PARLAMENTI

    La situazione parlamentare nei quattro grandi paesi europei dove essa ha ancora un ufficio più che nazionale e più che puramente tattico, potrebbe fornire larga materia a un futuro storico dei problemi borghesi del dopo-guerra. Nessuno si è mai trovato di fronte a una simile occasione per studiare l'evolversi e il differenziarsi di una forma politica dentro i suoi stessi limiti immediati e sotto l'aspetto di una reazione autoconservativa.

    I vecchi antiparlamentaristi, dubitando di questa possibilità, opponevano al Parlamento il mito dei Consigli tecnici. Mito, se altro ce ne fu mai in questo campo, perché non c'è niente di più contraddittorio e più incongruo del Consiglio tecnico di tipo "democratico", necessariamente composto di non tecnici e di pseudo-tecnici: perché i veri tecnici o sono funzionari ed entrano nei Consigli di funzionari, unici seriamente possibili in regime di democrazia, o non si curano dei Consigli a cui la loro posizione li rende agevolmente superiori. I nuovi antiparlamentaristi, non ostante la loro inevitabile tendenza a ripetere i vecchi errori, non hanno potuto, almeno in sede teorica, contraddire così apertamente le loro avversioni all'apoliticismo, da voler contrapporre al Parlamento la sapienza apolitica, che è come dire impolitica, degli extra-parlamentari. E hanno escogitato il Parlamento che uccide il Parlamento, la maggioranza artefatta che esclude automaticamente le forze di minoranza da ogni equa tenzone, e le potenze irresponsabili, o quasi, che dominano senza remissione il Parlamento suicida. Teorie e azioni di questo genere si sono inquadrate facilmente nella politica delle destre contemporanee e delle demagogie reazionarie.





    Se noi scorriamo mentalmente la storia dei quattro Parlamenti d'Europa, l'inglese, il francese, il tedesco e l'italiano, dal 1919 al 1922, troveremo facilmente le basi di un così agevole antiparlamentarismo. Fosse l'artefatto dominio del coalizionismo Hoydgeorgiano o la dittatura bloccarda francese, fosse l'instabile equilibrio del Reichstag o la cancerosa debolezza dei "gruppi" italiani, ... la morale era sempre che il Parlamento non sembrava ammettere altre soluzioni che il prepotere costante e insuperabile di una parte per tutta o quasi tutta la legislatura, ovvero il veloce alternarsi di ministeri legati all'arbitrio o addirittura al capriccio dei loro malfidi sostenitori. Se altrove la solidità della tradizione e dell'educazione politica ha in gran parte compensato questo svantaggio, ha permesso più tardi di eliminarlo, in Italia la palese insufficienza del Parlamento ha contato tra le più forti cagioni, o almeno tra i più forti pretesti, dell'odierno stato di fatto.

    Ma un ritratto delle cose d'Europa nel 1924 non può trascurare la constatazione che i parlamenti stessi hanno superato la crisi che li travagliava. In Inghilterra e in Francia, dove essi potevano essere più semplicemente imputati di non rispecchiare come all'origine la volontà collettiva, le elezioni li hanno ricondotti alla necessaria mise à point e hanno restaurato un più corretto reggimento parlamentare, attraverso la dialettica della maggioranza relativa. In Germania, dove le elezioni sembravano aver portato come conseguenza un'accentuazione maggiore della dipendenza dei governo dal "voto" e dal "gruppo", è avvenuto invece che dalla necessità della difesa economia e politica e dalla coscienza di un superiore interesse di azione scaturisse il consolidamento del potere a vantaggio dell'alleanza moderata.





