La vita di Parma

    Il Parmense per il suo aspetto geografico ha una vita complessa. La pianura, la collina e la montagna alla diversità delle condizioni agricole uniscono diversità di economia e di ambiente. A grosse linee si può dire che la proprietà dal piano al monte va gradatamente frazionandosi: dai grandi proprietari della pianura (gli agrari) si arriva ai piccoli o meglio minuti proprietari della montagna. Però anche la grande proprietà per le esigenze particolari della coltivazione e della conduzione, le quali non permettono grandi estensioni, deve essere suddivisa in fondi (pochi raggiungono le mille biolche).

    Quasi nel centro della parte piana e collinosa c'è Parma (sulla via Emilia) che è il mercato della ricca produzione agricola. Le comunicazioni che congiungono la città con le valli e il piano sono ancora molto arretrate, ma il camion nelle sue possibilità rimedia ai bisogni. La Provincia e i Comuni del dopoguerra avevano affrontato questo grave e vitalissimo problema, ma vennero poi i commissari (regi e prefettizi), i quali hanno dovuto trascurarlo, occupatissimi a fare parchi, inaugurare gagliardetti e fare sagre: d'altronde, tralasciando le faccende che tanto avevano occupate e preoccupate le Amministrazioni defenestrate, collaboravano lodevolmente all'economia... nazionale.

    Ma Parma non è più quella del '59: la vita moderna l'ha rifatta. Chi la visita per ragioni di commercio o per ragioni di arte e di studio è generalmente sorpreso di trovarla così diversa dalle altre città emiliane, con quella sua pretenziosa aria cittadina che non vorrebbe mostrare nulla di provinciale. Per chi l'aveva conosciuta sui libri del Settecento, poi, la sorpresa è ancor più viva: non è più la città gialla di quel tempo, i sobborghi si sono aperti, edifici nuovi l'hanno trasformata abbellendola. Avendo conservata la sua importanza come centro di cultura superiore, con pinacoteca e biblioteca ricchissime, riesce a mascherare l'impronta che suole dare il commercio alla vita dei centri agricoli-industriali. Però, se si comincia a esaminarla in confidenza, risalta fuori l'ancien. Il parmigiano ha ancora del suddito ducale.

    Chi riesce a penetrare nell'intimo di Parma, ha subito la sensazione che la città vive nel provvisorio, nell'attesa di qualcuno assente a cui non sa rinunciare: il duca.





    Forse molte città italiane vivono questo stato mentale, sentendo questo bisogno di un duca da servire. Lo Stato è lontano da loro. Se il problema federale e regionale invece di essere finora agitato da persone serie (per cui trovò sempre larga indifferenza nel pubblico) fosse stato agitato da un romagnolo comme il faut, sotto un altro aspetto, qualcosa come un ducato amministrativo, chissà quale occasione avrebbe offerto per salvare la patria! Difatti s'è fatto più rumore per la soppressione di alcune preture che per qualunque violazione di libertà. Del resto il fascismo questo bisogno latente l'ha intuito, sia pure in forma vaga, o più probabilmente ne ha favorito il processo: i ras ne sono la conseguenza. Ogni centro che si rispetta ha il proprio signore dal quale, finalmente, si sente protetto e governato. Parma, per una complessa situazione, s'è' trovata fin adesso priva del proprio ras naturale e ha dovuto rassegnarsi alla signoria del prefetto Pugliese, il quale tuttavia non è stato inferiore al suo compito.

    Per i grandi progressi agricoli avvenuti da un trentennio a questa parte è venuto meno l'isolamento durato così a lungo per reciproca e tenace diffidenza fra campagna e città. E una forte spinta alla partecipazione diretta dei contadini alla vita politica venne dagli scioperi iniziati nel 1907 che li obbligarono a contare sulle proprie forze. La campagna comprese così quali interessi fossero in gioco nelle competizioni dei partiti e come non convenisse estraniarsene. Il conseguente sviluppo industriale e la guerra che ha portato a molti trapassi della proprietà della terra, hanno fatto il resto.

    La partecipazione dei contadini alla vita politica è, in certa guisa, il fatto più promettente per l'avvenire per quanto sia ancora lontano dalla maturità.





