L'ECONOMIA SARDA

    La geologia sarda trovò il suo più sintetico decrittore in Carlo Cattaneo che derivò diligentemente i suoi studi sulla base delle indagini di Alberto Lamarmora, del Manno e del Martini.

    La Sardegna è costituita verso l'Italia da una massa fondamentale granitica, secondo una lunga linea di sollevamento che ha spinto fuori le creste della Limbara, del Raso, del Gennargentu, dei Sette Fratelli: sulle cime vi sono gli strati calcarei recati in alto dagli abissi del mare, ove prima posavano. Verso la Spagna la terra è nata da eruzioni vulcaniche meno regolari che determinarono ammassi non uniformi di basalti, di trachiti e di lave. Tra l'una e l'altra zona monticelli, colline e pianure formate dai sedimenti delle eruzioni o dalle acque.

    Ma questi sollevamenti, fermatisi a mediocre altezza sembrano tumuli sparsi ineguali sul piano e non partecipano della natura delle Alpi e degli Appennini, che hanno invece catene continue e netti declivii. La mancanza di sommità notevoli (se si esclude il Gennargentu, i monti sardi superano di poco i 1000 metri) ha effetti assai gravi sull'economia del paese. La neve permane in pochi luoghi; i fiumi dell'isola che nella stagione piovosa corrono gonfi e interrompono la via in breve inaridiscono e allora le acque ristagnate fra i terreni argillosi tormentano le pianure. Così ogni verdura sparisce a mezzo giugno dai bassipiani e dopo la mietitura le terre prive di alberi e di acque paiono deserte. Anche i venti non recano l'utile che dovrebbero per queste condizioni: il maestro giunge a Cagliari già caldo e secco dopo aver attraversato la landa del Campidano; e lo scirocco che a Cagliari è carico di vapori salini arriva secco ad Oristano.





    "Non è meraviglia dunque - osserva il Cattaneo - che in quegli alti recessi fra dense selve e pascoli verdeggianti, e fontane che scorrono fredde e limpide nelle fessure dei graniti, le bellicose stirpi indigene abbiano potuto per molti secoli ripararsi dagli invasori, che ora sbarcavano a depredare le calde e vaporose maremme, ora a coltivarle; e sempre lasciarle seminate dei loro sepolcri. E v'ha ogni argomento a credere che, mentre varie nazioni dell'Asia, dell'Africa e dell'Europa apparvero e scomparvero più volte su quei lidi, le stirpi primitive sopravvissero alle stragi, e ristorate di bel nuovo nell'asilo dei loro monti, scesero poi colli armenti a ricondurre la vita errante sul piano derelitto. E durerà lungamente, sino a che il commercio, il quale con sempre diverse genti venne dal mare alla isola, ma non seppe mai stendersi dall'isola a signoreggiar sui mari, non siasi ben radicato nell'intimo vivere delle popolazioni, non soggioghi le ultime reliquie della vita pastorale, e non armi l'agricoltura con quei copiosi capitali, senza cui non vale potenza di clima o feracità di terreno".

Le miniere

    Di un notevole sviluppo industriale sarà capace la Sardegna quando si potranno sfruttare le sue risorse minerarie. Il regno minerale abbraccia in Sardegna gli estremi della scala geologica: ferro, piombo argentifero, antracite, lignite vi predominano e non mancano rame, antimonio; traccie d'oro e di mercurio. Il granito rosso si trova nel monte Nieddu, il roseo nei Sette Fratelli, il grigio nella Nurra; varietà notevoli di marmo vi sono sparse in numerose regioni. Abbonda l'alabastro, il gesso, il sal comune, le argille, ecc.





    Ma lo sfruttamento minerario è sinora pochissimo diffuso. Gli studi del Lamarmora furono la prima base di osservazione e servirono specialmente ai tentativi degli stranieri. All'affermarsi di iniziative notevoli si oppongono inesorabilmente l'assenza di strade e le cattive condizioni igieniche e sanitarie.

    Nella miniera di Corongiu della Società Monteponi si estrae antracite che viene però quasi tutta utilizzata dalla Società stessa per la fabbricazione del bianco di zinco. Mente prima della guerra l'intera zona antracitifera sarda dava una produzione di poche centinaia di tonnellate si superarono durante la guerra le undicimila tonnellate per la necessità di sostituire i combustibili esteri.

