LA TERRA

fondamento della questione sociale

    Occorre sovente di vedere affermato che la "questione sociale" è problema della nostra civiltà economica (capitalista). L'avvenimento industriale - cioè il trionfo del lavoro meccanico su quello umano, - assottigliando sempre più il bisogno (quantitativo) di mano d'opera, ha in sé enucleati, gli aspetti più notevoli della questione suddetta, ed è, quindi, alla base della lotta sociale.

    E' da notarsi, però, che a voler essere storicamente più proprii, si deve avvisare ad una causa ancor meglio generale e comprensiva: al processo di appropriazione della terra, dando come inizio alla "questione sociale", il momento in cui, non essendo più possibile (economicamente) l'espansione territoriale, si rese per la prima volta necessario uno sviluppo "verticale" della cultura, laddove il primo ("orizzontale") era meramente "estrattivo".

    Ci pare che la "questione sociale" sorga in questo mutamento d'indirizzo produttivo, e per esso; cioè con l'originarsi del "problema della terra".

    Sovente questo fatto è stato trascurato per pregiudizi scolastici: tipico, a tal riguardo, l'atteggiamento della dottrina materialista, per la sua interpretazione industriale e cittadina, così di premesse, come di realtà e di visioni rivoluzionarie ed espropriatrici. (Degno di nota: tosto che uno Stato, - la Russia - per poter pervenire, in fine, ad un reggimento nuovo, che, non certamente comunistico, potrà forse essere democratico, si ribellò alle vecchie classi dominatrici (feudali), il movimento venne dalla terra; e quanto vi fu in un primo tempo di comunistico, significò non edificazione, ma spietata negazione dell'ideologia marxista),





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    Rifacciamoci agli inizii: consideriamo un gruppo di individui che vive in un certo ambiente. Una volta uscito dallo stadio di vita randagia (popoli cacciatori e pastori), esso si lega al terreno con un'"appropriazione" sempre crescente del suolo; "appropriazione", questa, che dal concetto storico-giuridico che si ha dell'appartenenza fondiaria, vien sistemata entro forme di riconoscimento pubblico; ma su questo non pensiamo indugiarci.

    Il procedimento appropriativo è automatico. Ad ogni inflazione del volume dei bisogni fa meccanicamente seguito una estensione della superficie coltivata.

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    Uscita la società da quelle forme di convivenza che si vogliono matriarcali e patriarcali, ossia evolvendosi dalle forme di "comunità di villaggio" verso quelle individualistiche e famigliari, già sono a credersi come dualistici l'interesse proprietario e quello collettivo; in questa fase però, l'interesse proprietario (consistente nel voler godere, come plus-profitto, oltre che della congenita rendita fondiaria, anche dei frutti di una produzione sempre più inadeguantesi ai bisogni) è di consistenza illusoria: appena cerca di imporsi, la collettività lo sfugge, meglio, lo elide, appropriandosi direttamente del suolo creduto bastevole per la reazione economica.





    Nemmeno l'Ente che presiede la collettività può, volendolo, modificare questo stato di cose; nella realtà storica, poi, esso è portato a far del suo meglio per secondare il movimento appropriativo.

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    In quelle condizioni, il "problema della terra" non esiste ancora: se ben si vede può affermarsi che esso sorge nel momento in cui è occupato tutto il terreno che, storicamente, è economicamente appropriabile, non solo; ma che è separato da un eventuale terreno rimanente, intrinsecamente suscettibile di cultura, da un qualche ostacolo "economico" tale da far reputare più conveniente smettere l'idea dell'espansione e pretendere (per quel che abbiamo detto, il giudizio, in questo stadio, è della collettività, mentre la classe proprietaria deve rassegnarsi all'inerzia; è questo, però, il punto limite, come vedremo) l'inizio di uno sviluppo che può dirsi "verticale"; con questo momento non ancor si delineano, nemmeno tendenzialmente, quelle penosità produttive che, col Malthus, richiederanno i mezzi "repressivi" delle guerre o delle decimazioni per mali sociali, o le emigrazioni verso terre più primordiali.

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    Il proprietario non poteva intervenire fino a quando era possibile lo sviluppo "orizzontale" perché allora si trattava di un insieme di azioni sociali che si svolgevano al "di fuori" della "sua" proprietà così che, se l'avessero di poi danneggiato, non costituivano direttamente una minorazione della sua personalità discretiva, e, non gli consentivano titoli formali bastevoli per intervenire ed opporsi.

    Ma quando l'interesse collettivo parlò per la prima volta del "dovere della proprietà fondiaria" a meglio coltivare le proprie terre, allora il giudizio non si portò più al di fuori delle singole proprietà individuali, ma entro la sfera della volontà di persone umane e ben individuate.





    E la lotta sociale si inizia a questo punto. Il proprietario intuisce subito - per la logica del tornaconto e per la facilità di percezione dei procedimenti economici che ora può far giocare i suoi interessi di classe, che lo portano ad ostacolare lo sviluppo ascensionale della coltivazione, per raggiungere una duplice serie di effetti: far elevare tumultuosamente il prezzo delle derrate, e far riprendere la marcia appropriativa". Ossia trovare - con una rendita o con l'altra - il massimo storico di tornaconto.

    E' in questo stadio che l'interesse proprietario comincia a giocare con fortuna: ha a sua disposizione la tradizione giuridica, e mira ad impadronirsi sempre più dello Stato, finché lo dominerà.

    La "questione sociale" è già messa: la "terra" da questo momento si rivestirà sempre più di un alone di lotta passionale e cruenta. Al di là del fatto tecnico di produttrice di soddisfazioni materiali, la "terra" è il problema dell'umanità, in quanto ha di travagli, di palpiti, di sentimenti.

G. DELLA CORTE