Il 1908.

    Nel maggio del 1907 Alceste De Ambris, divenuto segretario della Camera del Lavoro, sindacalista, riusciva abilmente a imporre, dopo brevissimo sciopero, le tariffe dei lavoratori della terra. Ogni resistenza degli agrari in quel momento, colti alla sprovvista com'erano, poteva compromettere tutta l'annata agricola. Tale capitolazione fu un brusco e brutto risveglio per gli agrari, come fu d'altronde cagione di illusione e infatuazione nel proletariato.

    Subito dopo la sconfitta la classe padronale cominciò a preparare la rivincita per ritogliere il concesso. Non potendo altrimenti combattere il nemico, s'apprestò a combatterlo con le sue armi stesse: all'organizzazione proletaria contrappose quella agraria. Tutto l'inverno fu una febbrile preparazione nei due campi nemici. L'entusiasmo da una parte e dall'altra era tenuto desto da truculenti articoli dell'Internazionale e del Bollettino dell'Agraria e dalle concioni degli organizzatori nei frequenti comizi. Nel febbraio l'alabardiere dell'Agraria, Lino Carrera, proclamò la serrata per creare difficoltà ai sindacalisti e provare l'efficenza degli agrari. Così a primavera i due eserciti erano pronti e impazienti di venire alla prova. De Ambris tuttavia comprese la gravità e le incognite della lotta e tutto l'aprile cercò d'épater gli avversari onde avere la possibilità di evitarla: anche se la sua posizione personale e quella dei sindacalisti per la vittoria precedente era buona, sapeva però di poter fare poco affidamento sull'appoggio delle organizzazioni confederali e socialiste, solidali ma non troppo e per di più gelose e pavide di un successo o insuccesso sindacalista. Ma la situazione non ammetteva più possibilità di temporeggiare: era arrivata agli estremi e lo sciopero era inevitabile.

    Scoppiò alla fine d'aprile e fu un avvenimento che impressionò tutta Italia e richiamò anche l'attenzione dell'estero. Parma é ancora creduta rivoluzionaria per gli avvenimenti d'allora, per il '908. Ma, guardato nelle sue linee generali, quello sciopero si riduce a più modeste proporzioni. L'equilibrio rotto bruscamente non poteva ristabilirsi tanto presto e in modo pacifico. Il successo, così facile, aveva inebriato la massa; la fiducia nella lotta guerreggiata divenne idolatria; la battaglia sistematica fu creduto il mezzo infallibile per ridurre all'impotenza gli agrari; era dunque necessario che quella lotta fosse portata agli estremi dall'una e dall'altra parte per riconoscere la realtà.





    La lezione fu pari al bisogno. Il ricchissimo patrimonio bovino, allevato e scelto con tante cure in molti anni, fu venduto e disperso in pochi giorni per sottrarlo alla fame; furono organizzate squadre costosissime di liberi lavoratori; furono sfrattate in massa le famiglie degli scioperanti; ogni cosa pensabile fu fatta, ma l'annata agricola andò quasi interamente perduta e il danno fu incalcolabile, perché i campi, per il sistema speciale di conduzione e di coltivazione, richiedono una cura vigile, paziente e costante. Circa ventimila contadini scioperarono l'intera stagione dei campi in tutta la pianura più prossima alla città (la regione Borgo S. Donnino era nelle mani dei socialisti di Berenini); la compattezza andò oltre lo sperabile, ma, evidentemente, questa non è tutto per l'esito di uno sciopero. In conclusione, per i suoi fini immediati, lo sciopero fu una sconfitta per gli agrari e per i sindacalisti. Fu tuttavia un esperimento o una lezione, come s'è detto, necessario e proficuo: la relativa tranquillità della pianura parmense nel 1919-21 ne è la conseguenza (1).