    Più importanti sono i bacini di lignite scoperti per caso dal Lamarmora nel 1837 nel territorio di Gonnesa, condotti dalla Società anonima Bacu-Abis o che diedero dal 1914 un prodotto crescente da 15.000 tonnellate a 70.000 nel 1918. Ma questo combustibile non é adatto ai processi metallurgici e viene adoperato in gran parte per alimentare le centrali elettriche di Cagliari e di Porto Vesme. Durante la guerra un tentativo di valersene per la trazione meccanica nei treni delle ferrovie sarde non ebbe buon esito.

    Le miniere ferrose della Società Nurra sono state scoperte recentemente e pare che si estendano per più di 4000 ettari. Il minerale che si estrae si calcola in 300.000 tonnellate; esso è di ottima qualità e il suo tenore in ferro oscilla ora il 45 e il 52 per cento. In base a calcoli fatti sui sondaggi sinora eseguiti la quantità di minerali di ferro esistente nei vari giacimenti si può valutare a 11 milioni di tonnellate.





    Le miniere di piombo sono le più importanti che possegga l'Italia e così quelle di zinco e di argento. Si può ritenere che l'isola avesse prima della guerra un prodotto medio di 200.000 tonnellate di minerali per un valore di circa 22 milioni di lire e che nelle miniere trovassero lavoro quindicimila persone: queste cifre risalgono ai calcoli dell'ingegnere Vittorio Novarese, ma sono durante la guerra notevolmente aumentate se appena si pensa che prima della guerra non si parlava di sfruttamento delle miniere ferrose.

    Ma le miniere sarde non hanno un'importanza adeguata alla loro vastità nell'economia dell'isola perché si riducono ad un'industria puramente estrattiva e i minerali vengono per la massima parte esportati grezzi. Anche per questa parte si esercita sull'isola un mero sfruttamento di rapina né è possibile per ora migliorare le condizioni dell'industria a causa della difficoltà di creare nell'isola una mestranza e di ottenervi condizioni obbiettive favorevoli a un'industria di seconda lavorazione e a un'attività commerciale. E' inizialmente un problema di strade, di sicurezza pubblica e di sicurezza sanitaria, ma che involge poi complesse ragioni di psicologia e di razza. Certo tuttavia se non si supereranno queste difficoltà l'industria mineraria non riuscirà a dare all'isola la sua fisionomia e ad aiutarne la redenzione.

L'agricoltura

    Il problema agricolo per ora si presenta come dominante e caratteristico. Il problema sardo non è il problema meridionale, benché due grandi mali abbiano in comune le due regioni: la siccità e la povertà. La storia scrutata spregiudicatamente può dare insegnamenti preziosi: la leggenda opimas Sardinae segetes feracis si può tristemente spiegare e confutare. La Sardegna fu già al tempo dei romani trattata come terra di conquista e il nome che le si attribuiva di granaio di Roma è dolorosamente significativo. Infatti i romani coltivavano a grano le terre di sfruttamento, non adatte a ricche culture.





    Anche il problema dello spopolamento risale agli antichi: la densità della popolazione sarda era già al tempo della repubblica e dell'impero corrispondente a quella dei giorni nostri in rapporto al continente: ciò per le solite ragioni di deficienza della sicurezza pubblica e di malaria. II problema dello spopolamento in Sardegna è lo stesso problema dell'economia generale dell'isola. Essa non offre sufficienti risorse ai suoi abitanti che si trovano anche per ragioni fisiche e fisiologiche in una condizione di minorati. L'emigrazione è una necessità ancor più forte che per il resto dell'Italia, essendo per la Sardegna doppiamente vero il pensiero del Nitti sulla difficoltà dell'Italia a diventare una nazione veramente agricola o meramente industriale e sulla necessità di ricorrere all'emigrazione per salvarsi dalla penetrazione straniera e dall'asprezza dei cambi. Un caso interessante è anche l'emigrazione sarda verso la penisola: un forte contributo vien dato dai sardi ai corpi di pubblica sicurezza, (più di 11.000 erano nel 1921), quasi l'unità tra Sardegna e penisola non possa effettuarsi se non come una forma psicologica di invadenza burocratica. In tutte le forme si manifesta insomma la necessità di abbandonare la terra per formare artificialmente una media borghesia che l'economia locale non riesce ad alimentare.

