Prerisorgimento

I CONCORDATI

    L'opera dei principi sabaudi, nei conflitti di giurisdizione con la Chiesa durante il Settecento, è tutta di carattere politico senza pretese religiose e senza intransigenze rivoluzionarie. Gli storici, da Oriani a Ruffini li accusano di troppa moderazione. Su Vittorio Amedeo II pesa l'onta dell'esilio del conte Radicati, su Carlo Emanuele III il tradimento e l'arresto di Giannone. Ma a guardare le cose sul serio è proprio il caso dei carnefici che cospirano con le vittime. Se infatti per una lotta religiosa chiara e netta mancava tra noi il fondamento indispensabile di una coscienza nazionale, Vittorio Amedeo II col garantire l'indipendenza dello Stato dalle pretese del Vaticano lavorava appunto per le premesse.

    I principi di Savoia guardano all'avvenire, ma tuttavia con moderazione e immaturità. Seguono il secolo nella lotta contro i Gesuiti; sono i primi a togliere loro le scuole. La tendenza del primo re si volge a deprimere i sovrani poteri dei nobili e degli ecclesiastici, per stabilire l'unità e l'organicità dello Stato: le parvenze democratiche servono all'assolutismo. Ma bisogna convincersi che solo l'assolutismo riusciva in quelle condizioni ad operare in una direzione laica. Ecco che almeno per questo aspetto il despota lavorava per la rivoluzione.

    Senonché una volta rassegnati a ignorare la libertà e a non proclamare la tolleranza non dovremo stupirci di vedere poi il re scendere ai ripieghi dei concordati, i quali significando un venire a patti, lasciavano in discussione la stessa autorità statale. Cosicché due secoli di esperienze ebbero un valore laico, appunto perché acuirono le menti e le attenzioni, abituarono i diplomatici a resistere al Vaticano e ad imporgli le riforme che miravano a seppellire il potere temporale. Si trattava di preparare gli uomini, i combattenti: intanto si sarebbero maturati i programmi e le idee.





    L'equivoco contro cui si trovavano a lottare i principi di Savoia era una tradizione di ossequio al Pontefice e di rapporti inguaribilmente ispirati all'idillio tra le due autorità. Papa Nicolò V aveva concesso nel 1451, quando Amedeo VIII rinunciò alla tiara, il famoso indulto e i duchi avevano riposato da allora sulla tranquillità di un potere riconosciuto, esteso sino all'autorità di dar riconoscimento ai dignitari ecclesiastici del proprio Stato. La prerogativa era ripagata ad usura dall'ossequio e dalla sottomissione continua. Nelle sfere ecclesiastiche si riteneva che pochi cattolici fossero così concilianti e fedeli come i buoni sovrani piemontesi.

    È indubitato che proprio a Vittorio Amedeo II spetti la responsabilità di avere capovolta la situazione; ma il secolo che lo precedette non vi fu del tutto estraneo. La dominazione francese aveva portato in Piemonte i liberi usi della Chiesa Gallicana. L'istituto dell'appel comme d'ubus diretto a consolidare l'autorità sovrana contro le invadenze della giurisdizione ecclesiastica fu portato a Torino nel 1539 da Francesco I, ed Emanuele Filiberto si affrettò a mantenerlo e a regolarlo nel 1560. Una seconda esperienza di carattere liberale all'estero si poté fare il Re, nel tempo che tenne la Sicilia. Gli intenti laici nascevano insieme con la liberazione dal provincialismo.

    E non è senza interesse notare come la rivolta contro la Chiesa cattolica venisse anche in Piemonte a coincidere con le prime timide manifestazioni di carattere democratico. È nelle Assemblee rappresentative che si parla la prima volta di anticlericalismo per opera e ispirazione del Terzo Stato. Si domanda una refformation des abbuz et excetz immoderez ecclesiastiques, tant des prelatz que inferieurs, si protesta contro le ingiustizie quilz se commectent en le stat ecclesiastique en abusant de leurs pretendus privileges. Da questi lamenti alle proposte positive di Radicati non v'era troppa distanza e infatti i propositi di riformare il clero nacquero e si diffusero quasi naturalmente.





    Tuttavia era più facile ottenere lusingando che minacciando. Il riserbo dei governanti piemontesi corrispondeva ad una profonda ragione di Stato, a una specifica esigenza di espansione che consigliava una politica di dignità verso il Vaticano, ma imponeva insieme la necessità di evitare nuovi nemici. D'Ormea e Bogino furono i diplomatici di questa situazione, dalla quale nacquero i dubbi effetti dei concordati.