    Meriterebbe un esame più ampio "il '908 " parmense, perché vi si trovano in germe manifestazioni assurte a proporzioni maggiori nella vita italiana dal '915 ad oggi, ma non sarebbe possibile farlo senza diffondersi sull'evoluzione agricolo-industriale della provincia. Basti per ora un cenno alle squadre dei pellirosse, squadre (armate) che proteggevano i crumiri e si trasportavano da un posto all'altro in automobile per fare giustizia nel modo particolare come gli agrari la concepivano e per cui erano poco persuasi della forza pubblica; nel campo sindacalista si trova il resto. Molti organizzatori sindacalisti (Rossoni, Rossi, Bianchi, Racheli, ecc.) scapparono da Parma per evitare, le noie del mandato di cattura; ognuno può comprendere quanto fossero benvisti dagli agrari (e vi sono tornati commendatori, attesi dal prefetto alla stazione, dove gli agrari inquadrati prestavano servizio d'onore).





Le classi.

    Il proletariato nello sciopero del '908 dimostrò una disciplina davvero insperata; fece una resistenza eroica. Ma in tutti quegli avvenimenti vi è più del fanatico che del cosciente. Gli operai e i contadini organizzati dalla Camera del Lavoro, più che il sindacalismo, seguivano De Ambris. Uomo scaltro sotto un aspetto ieratico, dal gesto mezzo da capo e mezzo da padre confessore, con linguaggio scritto e parlato punto evangelico, faceva leva sui sentimenti più incoscienti della folla fanatica; ergendosi a protettore di povrett diventò il duca della piazza. E quando tornò dalla Svizzera per l'immunità parlamentare, nel 1913, alla stazione oltre quarantamila persone l'attendevano; le donne, fra gli osanna gridavano: "Guerdol là ve, el noster Dio" e innalzando i bimbi sopra la folla, aggiungevano: "Vedot, col l'è to peder". Non saprei se qualcuna dicesse il vero, ma per i più era l'infatuazione per il santo protettore, il piccolo padre.

    La plebe (bisogna dirlo, c'è ancora una plebe) e parte della borghesia conservano la mentalità dei parmigiani che nel 1831, esasperati contro alcuni funzionari diretti di Maria Luigia, appoggiarono i rivoluzionari e applaudivano la duchessa tentando d'impedirle la fuga, onde non abbandonasse gli amatissimi e fedelissimi sudditi, come se i funzionari commettessero le angherie e i soprusi di propria iniziativa, contravvenendo ai voleri di lei e anzi le impedissero di governare secondo la clemenza del suo cuore. Francesco Guicciardini, quando fu governatore di Parma, pare non avesse bisogno di questa doppiezza, di questa pratica di governo; infatti non ne parla nei suoi Avvertimenti; altrimenti, dopo aver detto "che a chi non è de nostri non fosse fatto beneficio alcuno" e "bisogna siano gli onori e gli utili dati in modo che chi ne percepisce diventi sì odioso all'universale che sia forzato a credere non poter essere salvo in uno stato di popolo", avrebbe aggiunto: "il duce deve lasciar creder all'universale essere i suoi consiglieri colpevoli di ogni male ed egli solo in animo di voler il bene, dei sudditi e dello Stato".

    Questa massa spiritualmente povera, dunque politicamente nulla, costituisce una parte considerevole della cittadinanza e pertanto un fattore non trascurabile per spiegare avvenimenti e situazioni altrimenti incomprensibili. Essa, mentalmente incapace com'è a formarsi un indirizzo o seguire un interesse e tanto meno un'idea, un ideale proprio, ripete come l'eco le idee incomprese degli altri, passando da un estremo all'altro con la facilità propria delle turbe, facili a calpestare oggi gli ideali ai quali s'inchinavano ieri.





    Il suddito tipico, che sperava sempre nella paterna bontà e grazia del duca per gli a. e f. sudditi, e sperava - nutriva fiducia - anche quando avrebbe avuto ragione di disperare, e anzi era proprio allora che sperava di più, quel suddito, tutto dell'ordine e del duca, s'è conservato e riprodotto nella piccola e media borghesia, intellettuale e stracciona, e altrove la si trova nell'impiegato il quale si consola quando la Società che lo sfrutta aumenta il capitale coi fondi di riserva e gli diminuisce lo stipendio. In gran parte questa borghesia in erba, che della ricchezza non ha che il desiderio e perciò disprezza il proletariato dal quale è separata solo per la propria boria, questa borghesia da la pancia smilza, nella sua mentalità è ancora quella dei tempi ducali. È diventata patriottica ammalandosi di patriottismo. Non potrebbe dunque essere classificata che accomunandola con la plebe: i paria della società.

