LIBERALISMO IN ATTO

    In Italia, il Partito Liberale è tale solo di nome, di fatto è un partito di conservatori, nel senso più ristretto della parola, e di clerico moderati.

    In Inghilterra, nella lotta combattuta tra i labouristi al potere e i conservatori che sono riusciti a cacciarneli, il Partito Liberale ha agito come zavorra la quale, spostandosi, determina si un mutamento di equilibrio, ma è pur sempre un peso morto. Tanto al momento dell'assunzione ai potere di Mac Donald quanto dopo le ultime elezioni, molti furono concordi nell'asserire che il P. L. aveva sentito suonare la sua ultima ora, aveva esaurito il suo compito storico per cui, mentre la sua ala destra dovrebbe finire col far corpo coi conservatori, il resto è destinato a passare al labourismo, erede necessario e antesignano dei suoi principii.

    Siamo ben lontani dall'identificare nel P. L. inglese la realizzazione integrale dell'idea liberale. Esso ha un contenuto liberale ancora assai profondo, ma convoglia di fatto precisi interessi economici e sociali per cui il suo orientamento liberale è condizionato e limitato. D'altra parte non siamo disposti a credere, per quanto altre volte dicemmo, che l'idea liberale abbia trovato il più esauriente interprete e continuatore nel laburismo più o meno socialisteggiante.

    Ora, ci chiediamo se possa in realtà esistere un partito pel quale l'aggettivo liberale assuma intera la sua storica significazione. E saremmo tentati di risponder sin d'ora in senso negativo per una ragione capitale e cioè che partito è la riunione di persone che hanno comuni interessi economici e sociali e che vogliono affermarli e tutelarli, mentre liberalismo è il riconoscimento dell'affermarsi nel corso della storia degli interessi e dei movimenti cui essi danno luogo, per cui è partecipe della vita combattuta solo in quanto esercita una azione di critica e di revisione delle forze (interessi) in atto - quali si siano - alimentandole, per quanto le loro specifiche tendenze lo comportino, dei suoi postulati.





    Ma procediamo con ordine e vediamo di determinare quale profondità possa questa funzione attingere, quale importanza avere nelle vita di un paese.

    La vita politica non è che il manifestarsi dell'urto di diverse classi (classi che si esauriscono e classi che assurgono; e nell'interno di ciascuna classe, categorie che si urtano e si selezionano) mentre contemporaneo si svolge un processo continuo di osmosi tra l'una e l'altra che ne rende più complessi i moti.

    Ogni classe - corpo composito e ineguale in perenne ricerca di un suo proprio equilibrio interno, oltre che di quello esterno - tende necessariamente a identificare gli interessi della collettività nei proprii, o per dir meglio, a far coincidere il massimo di utilità sociale col massimo di tutela degli interessi proprii.

    Tale tendenza si esprime in senso conservatore per la classe che detiene il governo, in senso rivoluzionario per la classe che aspira al potere. Questa ben inteso, non pone semplicisticamente il problema nei suoi termini realistici: togliti che mi ci metta io, anche perché contro di sé susciterebbe più acerba la resistenza dell'avversario, il che sarebbe contrario all'economia stessa della lotta. Ricorre quindi più volentieri a formulazioni ideologiche a fondo sentimentale e si alimenta allora dei miti potenti dell'eguaglianza e della fraternità, dell'abolizione cioè delle classi con l'assorbimento di tutti gli individui in una classe unica nella quale gli interessi di tutti e di ognuno siano assunti in una universale armonia.

    Posta la premessa dell'identità soggettiva tendenziale degli interessi di classe con quelli della collettività, non può recar meraviglia se lo Stato sia considerato costantemente come mezzo per l'appagamento degli interessi stessi.





    Si ha quindi: con un governo borghese, il protezionismo industriale, la lotta contro l'organizzazione operaia, il prepotere di interessi plutocratici, ecc.; con un governo che sia emanazione anche parziale dei ceti proletari o di essi subisca l'influenza, avremo il socialismo di Stato in tutte le sue forme a diretto beneficio dei lavoratori. Né l'uno né l'altro tien conto delle ripercussioni mediate della pratica intervenzionista del governo, ma si tien pago degli effetti immediati conseguiti a favore della classe rappresentata. Effetti mediati contrari alle previsioni, in quanto si concretano in una riduzione della ricchezza nazionale, non possono mancare con una politica che fa dello Stato il fulcro dei rapporti economici privati. E ciò perché la ripartizione della ricchezza raggiunta col suo intervanto non può essere che arbitraria. Non lo sarebbe se si conoscesse esattamente la composizione della società nazionale e qualora tale composizione fosse costante. Il che non è, non solo per fatto naturale facilmente osservabile, ma per l'effetto stesso dell'intervento.

