fra la Germania e la Francia, il risultato di questa guerra, qualunque fosse, sarebbe sempre dannoso e pericoloso per l'Italia. Se la Francia dovesse vincere - il che non è affatto probabile - l'Italia si troverebbe immediatamente in una posizione estremamente incerta e pericolosa. Se invece, come è quasi certo, la Germania dovesse nuovamente prostrare la Francia, sarebbe necessario fare qualcosa per farla finita con la Francia una volta per sempre: smembrarla: creare una di quelle combinazioni eccessive, innaturali, e perciò effimere, che ricorderebbe quelle con cui Napoleone usava fare e disfare le sue paci. Ora io penso che l'Italia è uno di quei paesi, che possono avere un avvenire solamente in un'Europa, in cui esista un certo equilibrio di forze".





    Per queste considerazioni, Visconti-Venosta manteneva bensì le migliori e più cordiali relazioni con la Germania come base della politica estera italiana; ma nello stesso tempo desiderava aspettare con calma il risultato della lotta fra clericali e democratici in Francia; e riservava la propria libertà d'azione. Cercava, insomma, di seguire quella che gl'inglesi chiamano la politica del " wait and see": aspettare ed osservare.

    Questa attitudine riservata irritava assi Bismarck. Egli voleva separare assolutamente l'Italia dalla Francia. Quando si avvide che la questione romana e le provocazioni dei clericali francesi non erano sufficienti a far piegare la politica estera italiana verso la Germania, incominciò a cercare un altro ego da mettere nella bilancia dalla propria parte.

    La Reggenza di Tunisi, nell'Africa settentrionale, era il più ovvio "pomo di discordia" fra l'Italia e la Francia. Malamente amministrata dal locale governo musulmano, Tunisi era facile preda agli intrighi e ai colpi di mano. Contigua al dominio francese dell'Algeria, e divisa dalla Sicilia solamente per un breve tratto di mare, Tunisi può essere considerata come una continuazione geografica ed economica tanto dell'Algeria quanto della Sicilia. Gli ospiti italiani vi erano assai più che i francesi, e il loro stanziamento era assai più spontaneo e più antico. Ma i francesi erano più ricchi e meglio organizzati, e possedevano le imprese economiche più importanti. L'Italia, quando fosse diventata padrona di Tunisi, avrebbe potuto assalire l'Algeria futura, e tagliare per mare, dalla base navale di Biserta, le comunicazioni tra la Francia e l'Africa settentrionale. Se fosse stata, invece, occupata dai francesi, Biserta era considerata in Italia come un pericolo mortale per la Sicilia.

    Una soluzione positiva del problema, che conciliasse gli interessi, le suscettibilità, le vanità dei due paesi, era estremamente difficile a trovare. Una politica negativa di disinteresse bilaterale avrebbe richiesto, tanto in Francia quanto in Italia, una saggezza sovrumana. Invece la storia della politica internazionale è quasi sempre, in fondo, una storia della umana follia e dell'umana cecità.

    Bismarck eccitando il Governo francese ad occupare Tunisi, poneva alle prese l'Italia e la Francia. E nello stesso tempo, sperava che la Francia, occupata nel crearsi un impero coloniale coll'aiuto della Germania, avrebbe dimenticato più facilmente l'Alsazia-Lorena, e avrebbe finito coll'abbandonare ogni rancore contro la Germania. Come diceva un giornale ufficioso tedesco in questi anni, Bismarck piantava nell'Africa settentrionale un parafulmine per proteggere la Germania contro una rivincita della Francia.





    Nel gennaio del 1875, Bismarck scrisse all'ambasciatore tedesco a Parigi, che la Germania non avrebbe opposto nessun ostacolo se il Governo francese avesse voluto " sciogliere la Tunisia dalla posizione di vassallaggio verso la Porta, e metterla in una posizione di dipendenza dalla Francia". Il ministro degli esteri francese accolse questa comunicazione con "viva approvazione". Le conversazioni furono riprese dopo la minaccia di guerra della primavera del 1875.

    Così cominciò a delinearsi quella intesa coloniale fra la Germania e la Francia, che doveva condurre nel 1881 la Francia a Tunisi.

    E via via che si rallentava la tensione fra la Germania e la Francia, Bismarck non sapeva più che farsene delle buone relazioni con l'Italia, e accentuava il suo malumore contro quella, che egli chiamava la "prudenza tradizionale della politica italiana".

    Questa freddezza fra la Germania e l'Italia aveva un cattivo effetto anche sulle relazioni fra l'Italia e l'Austria.

    Date le cattive relazioni fra l'Italia e la Francia, i governanti italiani non domandavano che di essere amici col Governo dell'Austria. Solamente gli estremi gruppi democratici, che rimanevano fedeli alle idee di Mazzini, propugnavano la politica della lotta a morte coll'Austria: allearsi con tutte le nazionalità non tedesche, che erano incorporate nell'Impero degli Absburgo e farle insorgere contro il dominio tedesco per dissolvere l'Austria nei suoi elementi nazionali, e annettere i territori italiani all'Italia. Ma questi gruppi erano più turbolenti che numerosi. La grande maggioranza del paese avrebbe giudicato come una pazzia il mettersi male con l'Austria, mentre la vita stessa dell'Italia era minacciata dai clericali, che predominavano in Francia.

    Senonché, nella guerra del 1866, l'Impero austro-ungarico aveva conservato la Venezia Giulia e il Trentino. La popolazione del Trentino era interamente italiana. Nella Venezia Giulia la popolazione era mista di italiani e di slavi: i contadini erano quasi tutti slavi: gl'italiani predominavano nelle più ricche e più colte classi delle città.