    Resta l'Italia, dove le elezioni sono state scientemente dirette a liquidare il Parlamento. Ma i liquidatori, dopo aver per alcun tempo giocato sulle parvenze del consenso elettorale, hanno sperimentato il duro isolamento parlamentare in cui li ha lasciati via via piú chiusi l'opposizione, e hanno sentito con impotente disperazione tutta la vanità della Camera addomesticata. Ora, per bocca di qualche lancia spezzata, ripiegano verso la "costituente" e i "consigli tecnici", confondendo malamente una imitazione della vigorosa esigenza affiorata e affermata dalla coscienza dei loro più decisi avversarii e una rinverniciatura di vecchie teorie soreliane. In realtà la Camera "rinnovata" e il Senato "rivalutato" sono stati in questi ultimi mesi catene sempre più pesanti ai piedi dei loro dispregiatori e corruttori, e con assiduo cigolìo hanno ricordato, se non ai sordi, almeno ai buoni intenditori, che non è così facile manipolare e addomesticare e calpestare i valori e gli istituti liberali come i nuovi padroni hanno creduto.

    La rivoluzione liberale vede, in queste nostre circostanze, il Parlamento nei parlamenti: dappertutto, cioè, dove una libera voce di coscienza politica trova modo di esprimersi attraverso nuovi centri di volontà collettiva: nel comitato delle opposizioni parlamentari e nei comitati locali dei partiti e gruppi di opposizione. La richiesta della "costituente" non fu, quindi, donchisciottesco atto di spregio della realtà politica, ma sintesi di impulsi latenti che essa voleva chiarificare, con una formula capace di riassumerli tutti: se il Parlamento non c'è, bisogna "costituire" il Parlamento e, attraverso di questo, una nuova vita. Né serve la triviale accusa che in tal modo si ritorna alla vecchia arte delle accozzaglie e delle miscele: le opposizioni sono strette oggi in unità di rivolta morale, che non è da confondersi con una qualsiasi equivoca coalizione. Domani, la contingente coalizione, in cui questa unità ha preso piede, potrà sciogliersi - dovrà sciogliersi: ma l'unità di spirito politico da essa realizzata non sarà senza seguito, come non sarà senza danno il volerla distruggere una volta ancora.





    L'esperienza antifascista ci rivela così le condizioni di vita inderogabili di ogni istituto parlamentare moderno: quali sono la chiarezza e la fermezza della politica da un lato, dall'altro lo sforzo di attuare una volontà etica che, nata dall'individuo, si traduca nello Stato. Il Parlamento avulso dalla lotta politica, avulso dalla robusta vicenda della volontà popolare, non è più (o non è ancora) un Parlamento: è un organo di governo, talora più comodo, talora più ingombrante dei vecchi e sapienti sistemi di dominazione dei soggetti. Ora noi non siamo dei subjecti, né ascoltiamo le lusinghe del parcetur: noi siamo dei superbi, e vogliamo essere combattuti e combattere e vincere. Da ciò discendono la nostra prontezza e la nostra insistenza a riconoscere il Parlamento là dove esso è, o donde si prepara ad essere.

    E per questo suoniamo anche la diana contro il pericolo ormai manifesto in molti che si preparano a mettere fra qualche tempo il polverino su queste nuove capacità e forze impetuosamente affiorate, e a considerare daccapo la forma democratica di rappresentanza parlamentare come argomento di giuochi pseudomachavellici. Se non è il caso di illudersi sulla qualità del vino che potrà gittare lì per lì la botte rimessa a nuovo, é certo il caso di volere che il vino migliori, non si strappino i tralci novelli che promettono una futura miglioria.

    Ma si griderà contro di noi perché vogliamo i parlamenti di piazza. Antisagraioli, anticomiziaioli come siamo, non ci può essere - in buona fede - dubbio di sorta: noi vogliamo soltanto un Parlamento di coscienze, e ne salutiamo gli auspici là dove le coscienze si agitano. Soltanto in questo senso passiamo dalla disperazione alla speranza.

    Che se la speranza e la volontà che qui si esprimono si vorranno giudicare eretiche, non troveremo miglior risposta di quella del Cid alla scomunica papale:

Absolvedme, dijo, papa -
- si no seráos mal contado.

SANTINO CARAMELLA