    Ad ogni modo, per quanto arbitrario sia l'effetto ultimo della subordinazione dell'equilibrio economico alla volontà di un potere centrale che, comunque si sia stabilito, attribuisce a chi lo incarna un valore sociale diverso da quello che esso avrebbe se si tenesse conto esclusivamente delle sue effettive capacità produttive, il fatto storicamente sussiste per ragioni utilitarie o sentimentali (indirettamente utilitarie) ed è conseguenza di una precisa volontà dei cittadini, sarebbe inutile negarlo. Esso è voluto dai conservatori (classe al potere) i quali vi cercano il modo di orientare specialmente a loro particolare beneficio l'impiego della ricchezza nazionale, e di comperare, con un sacrificio in gran parte apparente, la tranquillità sociale, e ciò col soddisfare a spese comuni, in modo parziale, le aspirazioni delle categorie rivoluzionarie (aspiranti al potere) più temibili, in esse creando, mediante i benefici raggiunti, interessi contrari a quelli di altre categorie della classe medesima cui le ultime appartengono. E' voluto altresì dalla classe rivoluzionaria la quale, pur sotto gli impulsi di aspirazioni totalitarie, non può soffocare quella che è tendenza generale di tutti gli uomini e cioè la preferenza decisa per l'uovo oggi che per la gallina domani, per cui solo una esigua minoranza si sente capace di stringersi in una dura intransigenza, mentre la maggioranza non sa rinunziare ad alcun beneficio presente anche se la sua accettazione significhi riduzione dell'impulso rivoluzionario.

    In uno schema siffatto della lotta politica quale valore ha il pensiero liberale?





    Ogni classe al potere è per necessità di conservazione illiberale. La considerazione del numero di individui in essa compresi - il diritto cioè della maggioranza - non ha che un peso contingente insufficiente di per sé a giustificare in linea assoluta il potere; sia perché i diritti delle minoranze potranno essere tenuti allo stato potenziale, ma non possono essere di fatto distrutti; sia perché ogni classe è un soggetto in continua trasformazione, dal quale nascono nuove "élites", che reggono in nome della classe stessa il governo, e tendono a differenziarsi dalle altre categorie imponendo i loro particolari intessi come proprii di tutta la classe, per cui anche il termine maggioranza è un termine di impossibile definizione concreta. Ciò che accade nell'ambito dello Stato, della società, accade pure nell'ambito della classe.

    Siccome dunque non si può scindere il fatto Stato da chi materialmente occupa il governo, lo Stato liberale non ha possibilità di attuazione pratica perché esso dovrebbe ridursi rigidamente nei confini delle funzioni negative di governo, di tutela cioè di tutti i cittadini come tali, in quanto persone fisiche e giuridiche, indipendentemente dai loro interessi di diretta portata economica.

    Lo Stato allora appare come un limite verso il quale si tende, ma praticamente irraggiungibile. E tale limite si pone in quanto è armonia spontanea delle forze agenti nel mondo politico e rappresenta quindi il "maximum" di utilità sociale che in determinate condizioni loro è possibile di raggiungere.

    Da questa valutazione dell'armonia nascente dal loro contrasto, il liberale può interamente comprendere la grandezza del mito negatore delle classi, pur riconoscendone l'inanità pratica in quanto irraggiungibile speranza senza una premessa di assoluta eguaglianza degli individui, poiché non si nega una libertà senza negarle tutte.





    Base del pensiero liberale è una interpretazione critica e storicistica della vita politica, retta sul riconoscimento.

    a) del conflitto tra le classi;

    b) della infinita varietà di soluzioni, di equilibri (combinazioni di interessi) che tale conflitto successivamente può raggiungere, e della loro precarietà;

    c) della necessità di una valorizzazione costante, di fronte ad una combinazione politica dominante, cioè presente, delle forze in atto o potenziali dirette a contrastare a quella il dominio, a prepararsi a succederle con una diversa combinazione, e ciò perché siano ridotte al minimo quelle tendenze che contrastano il dinamismo sociale.

