DEMOCRAZIA RURALE

    L'ordine del giorno recentemente votato, ad Acqui, dalla Direzione del Partito dei Contadini è molto sintomatico, là, sopratutto, dove il partito "riafferma il proprio attaccamento agli indistruttibili principii di democrazia, di giustizia e di libertà". Tali enunciazioni sono certo vaghe, ma il loro valore consiste nel fatto che, anche se formalmente sono la ripetizione di affermazioni già fatte, in realtà esse tracciano, malsicuro ancora, un certo nuovo orientamento del partito. Questo fin qui, nonostante la sua intitolazione, non era affatto un partito, cioè un dichiaramento di postulati generali, ma, piuttosto, un grosso sindacato di interessi di piccoli proprietarii coltivatori, sul tipo dei Sindacati Agricoli già magistralmente illustrati dal De Breguigny. Neanche esso sfuggiva, naturalmente, alla necessità di "fare della politica", poiché ogni aggruppamento di uomini nel momento stesso in cui si costituisce, e si costituisca pure per essere apolitico, è, in realtà, un atto politico. Anzi bisogna dire che le interne vicende elettorali e parlamentari del partito dei contadini (che ha avuto anch'esso i suoi aderenti (per questo espulsi) "nazionali", lo hanno dimostrato affetto da un vivace e anche un po' sguaiato politicantismo. Ma con tutto ciò, e questa anzi è una prova, esso non ha mai agito come un partito, ma si è, con gretto e sterile opportunismo, attenuto alla applicazione di quella sua formula "Da noi", che è lo specchio esatto del suo fondamentale spirito: il corporativismo del paysan.





    In una intervista concessa tempo fa alla Gazzetta del Popolo, Mario Casalini, uno degli esponenti del Partito, dichiarava "Intendo il partito dei contadini per valorizzare questi, e per risolvere i loro problemi tecnici speciali mediante la loro forza organizzata. Ciò non esclude anche la possibilità che i contadini abbiano i lori rappresentanti al Parlamento, nelle Provincie e nei Comuni; vi porteranno voci dirette e più sentite; ma, all'infuori di questo, i contadini, organizzati come categoria, debbono considerarsi come parte inscindibile della classe, alla quale appartengono: la politica generale non può essere sottratta alle grandi correnti, che gli interessi delle classi determinano e suscitano". C'è in proposito da domandarsi: se si possa parlare di categoria, nel senso, diremo, operaistico con cui ne parla, evidentemente, il Casalini, di fronte a un conglomerato di persone, che si noverano a milioni; e se vi sia proprio una "classe", anche qui nel senso socialistico e ormai convenzionale della parola, cui esse appartengono, quando pare evidente che i piccoli proprietari lavoratori fanno parte proprio della classe degli "inclassificabili". Ma quel che importa constatare è come, nelle parole surriportate, sia nettamente affacciata l'esigenza, da parte della massa dei contadini, di travalicare i cancelli del categorismo utilitario dei "problemi tecnici" (che cosa significa? il credito agrario, l'imposta sul vino, i dazii consumo, sono forse questioni "tecniche"?) e' di assumere un atteggiamento definito in quella politica generale, che è frutto e funzione delle "grandi correnti". E qui le difficoltà risorgono: perché le politiche generali, accettate o adottate anche dai contadini, qualificati nel senso che abbiamo detto, sono parecchie. La Federazione dei Lavoratori della Terra aveva, notoriamente, la sua: essa consisteva, nelle grandi linee, nel contemperare le esigenze dei lavoratori puri con quelle dei piccoli proprietari. Su un piano somigliante, ma con rilievo più risentito, si muove la politica da non molto tempo inaugurata, secondo evidenti modelli, del partito comunista, il quale ne ha anche raccolto dei risultati non trascurabili. Del partito popolare non val la pena di dire: il suo procedere è noto. E ora siamo alla adesione consapevole dell'organizzazione dei contadini ad un orientamento generale del tutto nuovo: il quale prende nome e inspirazione dai "principii di democrazia".