    Nel periodo 1900-1905 la media degli emigranti è di 473 per ogni 100.000 abitanti: nel 1907 per la crisi dei caseifici si giunge a una cifra totale di 11.659, e nel 1913 a causa della siccità gli emigranti sono 12.274. Noi non vorremmo certo esagerare l'importanza dell'ammontare delle rimesse o risparmi degli emigranti, ma è evidente che per la Sardegna non c'è altro rimedio alla disoccupazione non potendosi parlare seriamente di lavorare le terre incolte quando mancano i capitali mobili e non è possibile intraprendere le gigantesche opere di bonifica necessarie. L'esodo dei braccianti e dei contadini evita che s'intraprenda artificiosamente e dannosamente la cerealicultura dove le condizioni non sono propizie.





    Di 2.410.876 ettari, solo 433.484 sono di pianura e questi stessi battuti dai venti di levante, maestrale e scirocco con un'intensità pericolosa. La popolazione si divideva nel 1901 in 41.661 lavoratori di proprii fondi, 24.031 bifolchi, 15.408 coloni, 77.753 giornalieri, i quali ultimi, dominando la pastorizia e mancando quasi completamente la cultura intensiva, erano di solito disoccupati. La legislazione italiana ha aggravato le condizioni dell'isola con la coscrizione obbligazione, l'imposizione della fondiaria e la denuncia del trattato di commercio con la Francia.

    I danni della coscrizione obbligatoria sono facilmente riconoscibili se appena si ricordi la costituzione demografica della Sardegna poverissima di uomini e la psicologia ribelle degli abitanti.

    L'imposizione della fondiaria fu compiuta nel Mezzogiorno e nelle isole con singolare severità e già per il Salaris il catasto doveva definirsi il libro delle menzogne. In un comunello del Campidano si pagavano per ogni franco di rendita centesimi 31 di imposta! Per il sistema di contingente e per gli errori burocratici si giungeva alla rovina dei proprietari e all'espropriazione forzata di molti terreni per mancato pagamento delle imposte. "Quando il popolo sardo avrà il suo storico - scrisse il Tuveri - una delle macchie più vergognose del governo piemontese sarà il catasto provvisoria dell'isola!" Nel 1870 la Sardegna era aggravata da un debito ipotecario di 76 milioni, ossia più di 3000 lire per ettaro, quasi il quadruplo del valore della terra. Un indice di questo malessere economico lo abbiamo dalle vendite forzose per mancato pagamento di imposte minime, su cui è competente la pretura. Per 100.000 abitanti si hanno in Sardegna 139 vendite davanti al pretore, mentre il Piemonte ne ha 0,5 e la Basilicata 45. Su 100 di queste vendite in Sardegna 17,1 sono per debiti superiori a 50 lire, 64,7 tra le 5 e le 50 lire, 18,2 per imposte inferiori a 5 lire.





    Se a queste condizioni aggiungiamo la rovinosa politica doganale seguita dall'Italia nei riguardi della Francia che importava bestiame dalla Sardegna prima dell '87, non ci stupiremo che l'economia agraria nell'isola abbia avuto un indirizzo completamente irrazionale. I proprietari delle terre per la loro povertà non possono pensare a radicali trasformazioni agricole: per sopportare il peso tributario essi hanno trasformato i boschi in campi, compiendo così una devastazione delittuosa quanto inevitabile.

    Dopo il '70 si sono disboscati in provincia di Cagliari 91.000 ettari circa e in provincia di Sassari 125.000; cifre certamente inferiori al vero e che indicano come un decimo almeno dell'isola agricola sia stata sconvolta, un decimo della terra sia stata votata a pochi anni di cultura granifera di rapina per poi essere ridotta a deserto esausto e incoltivabile.

    Perciò l'aumento della cultura del grano è tutt'altro che consolante: segna anzi la rinuncia ad una agricoltura specializzata e autonoma: nel 1879-83 si coltivano a grano 156.000 ettari, nel 1909-13, 210.000 ettari, in gran parte usati per il consumo interno e prodotti soltanto per l'incitamento derivante dalla protezione sul grano.

    La siccità poi non permette di contare sulla continuità dei buoni raccolti col trascorrere degli anni perché nelle annate asciutte né le terre possono essere preparate per tempo né le messi, né gli altri raccolti possono essere accuratamente difesi. Nel 1913-14 i cereali e i fieni, per esempio, in Sardegna si inaridirono tra l'aprile e il maggio e il raccolto fu disastroso sino a determinare non solo la mancanza di esportazione, ma anche la carestia all'interno e un forte aumento di emigrazione.