    Abbiamo detto che lo Stato liberale non può esistere come organismo concreto ma solo come limite verso il quale tende l'azione sociale; ora, non è impossibile trovare elementi sociali capaci di comprendere tutta la profondità di questo concetto relativistico della lotta politica ed intorno ad esso gravitare come intorno a un partito; ma si tratterà pur sempre di "élites", di quadri, non di masse. Tali "élites" pertanto non rinunziano ad esercitare una attività politica diretta, anzi, quanto più la loro posizione ideale prescinde dagli interessi di una determinata classe, tanto più essi assumono il compito di inserirsi nella lotta fra le classi ad esse indicando con la ineluttabilità del loro urto la possibilità di una affermazione soltanto traverso una chiara coscienza dei proprii compiti storici, una decisa volontà di attuarli, una assoluta intransigenza, solo a prezzo della quale potranno esprimere senza equivoco quei valori che di fatto con la loro combinazione devono stabilire l'equilibrio politico ed economico del momento.

    Se ci fosse permesso usare di una espressione tecnica diremmo che le forze liberali costituiscono il catalizzatore della lotta politica, l'organismo determinatore del rinnovarsi perenne di un equilibrio sociale.





    Opera siffatta si avvera non certo con la pura e semplice elaborazione di dottrine, con la pura e semplice interpretazione storica dello Stato, ma anche con una diretta partecipazione dialettica agli episodi della lotta. Tale partecipazione si completa col passaggio materiale di singoli individui permeati dell'idea liberale a correnti di interessi definiti, cioè a partiti in campo. Per quanto abbiamo detto costoro condizionano il loro liberalismo agli interessi contingenti, alle necessità tattiche della classe nella quale si sono inseriti e cessano così di essere liberali, ma compiono opera di divulgazione dei principii del liberalismo in seno agli organismi che li ospitano, ed un nuovo passo può esser compiuto verso il limite vagheggiato.

    Tali individui non interessano più il movimento liberale propriamente detto; questo invece non può non continuare la sua vita agitando per tutti i partiti e contro tutti i partiti problemi concreti diretti alla lotta contro ogni subordinazione dello Stato agli interessi della classe dominante o di una qualunque altra classe, e ciò mediante la rivendicazione:

    a) di tutte le libere iniziative economiche individuali e collettive a carattere privato in qualunque classe esse si manifestino;

    b) della più ampia libertà di manifestazione della volontà politica degli individui e dei gruppi che solo può dare ad essi la possibilità di combattere il protezionismo classista della classe al potere e della classe aspirante al potere;

    e come conseguenza

    c) di quei sistemi di partecipazione alla vita politica nazionale che assicurino il più ampio, cosciente concorso delle masse al governo.





    Ci si può obbiettare che di fatto la maggioranza dei cittadini manifestanti la loro volontà mediante quelle forme di partecipazione al governo che il liberalismo accoglie e difende, può formulare una costituzione dello Stato tale da attribuire ad essi un potere assoluto su tutti i rapporti economici che oggi sono regolati dalla volontà dei singoli, vale a dire che lo Stato liberale (imperfetto) tenti un equilibrio sociale perfettamente illiberale in quanto irrigidito in una formula che vorrebbe essere definitiva. Il problema che si pone è assai semplice. O la nuova costituzione rappresenta di fatto l'optimun sociale e soddisfa tutti indistintamente i cittadini, e in tal caso non esisterebbero forze di opposizione, non vi sarebbe lotta politica, l'eden sarebbe raggiunto, il pensiero liberale, come ogni altra dottrina politica, non avrebbe ragion d'essere. Lasciamo ipotesi siffatta ai poeti.

    Se invece, come è probabile, il nuovo equilibrio lascerà e vedrà sorgere interessi non soddisfatti e quindi agenti allo scopo di dissolverlo per sostituirlo con un nuovo, il liberalismo avrà una sua funzione continua e cioè riconoscere quegli intessi e per essi rivendicare nello Stato la possibilità di una manifestazione minoritaria.

    Ove tale manifestazione non fosse dal potere costituito tollerata, avremo nella frode la realizzazione degli interessi conculcati. E sarà essa l'inizio di un nuovo equilibrio. Il liberalismo la dovrà constatare constatando che l'"optimum" sociale non è raggiunto, che é necessaria una ulteriore elaborazione dell'equilibrio sociale, che cioè la battaglia liberale ricomincia per la difesa dei nuovi interessi nascenti contro gli interessi conservatori.

RICCARDO BAUER