    In proposito, la prima osservazione da farsi è questa: che, nonostante sia il quarto in ordine di tempo, pure è questo il primo movimento che, nel senso moderno e non antonomistico della parola, i contadini abbiano fatto nel nostro paese. La differenza principale fra esso e quelli che lo hanno preceduto è: che questi, poco più poco meno, sono stati tutti creati e suscitati dalla propaganda di partiti politici; mentre quest'ultimo sgorga, col massimo di spontaneità possibile, dalle ragioni stesse della economia degli interessati. E questo spiega anche perché esso sia venuto alla luce proprio e solo negli anni del dopoguerra. Il periodo che è seguito all'armistizio, e che, sotto questo aspetto, tuttora dura, è stato caratterizzato dappertutto, ma specialmente nei paesi, come il nostro, a economia industriale debole e in gran parte artificiale, dal preponderare e dall'irrompere delle esigenze della economia agraria. Il green rising e 1a levée verte - la riscossa dei campi, diremmo noi - non sono affatto, i nomi lo dicono, una specialità nostra e rappresentano, in genere, le confluenze di due fatti: il sopravvivere, in quasi completa efficienza della economia agraria in confronto di quella industriale disarticolata dalla guerra; e il maturarsi della coscienza, cioè della democrazia, dei ceti agricoli minori, non strettamente proletarii. Così è stato anche da noi. Questo nuovo risveglio dei contadini non si spiegherebbe (o sarebbe effimera: Enrico Ferri non tentò, una decina d'anni fa, nel Mantovano, una "democrazia rurale" subito, allora, abortita?) se mancasse uno solo di questi due fatti concomitanti, ma, nei limiti in cui il coefficiente economico sussista, esso ha tutti i caratteri d'una vitale stabilità. E' anzi, forse, il più serio tentativo di organizzazione di medio ceto che sia nato negli ultimi sette anni, che pur tanti ne hanno visto; e poiché, data la situazione nostra e quella generale, è difficile supporre che l'economia agricola sia soverchiata o da quella industriale o, meno ancora, da quella dei consumatori organizzati, così si deve prendere atto che un fattore del tutto nuovo, embrionale ancora ma capace di molti sviluppi, é entrato nel gioco libero delle forze politiche.





    Il fatto deve interessare, in tutto, i partiti, diremo così, ufficiali della democrazia. E' cosa loro. Già c'è da notare che anche il "risveglio" di questa classe si fa nel nome di quegli stessi principii che li ispirano: il che vale a provare una volta ancora, se ve ne fosse bisogno, che ogni nascita e ogni rinascita di forze sociali e morali nuove non può annunciarsi che nelle formule della democrazia. Ma vi è, soprattutto, un riflesso jeratico che ha importanza; ed è l'estensione e la correzione (si potrebbe anche dire: purificazione) che i partiti democratici tradizionali possono attendersi da questo afflusso di forze nuove e sane, che gravitano verso la loro orbita ideale. Non è, infatti, rilevare una novità far presente che, per ragioni storiche ovvie e generali e per ragioni politiche a noi peculiari ma anch'esse notissime, la nostra democrazia è stata sempre un fenomeno essenzialmente urbano: lo è stato con Cavallotti; poi con Sacchi; e lo è anche adesso nei due gruppi della Democrazia Sociale e della Democrazia radico-socialista. Ora questa sua caratteristica ha condotto a una debolezza e a un vizio egualmente evidenti: la prima, che si capisce da sé, è che i partiti di democrazia hanno visto rarefarsi enormemente le proprie schiere man mano che il "paese legale" si ampliava; e il secondo e che, costretta in una cerchia di interessi sempre più angusta, essa è stata incline a degenerare in clientela e a diventare una formazione quasi esclusivamente personalistica, parlamentare e governativa. Ora a entrambe queste manchevolezze (la seconda può anzi dirsi mortale, ed è di essa sopratutto che i partiti democratici stavano morendo) un fiotto di energie abbondanti e vergini può portare, sia dal punto di vista tattico che dal punto di vista dottrinale, un rimedio salutare. E' un innesto. Anche i partiti di democrazia, che hanno cessato da circa quindici anni di essere partiti di masse, (non sono "masse" né le camorre né le élites) potrebbero così, senza deflettere dai proprii postulati, allargare la propria sfera d'influenza e poggiarsi su interessi vasti, concreti, un po' rozzi forse, ma schietti. E, inoltre, rieducati a una visione programmatica dall'ingenza e dalla omogeneità delle nuove forze, sarebbe loro facilitato il compito di riassorbire gran parte dell'opportunismo e del personalismo, che li caratterizzano e li inficiano.





