I COMUNISTI E LO STATO (1)

    "Se lo Stato ipocrita volesse abolire l'impotenza della sua amministrazione dovrebbe abolire l'attuale vita privata. Se volesse abolire la vita privata dovrebbe abolire se stesso".

    Crediamo che il Dal Pane non abbia tenuto nel dovuto conto le sopra riportate parole del suo autore, nell'esame ch'egli ha tentato della concezione marxistica dello Stato.

    Precipitare in tutta fretta come ci sembra abbia fatto nei quattro punti basilari dell'ortodossia comunista, cioè che: "Lo Stato è organo di classe", che "La democrazia borghese non è una vera democrazia", che "Lo Stato dev'essere conquistato violentemente dal proletariato" e che "La dittatura del proletariato è il proletariato organizzato a classe dominante per la necessità della sua difesa", pare a noi che sia un rinunziare all'indagine per dare sfogo al premente bisogno di manifestare la propria fede.

    Anche come confessione il libro del Dal Pane non sarebbe privo di pregi se non fosse la riaffermazione d'uno stato d'animo, e la prova della maturità politica dei nostri comunisti.

    I quali invero, se anche non peccan di logica, peccan di realismo, per il fatto che non tengono calcolo di molti fattori che pure hanno la loro parte nell'assieme della vita politica.

    Spaccare, come il Dal Pane e molti altri comunisti fanno, la società in due parti per mettere nell'una (la borghese) la conservazione di tutto il male, e nell'altra (la proletaria) il progresso di tutto il bene, è troppo semplicistico per non dire arbitrario; quanto il ricorrere a tali mezzi per drammatizzare la storia, ci sembra voler per forza ricadere nella dialettica metafisica dell'idealismo hegeliano e nei suoi immediati derivati: il dilettantismo ed il romanticismo, in virtù dei quali il socialismo, anziché accostarsi alla scienza ed alla realtà com'è sovente affermato dai comunisti, va ognora più a confinarsi nell'astrazione e nell'utopia.





    Quanto e come la "forma mentis " comunista sia imbevuta di romanticismo si è veduto nei confronti del fascismo al potere, il cui colpo di Stato non ha saputo meglio considerare dal levarsi, da parte della borghesia, la maschera della democrazia, per meglio costituirsi in Comitato d'affari, ed in classe che a viso scoperto e sul terreno esclusivamente della forza accetta la lotta. Codesto niezschianesimo se fa, di diritto, pendant con quello fascista maturato dalla letteratura decadente del D'Annunzio plebeizzata dall'on. Mussolini: non esaurisce ciò non pertanto né la realtà né le aspirazioni morali della nostra epoca; che non può supinamente acconciarsi a diventare cinica (come per errore, e concordemente credono i fascisti ed i comunisti), per straniarsi sempre più dal novero delle forze vive e fattive della storia; nella quale oramai figurano quali motivi anacronistici, e quali tentativi di un ritorno alla preistoria.

    Il pensare che la lotta di classe possa essere una lotta a corpo a corpo di due atleti nell'arena, o, meglio ancora, di due abitatori delle caverne contendentesi il cibo; è dimostrare la più completa incomprensione della dialettica marxista e del socialismo scientifico, per la affermazione del quale condizione necessaria è che il capitalismo abbia compiuto la sua traiettoria traverso i fatali sviluppi degli istituti ad esso connessi: primo fra tutti lo Stato, supremo regolatore dei rapporti sociali fra gli individui, come lo stesso Marx afferma allorché ammette che l'amministrazione dello Stato è la custode della vita privata dei cittadini.

    Ora, i comunisti hanno dimostrato di non avere per l'appunto sufficiente sensibilità civile, allorché la livragazione della vita privata compiuta dal fascismo, non ha suscitato in loro il necessario sdegno, contenti di mantenere un olimpico quanto comodo contegno di fronte alle ripetute offese arrecate all'umanità, col farle rientrare negli usuali e perciò legittimi mezzi di lotta della borghesia.





    Il veder ciò nella violenza fascista è un far troppo onore e al fascismo stesso ed alla borghesia di cui sarebbe l'espressione: molto più semplicemente, il fascismo non è come, pensano e il Dal Pane e i comunisti, la difesa postuma di una classe al culmine della sua parabola: poiché ciò non sarebbe avvenuto in Italia dove l'economia è ancora allo stadio famigliare e pre-capitalista; ma sarebbe invece avvenuto in altre Nazioni dove l'economia ha raggiunto gradi più elevati di sviluppo.