    La borghesia agraria, in passato composta di ricchi campagnoli, molti dei quali risiedevano in città, s'è molto trasformata con la guerra che ha permesso a molti fittabili e mezzadri - per particolari condizioni di contratti gli uni, per condizioni di famiglia, lasciata con disponibilità di mano d'opera adeguata al bisogno, gli altri - di venire in possesso della terra e alcuni di ricchezze considerevoli. Essa ha progredito sotto l'aspetto agricolo (s'interessa d'ogni miglioramento e d'ogni innovazione), ma nei suoi rapporti con i contadini ha cambiato di poco la mentalità del fazendiero. I nuovi ricchi sono peggiori degli altri. Nello stesso fenomeno fascista sono questi che hanno dimostrato maggior malanimo e rancore contro i compagni di ieri, rei di aspirare a una vita di minor stento e maggior dignità. Essi capeggiarono le spedizioni schiaviste e si distinsero nel servire la patria con invasioni e devastazioni di case e cooperative proletarie.

    Nella classe dei commercianti e degli industriali, per la sua posizione speciale che la tiene a più intimo contatto della vita, della realtà, c'è maggior comprensione per i bisogni e le aspirazioni del proletariato. Naturalmente molti vi sono arrivati dopo errori personali e collettivi.





    Le varie categorie del piccolo commercio e della piccola industria, a forte tinta democratica - democratici furono sempre gli artigiani e i bottegai, nel significato migliore e più proprio della parola - in realtà hanno proseguito il loro cammino, veramente glorioso, iniziato col Risorgimento: il movimento classista operaio, per riflesso, non ha fato che accelerarlo.

    Due parole merita anche la Montagna, com'è detta la parte dell'Appennino parmense, che solo adesso comincia a far atto di presenza nell'agone politico. I montanari sono quasi tutti minuti proprietari e costituiscono dunque una classe particolare. La montagna non è molto redditizia per le sue condizioni e per i sistemi di coltivazione molto primitivi, ma il montanaro riesce a vivervi per la sua tenacia nel lavoro e per la frugalità della sua vita. I suoi bisogni sono limitatissimi: è perciò schiavo di poche necessità. L'isolamento durato finora e la vita sana nel corpo e nello spirito, l'hanno conservato nelle sue qualità migliori. Egli va piano, sano e lontano: persino la morte deve aspettare, perché, assorto com'è nelle sue cure, non si decide a riceverla se non il più tardi possibile; d'altronde essa comprende quanto sarebbe inutile aver fretta con questo cliente sempre sano e impassibile alle esortazioni del medico e del farmacista.

    Nel campo delle idee il montanaro segue lo stesso principio e le sue opinioni, buone o cattive, non le cambia tanto facilmente: non segue la moda dei cittadini. Col suo buonsenso non può impressionarsi eccessivamente delle chiacchiere sapienti di quelli che, in quattro e quattr'otto, credono di convincerlo che lui è un ignorante e loro sanno tutto: e quello che non sanno non esiste.

    I galoppini elettorali sono ricevuti degnamente solo in montagna dove possono concionare a loro piacere. Indifferenza massima per tutti i chiacchieroni. La diffidenza è un po' il loro difetto e la loro virtù. Il fascismo non ha potuto affermarvisi perché vi ha trovato un senso di responsabilità e di coerenza ai quali non era abituato e preparato. Le lusinghe, la corruzione, il malcostume, le angherie sono state respinte con un senso di onore ammirevole. Anche spiritualmente, dunque, il montanaro ha buone qualità per star sano e fare lungo viaggio. E si può aggiungere che la libertà alberga ancora sui monti.





Uomini e partiti.

    Finora sono stati alcuni uomini, più o meno significativi, che esprimevano e impersonavano le idee politiche in questo ambiente. Ristrettissime camarille potevano così fare e disfare a loro piacere gli interessi della moltitudine. Spossessate con l'organizzazione dei partiti, esse si sono buttate nel fascismo cercandovi compenso.