    Sarebbe facile dimostrare come il maggior numero di inconvenienti - tattici e etici - che si riscontrano nei partiti della democrazia derivi dalla adesione da essi data alla causa del protezionismo. Qui c'è tutto o quasi tutto: c'è il ministerialismo cronico o quasi, il servilismo della stampa, lo straniamento dalle forze produttive reali e la subordinazione a quelle fittizie e non oneste della speculazione, l'abbandono degli interessi dei consumatori ecc. ecc. Ma tutto ciò dovrebbe cessare completamente, o almeno ridursi ai minimi termini, il giorno in cui una abbondante immissione di interessi agricoli nelle correnti democratiche le trasporterà inevitabilmente sul terreno del liberismo. E' questo uno dei sostanziali punti di conversione della vecchia democrazia urbana al contatto della nuova democrazia dei campi. Non è, infatti, dubbio - dalle tariffe del 1887 fino all'ultimissimo accordo provvisorio con la Germania se ne ha la prova continua - che la produzione agricola è ancora la grande branca della nostra economia, che possa affrontare, almeno in numerosi suoi rami, la concorrenza dei prodotti esteri. I margini di questa possibilità hanno innegabilmente piuttosto tendenza a restringersi che ad allargarsi; e ciò è in rapporto con la industrializzazione agricola, che è dappertutto crescente, e che annulla via via i privilegi naturali di suolo, di clima e, anche, di capacità tradizionali. Ma, per ora e per un bel lasso di tempo ancora, la produzione agricola rappresenterà pur sempre, sulla base reale e seria degli interessi, il focolaio principale della opposizione al protezionismo industriale oligarchico e parassitario, né sarà possibile a nessuna corrente politica rappresentarla se non a patto di accettarne questo punto fondamentale. Possono bensì, sul terreno pratico e utilitario, aver luogo dei compromessi con gli interessi protezionistici - oggi stesso non viviamo forse in un regime di compromesso, che è però passivo per l'agricoltura e attivo per l'industria?; - ma la linea essenziale degli interessi dell'agricoltura coincide con la linea essenziale del liberismo; e una democrazia, in quanto non solo difende i vantaggi attuali ma concilia il programma massimo d'una libera classe di agricoltori in via di progredire, dovrà per forza, conformandosi essa stessa ai proprii postulati vitali, uniformarvisi.





    Ma poggiate su questi interessi che, pur essendo tra di loro così disformi, sono eminentemente discentrati e sparsi, le correnti democratiche saranno anche chiamate a rettificare quelle accentuate tendenze statalistiche e accentratrici, che, in sé e per sé, rappresentano una contraddizione in termini con gli emancipati spiriti di ogni democrazia. Una volta sorpassata la ristretta, accomodante e utilitaria visione puramente sindacale dei proprii interessi, le classi agricole minute, proprietarie coltivatrici (ovverossia munite di entrambe le forze della personalità politica indipendente e libera: la proprietà e il lavoro) si comportano come nuclei vivi di democrazia in atto. La organizzazione libera dei lavoratori della terra fatta dai socialisti era riuscita a creare una forma spontanea di vita locale e a realizzare un vero e proprio aspetto della democrazia in centinaia e centinaia di comuni rurali. Con altre forze, non sempre inferiori neanche numericamente, ma sullo stesso piano, agiranno i ceti organizzati dei contadini. I dibattiti sulle questioni tributarie locati, oggi abbandonate quasi esclusivamente nelle mani delle organizzazioni agrarie nazionali che esprimono in gran parte gli interessi del grosso possesso, possono essere un elemento di risveglio e di interesse alla cosa pubblica di primo ordine: ne abbiamo avuto un primo esempio (però non troppo degno di mutazione) nell'agitazione quasi scioperista contro le sovrimposte fondiarie comunali e provinciali di tre anni fa. Anche i problemi attinenti ai lavori pubblici, fino ad ora manipolati o a libito della burocrazia centrale oppure sotto quella dei datori di lavoro interessati a creare una disoccupazione artificiale, diventeranno oggetto di nuovi interessi in contrasto, come, in mezzo a infinite diversità, accade nelle comunità rurali svizzere. Per ogni verso il senso delle autonomie locali rifiorirà. Quel filone profondo e oscuro di democrazia, ancora malamente affiorata, che muove da Proudhon e da più di un accento alle correnti attuali della nostra democrazia repubblicana, avrà un nuovo potente contributo, verrà forse per la prima volta alla luce: ovverossia andrà a realizzarsi, sotto forma di un crescente self-governement locale, uno dei postulati primordiali della democrazia.





    E' impossibile, entrare qui in dettagli maggiori. Gli spunti principali si potrebbero facilmente trovare, fra gli altri, in un magnifico studio di Fritz Baade pubblicato nel fascicolo di novembre della rivista Die Gesellschaft e intitolato Bichtlinien für ein Sozialdemokratisches Agrar programm. Da questo studio è evidente che la socialdemocrazia, funzionante in realtà da democrazia, si trova davanti a dei problemi analoghi a quelli che ormai incombono sulla democrazia italiana; e che anch'essa li risolve in un solo senso essenziale: quello della libertà e dell'autonomia degli interessi e delle classi agricole, dovunque in procinto di uscire dalla stato di soggezione e di passività in cui finora sono rimaste.

N. MASSIMO FOVEL