    Gli ostacoli di indole sociologica che si oppongono all'agricoltura si possono riassumere nella comunità delle terre e nella suddivisione dei fondi per causa successoria, derivanti dall'attaccamento dell'isolano alla terra e causa continua dell'eccessivo frazionarsi dei poderi.





    La storia della comunità delle terre in Sardegna è singolare. Il Marquardt, il Pais e il Besta hanno dimostrato che essa risale al tempo antico: il feudalismo effetto della conquista non ebbe dunque alcuna funzione di causa per questo regime primitivo e misero. Del resto come si è notato, il feudo in Sardegna viene ad assumere fisionomia tutta particolare per l'ambiente stesso in cui si forma. Consiste ordinariamente nella assegnazione dai principali partecipi delle imprese del conquistatore di varie estensioni di terra spopolata, coi pochi abitanti ceduti come armenti con i loro averi verso cui il concedente delega ai suoi rappresentanti diritti di sovranità, di giurisdizione e di diritto eminente. Data l'ampiezza di queste terre i rappresentanti venivano a trovarsi in condizione di estranei e anche durante il regime feudale permane caratteristico il dominio utile che le popolazioni cedute esercitavano ab origine di fronte al dominio eminente del sovrano. In queste condizioni è chiaro come non si potesse avere sfruttamento delle terre se non a mezzo della comunione, attenuata poi ma non mai venuta meno attraverso i diritti di ademprivio. Non ci stupiremo che ancora nel secolo scorso le terre incolte occupassero tre quarti dell'isola. Non si sa come fosse regolato dagli antichi il godimento delle terre comuni. Pare che il metodo fosse analogo a quello degli antichi germani per cui nei terreni dedicati al pascolo le prestazioni si pagavano in proporzione dei greggi introdotti; mentre alla coltivazione era assegnata annualmente una vasta zona di terreno, destinato alla coltivazione dei cereali necessari per il consumo e distribuita in eguale misura per sorte.

    I territori risultavano così divisi in due parti delle quali l'una detta vidazzone si circondava con una siepe e si seminava per un solo anno. Dopo il raccolto anche questa terra doveva riaprirsi al pascolo cioè ritrar paberile. Questo sistema di avvicendamento era il migliore che si potesse escogitare per far riposare sempre per un anno la terra quando era ignota la concimazione. Ma in Sardegna è rimasto come un anacronismo sino ai nostri giorni: così l'agricoltura compie in due soli anni il suo miserabile viaggio, senza prati, senza rotazione, senza stalle. "Il contadino errante quasi come il pastore - scrive il Cattaneo - vende le braccia a giorno o appigionando un campo per l'annata, comincia coll'indebitarsi della semente al monte granario o al signore del fondo, e al tempo della messe, pagato l'affitto e la decima e le imposte, appena salva un tozzo per la fame. Così, mutando terra ad ogni tratto, perde molte ore per trascinarsi a piedi o a cavallo dal casale alla deserta vidazzone".





    "Tale sistema - scrive il Lei Spano - se era il naturale, era il meno proficuo agli interessi dell'agricoltura isolana, anche perché era generalizzato. Esso portava tutti gli inconvenienti e i disordini che si producono nell'uso e godimento delle cose comuni aggravate dagli istinti predatori di popolazioni non incivilite, dalla mancanza di affezione da parte del possessore a terre non proprie che dopo un anno di lavoro si dovevano abbandonare; dai furti che vi si commettevano sulle biade ancor pendenti; dai danni che vi cagionavano i comunisti e non comunisti col passaggio abusivo e i bestiami con le continue invasioni non impedite dalla debole siepe che nessuno aveva interesse a mantenere in buone condizioni ed a riparare. Fatto si è che nelle terre comuni non sorse mai né poteva sorgere un albero, perché nessuno era così balordo di piantarlo per gli altri".

    Dei danni di questo regime si era usi incolpare nel secolo scorso i feudatari assenti e negligenti. L'abolizione del feudalismo ha dimostrato l'errore di questa tesi. La nuova media borghesia succeduta nel secolo scorso ai feudatari è rimasta come quelli assente e negligente: non ha fatto sorgere in nessun luogo una vera e propria azienda agricola, si è dedicata agli impieghi e alla politica; gli sforzi per sostituire la mezzadria al famulato riuscirono poco fortunati.