    E nel partito fascista s'è continuata la tradizione della politica fatta dietro le quinte, ma adesso c'è probabilità d'un cambiamento perché il fascismo parmense ha ormai il suo duce, un duce che Piacenza, Cremona e Bologna possono con ragione invidiarle: Lusignani. Giolitti gli aveva appioppato tanto di contea per benemerenze elettorali verso la patria e così è dovuto stare per tre anni in tribunale per difendersi dalle accuse e dalle querele. Nel '922, dopo lo sciopero d'agosto durante il quale furono saccheggiati gli studi degli avvocati avversari di Lusignani e devastati gli uffici e la tipografia del quotidiano il Piccolo, il fascismo (chissà perché?!) lo scacciò dalle sue file, ma nel '924 riparava l'ingiustizia tesserandolo ad honorem. In questo frattempo la vita del fascismo è stata molto precaria sebbene gli agrari e tutta la borghesia patriottarda con i versipelle di ogni ceto ne avessero ingrossate le schiere. Le lotte intestine, i giochi puerili e le furbizie dei riformisti di Palazzo Giustiniani, che credevano di essere più scaltri dei loro avversari di Piazza del Gesù e di poter dominare il movimento con un cavallo di Troia, hanno fino adesso tenuto il fascismo impegnato nelle faccende di casa e se non s'è sfasciato lo si deve alle paterne cure del prefetto Pugliese.

    Lusignani non ha nulla da imparare dal mussolinismo e dal machiavellismo; nella sua vita turbinosa ha peccato solo nella fretta, rovinando tutti i partiti e i movimenti ai quali riusciva ad appoggiarsi; pare che dopo l'agosto '922 sia stato più cauto e se al fascismo riesce a tenersi puntellato, ormai ha maggior probabilità di riuscire nei suoi scopi.





    I democratici, nelle loro frazioni, potrebbero essere i più forti, invece sono i più deboli, i debolissimi. La loro convivenza con altri partiti, liberali e riformisti, e più l'ambiguità dei blocchi di cui fecero sempre da prezzemolo, li ha evirati. La condotta di quelli che ne dovevano essere i capi ha sfiduciati i gregari e la diffidenza li ha portati allo scetticismo. Ora che i riformisti e i socialisti unitari vanno polarizzandosi, potranno forse raccogliere questo esercito sbandato, ma c'è da dubitarne. E lo dimostra la posizione dell'on. Berenini, il quale non ha potuto conservare il mandato parlamentare pur avendo ancora un seguito personale considerevole.

    Il quotidiano il Piccolo, vivacissimo e battagliero, diffuso in tutta la provincia, in tutti i ceti e fra gli avversari, ha saputo tener alta la bandiera della democrazia. Le devastazioni, le persecuzioni (e un attentato all'epoca del prefetto Pugliese, contro il direttore e i redattori andato a vuoto per combinazione) non sono riuscite a farlo deflettere dalla sua linea.

    Il partito liberale, la cui lista elettorale del 6 aprile fu annullata, perché parente di quella di Giolitti, dopo il passaggio in massa di tanti suoi esponenti alle file fasciste, s'è dato un'organizzazione che tende a rinsaldarsi, ma è ancora circondato dalla diffidenza del suo passato e sarà un compito faticoso quello di superarla.

    Il partito organicamente più forte è quello popolare; nelle elezioni scorse riportò oltre la metà dei voti di opposizione e guadagnò due dei cinque mandati della provincia.

    L'on. Micheli è il partito popolare. Egli successe all'on. Bosetti nel Collegio di Castelnuovo Monti e poi passò a quello di Langhirano; in campo politico opposto, continua la tradizione del suo predecessore considerando suoi protetti i montanari. Ai problemi della montagna ha dedicato gran parte della sua attività (abilmente organizzativa), e se non ha potuto risolverli quando fu ministro, fu per la mediocrità dei suoi coadiuvatori. Ora questi allocchi sono passati dove c'è più bisogno di comparse e la compagine del partito ne ha sentito tutti i buoni effetti. La posizione dell'on. Micheli è tipicamente personale; ha forse più di un collegio sicuro.