    Ora, nessuno in Italia, neanche nei partiti di Governo, concepiva la possibilità di lasciare queste regioni per sempre sotto il dominio austriaco. E qui nascevano formidabili difficoltà. In Austria nella questione di ulteriori cessioni di territorio all'Italia, tutti, dall'imperatore al più umile suddito, erano concordi in una sola opinione: e questa opinione era contraria a qualunque domanda dell'Italia.





    Gli ambienti militari tenevano a vile l'esercito italiano; si dicevano sicuri di batterlo al primo incontro; avrebbero desiderato una alleanza fra l'Austria e la Francia contro l'Italia. Il clero cattolico faceva una vivace propaganda fra i contadini di tutte le nazionalità dell'Austria per la restituzione del dominio temporale del Papa.

    È vero che il conte Andrassy, ministro degli esteri austro-ungarico a cominciare dal novembre 1871, rifiutava di lasciarsi trascinare dai clericali in avventure pericolose per far piacere al Papa, e resisteva energicamente alle correnti anti-italiane. Ma sulla questione della frontiera italo-austriaca, egli era non meno intransigente che i clericali, i militari, l'imperatore. "La frontiera fra l'Italia e l'Austria-Ungheria - dichiarava nel maggio 1874 - è fissata da ora in poi per sempre. L'Austria non può accettare nuovi cambiamenti territoriali, neanche per via di negoziati amichevoli. Si tratta di una questione di principio. Il giorno, in cui noi ammettessimo un cambiamento di frontiera per ragioni etnografiche, sorgerebbero subito simili domande da altre parti, e sarebbe quasi impossibile rifiutarle. Noi non possiamo dare all'Italia le popolazioni, che parlano italiano, senza provocare un movimento centrifugo verso le nazioni sorelle al di là delle frontiere in tutte le altre nazionalità, che vivono alla periferia dell'Impero".

    Andrassy era dispostissimo ad assicurare l'Italia che l'Austria non aveva intenzione di assalirla, e non avrebbe sollevato questioni come quella della situazione del Papa. In compenso domandava che l'Italia lasciasse mano libera all'Austria nelle questioni balcaniche, e non parlasse mai di rettifiche di frontiere austro-italiane.

    Dal punto di vista austriaco, aveva perfettamente ragione. Ma quelle stesse necessità di vita, che in uno Stato plurinazionale come l'Impero degli Absburgo, impedivano di accettare il principio di nazionalità come base di riordinamenti territoriali, quelle stesse necessità di vita impedivano al Governo italiano di abbandonare lo stesso principio. Perché lo Stato italiano era nato per forza di fede nel diritto di nazionalità. Su questo diritto solamente, il nuovo Governo trovava la sua base neutrale. Il Governo italiano poteva deplorare, e magari reprimere, come inopportune e pericolose, le manifestazioni più turbolente del sentimento nazionale, non poteva ripudiarle, proprio quando era continuamente obbligato ad invocare il diritto di nazionalità per affermare il proprio diritto all'assistenza contro i sovrani spossessati e contro il Papa. Non poteva rinunziare ad ogni rivendicazione per tutta l'eternità.





    Perciò i rapporti fra i due Governi erano sempre adombrati da un senso di inquietudine dovuto alla mancanza di reale fiducia reciproca. Questa diffidenza invincibile fu sempre il caput mortuum, il cancro roditore delle relazioni italo-austriache; era una antitesi permanente, che ad onta di tutti gli sforzi personali dei governanti, condannava i due Stati a una lotta per la vita: lotta che poteva rimanere latente ma che non poteva essere mai del tutto eliminata.

    In fondo, i governanti austriaci desideravano non tanto di avere l'amicizia dell'Italia, quanto di evitare che l'Italia avesse con la Germania e la Russia rapporti tali che potessero rappresentare una minaccia per l'Austria. Per questa ragione, l'atteggiamento di Andrassy verso l'Italia oscillava secondo che oscillavano le relazioni fra l'Austria e la Russia da un lato, e l'Austria, l'Italia e la Germania dall'altro. Finché i rapporti austro-russi rimasero malsicuri, e i rapporti fra Germania e Italia sembravano cordiali, Andrassy si mostrava amichevole con l'ambasciatore italiano.

    Ma nel 1873 Bismarck riusciva a conciliare le corti di Vienna e di Pietroburgo nelle questioni balcaniche in un compromesso, che doveva rivelarsi illusorio nell'ora di una nuova crisi, ma che per il momento sembrava assicurare la pace e la collaborazione fra i tre imperatori di Russia, di Vienna, di Germania. E via via che la cosidetta "Lega dei tre imperatori" sembrava eliminare il pericolo di una guerra austro-russa per le questioni balcaniche, la cordialità di Andrassy verso l'Italia si raffreddava.

    Quando, poi, Bismarck cominciò a dimostrarsi malcontento del Governo italiano e a favorire la Francia, allora anche l'atteggiamento di Andrassy passò dalla freddezza sospettosa al disdegno e all'ostilità.

    Proprio nel momento in cui le relazioni estere dell'Italia erano così malsicure da un lato con la Francia, dall'altro con la Germania e con l'Austria, la Questione di Oriente entrava in una nuova acutissima fase, nell'estate del 1875, in conseguenza della rivolta degli slavi della Bosnia-Erzegovina contro il dominio turco.

G. SALVEMINI.