    Il fatto è che la Sardegna non ha ricchissimi proprietari terrieri come la Sicilia, ma non conosce una vera e propria separazione tra padroni e salariati poiché i rapporti economici conservano un carattere affatto patriarcale. La Sardegna si può considerare un latifondo soltanto se si bada al metodo di cultura estensiva a pascolo brado o a cereali. Ma in quanto a regime di proprietà il vero latifondista in Sardegna è tuttora il popolo sardo, il quale usa di estesissime terre seconda la consuetudine dei diritti di ademprivio. Gli ademprivi dovrebbero essere stati aboliti da una legge del 1865, ma in realtà si estendevano prima della guerra su una zona di circa 150.000 ettari e non si era riusciti a sopprimere né coi tentativi di cessione a Società capitalistiche privilegiate, né con la quotazione tra i comunisti.





    In realtà i beni ademprivii soggetti a pascolo collettivo non sono suscettibili alla cultura per prova secolare. Nessuna riforma può fare che essi siano venduti quando non sono coltivabili fruttuosamente. Si muterà il diritto d'uso collettivo nella forma, ma non nella sostanza: anche il Valenti si limitò a proporre di cedere i beni ex-ademprivili in libera proprietà collettiva agli agricoltori poveri di un paese riuniti in Consorzio. I meccanismi burocratici delle casse ademprivili non faranno di più.

    Il solo rimedio sarebbe il rimboschimento dove è possibile senonché anche per questo ci vogliono i capitali che nell'isola mancano. Bisognerà accontentarci per ora di preparare una proprietà terriera meno primitiva in questi luoghi coll'attribuirla ad Enti collettivi interessati, senza intervento di Enti pubblici.

    Vane sono dunque le prediche dei progettisti che rimproverano ai sardi di lasciare le terre incolte, mentre la scienza agraria insegnerebbe tanti specifici per far fruttare la terra. L'agricoltore sardo conosce benissimo il proprio interesse e dove può adotta un ciclo agrario che se non è moderno è però razionale: grano, fave, leguminose. Ma fuori delle pianure deve limitarsi alle culture di rapina: orzo, grano, ecc.

    Le culture arboree hanno un'importanza purtroppo assai limitata. L'epidemia fillosserica sopraggiunta per caso proprio insieme all'ondata protezionista ha ridotto a pascoli aridi le vigne che incominciavano a prendere grande importanza. L'olivo e il frutteto sono curati soltanto intorno a pochi centri abitati per imprescindibili ragioni demografiche. L'arancio prospera nelle riviere. Soltanto a Dorgali sulla riviera orientale le donne raccolgono qualche seta che filano col fuso tessendo poi al telaio dei rustici pannilini. Lino e canapa non hanno attecchito; e di cotone a stento v'ha una manifattura a Cagliari. Il riso non fece buona prova. Nel periodo di intenso fiorimento che va dal '60 all' '80 in cui ritroviamo G. A. Sanna, geniale figura di intraprenditore, l'isola assistette alla distruzione del suo patrimonio boschivo per l'insaziabile ingordigia dei legnaiuoli forestieri. Dove non ha agito la scure agisce l'incendio, o la devastazione prodotta dal pascolo.

    Dal fuoco sono minacciati anche i sughereti che porgono lavoro a Nuoro e Tempio, perché la Sardegna diventa ogni estate un braciere. Così accade che intere regioni prive di alberi non abbiamo altro combustibile fuorché sterco animale disseccato.





    Se i soli prodotti di esportazione agricola sono il vino, le conserve di pomidoro e le mandorle, oltre all'olio d'oliva dato dalla provincia di Sassari, non ci dovremo stupire se anche nel mondo moderno si continuò a pensare alla Sardegna come al granaio d'Italia. Il programma di Cavour, nutrito in questo campo di molte illusioni, era analogo.

    Il giudizio di Cavour non si può spiegare se non si tiene presente l'avversione del grande statista per la Sardegna: purtroppo tutta la politica posteriore congiurò a dargli ragione e la cultura granifera di rapina fu resa inevitabile dal disboschimento e dal peso tributario.