    I partiti socialisti e quello comunista risentono ancora gli effetti della separazione che nella massa significa confusione, nuova aggiunta a quella preesistente. Le loro forze, nonostante qualche iscrizione ai sindacati, sono ancora buone e un regime di libertà renderebbe loro le posizioni perdute.

    Una sorpresa fu il migliaio di voti riportati, quasi sparsi in ogni seggio della provincia, dalla lista repubblicana nel 1924. Senz'alcuna propaganda e con la libertà che c'era, fu veramente una bella affermazione.

    Il Parmense deve però in gran parte la sua fortunata evoluzione al senatore Mariotti e al prof. Antonio Bizzozero, i quali con la sola forza della propria onestà e della propria fede hanno fatto l'impossibile.

    Il senatore Mariotti, vice-presidente del Senato, eletto per la minoranza, con l'appoggio dei partiti popolari è stato per molti anni sindaco della città. Nel periodo della sua Amministrazione il Comune ha demolito quartieri, aperte nuove strade, costruite case popolari e scuole: ha dato aria, luce e decoro alla città. Il popolo, anche quello più ignorante, intuì di avere in lui un amico sicuro e non l'abbandonò mai nelle subdole e velenose offensive dei partiti... patriottici, arrabbiati per quelle quattro palanche di tasse che il Comune doveva esigere, senza gravare sulla povera gente, per le opere di pubblica utilità.

    Antonio Bizzozero è un apostolo della cooperazione. Dal 1892 è direttore della Cattedra ambulante di agricoltura. Da quel tempo con opuscoli in forma popolare, con conferenze e più con l'esempio pratico e la propaganda agricola è riuscito a far accettare agli agricoltori più testardi i metodi nuovi di coltivazione e tutti i suggerimenti della sua scienza. Frutto di questo pazientissimo lavoro è quel meraviglioso progresso agricolo che ha diffuso il benessere a tutte le classi. Egli stesso deve compiacersi del progresso impresso a questa provincia, ma il suo animo evangelico soffrirà di certo vedendo molti dalla miseria arrivati al benessere seguendo i suoi consigli, che ora sembra abbiano dato bando a ogni sentimento d'amore e di solidarietà verso i miseri, verso i compagni di ieri, quando con la ricchezza mancava in loro l'orgoglio e la vanità, cause della presente ingiustizia. È sempre rimasto fuori dalle competizioni politiche ma il suo programma è eminentemente politico: "Noi italiani bisogna che ci abituiamo ad avere fiducia in noi stessi e a fare senza pensar mai al Governo. Sarà anche un modo per liberarlo da tante piccole noie, perchè possa attendere ai grandi problemi d'interesse veramente nazionale".

    Fra tanti ambiziosi e tanti intriganti e in un ambiente così ostile questi due uomini hanno saputo compiere la loro opera laboriosa schivi degli applausi e sempre sereni e fidenti nella loro fede.

ENEA GROSSI.




Nell'anteguerra la produzione lorda della provincia si valutava a 300 lire per ettaro (quello d'Italia 270). Nel 1918 si valutava 200 milioni, quindi la media era di 700 lire per ettaro.
Il progresso zootecnico è evidente confrontando il censimento del '908 con quello del '918 (cens. '908, capi bovini 137.808; cens. '918, capi 169.390; aumento 31.580), e bisogna tener presente che dal principio della guerra all'epoca del censimento le Commissioni per la requisizione del bestiame avevano prelevato 68.110 capi per un peso vivo netto complessivo di quintali 277.265.
A un mio questionario l'amico Aristide Foà, il quale, con sentimenti che mi ricordano Bettino Ricasoli, s'interessa vivamente della vita della campagna e dei contadini, rispondeva:
Gli spesati sono pagati con un salario annuo, formato di una parte in prodotti e di una parte in denaro, che complessivamente si aggira (in media) sulle 3500 lire annue; l'ammontare è fissato al prinicipio di ogni anno dalle organizzazioni.
Questo vale per la pianura che è la parte più importante. Ed è perciò che ho creduto opportuno riportare, con qualche omissione necessaria, quanto sopra.
In attesa di esaminare più diffusamente le condizioni economico-agricole dell'intera provincia (compresa la collina e la montagna), questa postilla può giustificare alcune asserzioni fatte trattando la situazione politica.