    D'Ormea mandato a Roma per trattare con la curia le questioni più urgenti vince con le astuzie del commediante, più che con le risorse della dottrina.

    "Davasi a divedere delle religiose pratiche osservantissimo; e solendo il Papa di buon mattino dir messa in una Chiesa poco frequentata, ginocchione ei gli si parava dinanzi tutto assorto nella preghiera, un grosso rosario snocciolando... ".

    Si seppe sfruttare sino al fondo lo spirito di conciliazione del cardinal Lambertini diventato papa alla morte di Benedetto XIII. Solo Bogino non ebbe bisogno di siffatte scaltrezze per la sua politica volta all'abolizione delle manomorte. Ma la situazione era considerevolmente migliorata, né bisogna dimenticare che lo spirito di maggior conciliazione portato nei dissidi da re Carlo Emanuele III, servì piuttosto a consolidare i risultati, riconfermando i concordati contro le nuove velleità controffensive della Curia, che a continuare il processo, tranne che nella faccenda della Nunziatura. La politica del padre fu creativa e battagliera, il figlio ne seguì in tutti i campi mediocremente le orme.

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    Che cosa rappresentano i concordati? Come se ne valse lo Stato piemontese?

    Le materie regolate riguardavano piuttosto la sovranità civile che le necessità ecclesiastiche.

    Con cinque concordati (1726, 1727, 1742, 1791) si finì per riconoscere al Re di Sardegna il diritto di proporre alla Santa Sede i candidati ai benefizi concistoriali (vescovi e abati). Questo diritto di intenzione e consentimento era un caratteristico provvedimento di natura giurisdizionalistico, che ci ricorda le proclamazioni intransigenti del Radicati e ci mostra il re deciso ad avere sorveglianza sugli affari ecclesiastici. Nessuna meraviglia, se il concetto di una Chiesa Nazionale era in Europa diffuso, per la specifica influenza degli ambienti di Riforma.





    Coi concordati del 1727 e 1741 e con un altro del 1749 il Re affermava invece un suo preciso diritto di sovranità contro la giurisdizione che vescovi esteri dovessero delegare in dette frazioni un vicario che li rappresentasse. Era una forma della rivoluzione nazionale contro il cattolicesimo internazionale.

    La lotta per un principio unico di sovranità si affermava nella questione dei tributi, del foro e del diritto di asilo. Queste materie rimasero in discussione dal '27 al '92, e il buon diritto dei principi riuscì a prevalere. Lo Stato sgominava le resistenze antistatali, anarchiche del feudalismo ecclesiastico. Non si poteva conciliare con l'esistenza di una giustizia laica, esercitata da organi statali, la persistenza barbarica di un diritto d'asilo che rappresentava una vera e propria autorità in contrasto con la legittima. Era giusto che il privilegio del foro ecclesiastico fosse almeno limitato (1727-1742), dato che ancora il Governo non aveva forza bastante per abolirlo. I provvedimenti contro le immunità e le esenzioni dei benefici ecclesiastici poi rientravano in tutta la politica, arditamente intrapresa, di unificazione dello Stato e di rintuzzamento delle pretese delle classi dominanti e privilegiate. Il concordato del marzo 1727 e quello del 1728 autorizzavano Vittorio Amedeo II ad esigere tributi dai beni che la Chiesa avesse acquistati dopo il 1619; e nel 1783 Vittorio Amedeo III e Pio VI convenivano di assoggettare a tributi nella misura di due terzi anche i beni acquistati prima del 1619.

    Eccoci giunti non soltanto per la cronologia alle porte della Rivoluzione Francese. Il Re di Sardegna mira a farsi riconoscere il diritto dell'Exequatur sui provvedimenti ecclesiastici; limita la concessione del braccio secolare. Né importa che la Chiesa dia a queste riforme il carattere di sue concessioni sovrane. Ciò che si concede su questo cammino non si riprende. Il futuro è tuttavia salvo. Lo spirito della lotta contro il feudalismo può far agire tutte le sue risorse.

    Se a questo punto i sovrani si fermano perché intravedono nella Chiesa una difesa contro il pericolo di novità, l'iniziativa passa ai popoli, le riforme sboccano nelle rivoluzioni. Resta a vedere come il Piemonte fosse preparato a questo passo.

p. g.