    A tal proposito crediamo di dover rilevare come il Dal Pane non abbia, secondo noi, sufficientemente studiato il fenomeno del concentrarsi dei capitali e dei mezzi di produzione in poche mani; essendosi accontentato di ravvisare in ciò una riconferma delle previsioni marxiste.

    Con meno ortodossi intendimenti avrebbe riscontrato in essi la capacità di un totale rivalutamento delle teorie socialiste e della recente ideologia della dittatura proletaria, la quale sembra formare la sola possibile concezione comunista dello Stato, stando a quel che ne dicono i suoi recenti teorizzatori.

    Qui un maggior senso storico ed una maggiore esperienza, anche dialettica, avrebbero grandemente aiutato il Dal Pane.

    Poiché, se è vero che queste grandi formazioni capitalistiche, van sempre più assumendo l'aspetto di enti politici, quasi Stati agenti entro ed al disopra dell'orbita dello Stato di cui si servirebbero per i loro particolari interessi; con questo solo lo Stato verrebbe ad essere effettivamente soppresso (e con esso la possibilità d'una dittatura proletaria) per non lasciare il posto che al mutuo soccorso anarchico (proudhoniano: e thacherayano) non appena dal tirocinio liberale della libera concorrenza sia a ciò pervenuto.





    Che cosa rappresenterebbe allora la dittatura del proletariato, ammesso che potesse essere? Non altro che inciampo e tirannia.

    I due problemi da noi posti ad obbiezione dell'ideologia comunista, mentre rivelano una deficienza logica ed un inadeguato senso storico nei suoi formulatori, infirmano alcunché delle stesse teorie marxiste nelle loro conseguenze estreme: in ciò che dovrebbe essere la sintesi della loro dialettica, vale a dire il collettivismo.

    Invero Marx può vantare molti diritti nella critica della statolatria idealistica; ma bisogna pur dire che non ha lavorato per sé e per i suoi seguaci, ma per i suoi avversari, come spesso viene in politica; per Proudhon cioè e per gli anarchici, non meno che per i liberali.

    Detto ciò, da questo punto può incominciarsi a parlare della concezione marxista dello Stato; se pensiamo coll'Engels che non altro sia che la risultante delle formazioni economiche della società, dovremo per questo solo fatto concludere che la teoria informatrice del Marx riguardo a questo problema, non altro è che la teoria contrattualistica rousseauiana del patto sociale, concezione - madre tanto del liberalismo, che dell'anarchismo, il quale, per questo solo fatto verrebbe a determinare la sua ragion d'essere e la sua giustificazione scientifica, nei confronti del marxismo che sempre gliel'ha negata; se ragioni ancor più profonde non venissero qui in Italia a trovare nella esigenza regionalistica e federalista chiaramente formulata dai positivisti, dal Proudhon e dal Cattaneo, meglio che dal Ferrari, durante il Risorgimento, ed ora dai repubblicani di Critica Politica e dai più consapevoli fra gli anarchici come Malatesta, Molaschi e Berneri; la cui azione, sfrondata degli inutili contorni di un umanitarismo sentimentale e femmineo, va più seriamente considerata fra i fattori politici, giacché non ha mancato e non manca d'aver la sua importanza ideale e pratica nei riguardi della nostra vita culturale e civile.





    Dopo quanto s'è detto bisognerebbe concludere che il libro del Dal Pane è un libro mancato? Tale conclusione sarebbe inesatta. Ma dire che il Dal Pane, e con lui i comunisti italiani, mancano di esperienza, nel tempo stesso che abbondano di dogmatismo; sarebbe quanto si potrebbe giustamente ammettere, se non volessimo proprio con altri affermare che in quanto emissari di una Nazione estera, interessata ad avere l'Italia fra i suoi alleati, non meno dei nazional-fascisti essi comunisti sono dannosi, non essendovi troppa differenza fra una schiavitù e l'altra: fra l'asservimento alla Francia e l'asservimento alla Russia; trattandosi in ogni caso della nostra refrattarietà alla indipendenza politica, e della nostra miseria.

    Il comunismo quindi, e con lui il fascismo, non sono che reazioni al nostro dovere di essere liberi: evasioni dalla realtà e diversivi, buoni per la nostra neghittosità e vigliaccheria; sempre bisognosa del bastone e del pane straniero: da quello di Francesco Giuseppe a quello di Lenin, da quello del Papa a quello di Barrère. Contro tale conclusione starebbe però l'osservazione che una parte delle masse ha pur trovato in questa forma di azione diretta almeno un incitamento alla volontà di autonomia e di responsabilità.

ARMANDO CAVALLI.