    La vita isolana poté rifiorire verso il '70 per l'allevamento razionale del bestiame che prese largo sviluppo nell'Ozierese e nell'Oschierese. Si ebbero in quel tempo anche le prime opere pubbliche e i primi tronchi ferroviari: l'esportazione del bestiame bovino verso la Francia ammontava a parecchie decine di milioni all'anno. G. A. Sanna, deputato, banchiere, giornalista, fondava nel 1871 in Oristano la Banca Agricola Sarda per dare incremento alla produzione e al commercio del bestiame e all'agricoltura. Questo periodo di intense iniziative economiche dà perfettamente ragione alle nostre premesse e dimostra incontestabilmente come agricoltura, commercio e industria debbano aiutarsi reciprocamente nell'isola, coordinarsi e procedere in modo adeguato e liberamente organico. L'incremento del bestiame doveva naturalmente determinare un incremento agricolo in quanto risolveva la pregiudiziale tecnica per un'agricoltura intensiva: il problema dei concimi. Il commercio del bestiame alla sua volta poteva poco a poco creare i capitali mobili necessari. E' significativo che contro il pensiero di tutti i declamatori e progettisti di terre incolte e di sistemi agrari scientifici, la nuova agricoltura e la nuova vita economica sarda accennasse appunto a sorgere intorno al nucleo iniziale e fondamentale di risorse offerte dalla pastorizia.





    Contemporaneo a questo esperimento di vitalità economica assistiamo all'affermarsi d'iniziative per la coscienza politica dell'isola: la ispirazione comune di questi sforzi é il repubblicanismo mazziniano, anzi più specialmente il programma sociale e operaio del pensatore genovese.

    Purtroppo la rottura del trattato di commercio con la Francia interrompeva l'esportazione del bestiame e dei vini a Marsiglia e poco dopo la fillossera distruggeva quasi completamente le vigne sarde. A queste sventure si aggiunsero gravissimi disastro bancari connessi con la crisi del credito nella penisola. Nel 1886 si dovette chiudere la cassa di Risparmio di Cagliari, nel 1887 fallì il Credito agricolo-industriale sardo e la stessa Banca Agricola Sarda non riusciva a salvarsi dall'ondata generale e doveva pochi anni dopo ridursi alla liquidazione.

    Nel periodo di depressione economica che seguì gli allevatori perfezionarono le loro tecniche e cercarono di sostituire a Marsiglia i nuovi mercati di Genova e di Palermo; i viticultori si diedero a ricostruire le vigne con ceppi americani. Si ebbero anche alcuni tentativi di industria.

    Una rivoluzione economica fu effetto dell'emigrazione di romani e napoletani in Sardegna allo scopo di sfruttare il basso prezzo del latte per accrescere la produzione casearia industrializzata della penisola. Si vennero così rinnovando i metodi di fabbricazione del formaggio, si migliorò l'allevamento delle pecore e si ebbe una rivalutazione dei prezzi del pascolo, del latte e dei prodotti derivanti. E' un'industria che si è sostituita alla manifattura domestica provocando gravi ripercussioni nell'economia generale, coll'estendere la pastorizia a spese dell'agricoltura e col rincarire i latticini che formavano col pane il principale alimento dei contadini. Così l'industria moderna cominciava in Sardegna con le tragiche sommosse del 1906 cui tenne dietro un incremento dell'emigrazione transoceanica e un sensibile peggioramento delle condizioni demografiche del paese.





    Ma passata la crisi l'ambiente commerciale sardo riprende nuovo vigore. I caseifici danno la fisionomia generale all'economia dell'isola e riescono a conquistare i mercati americani determinando così un afflusso di denaro in Sardegna.

    Vedremo la nuova psicologia sarda sorgere intorno a questa moderna trasformazione dell'antica pastorizia. E' per ragioni sopratutto psicologiche che noi guardiamo con maggior fiducia a queste iniziative orientate in un senso tradizionale invece che alle risorse minerarie che appartengono forse all'avvenire, ma in cui per ora non si riesce a vedere limiti precisi. Il costume politico promosso nell'Iglesiente per l'ambiente minerario corrisponde a un generico propagandismo socialista messianico.

    Le condizioni politiche pregiudiziali per il progredire dell'agricoltura vanamente sperato attraverso i secoli sembrano oggi consolidarsi. Oggi si può parlare di far sorgere la civiltà nei monti perché non possa più incombere sulla pianura un perpetuo nemico della cultura e del risparmio. Da un lato la piccola proprietà, l'esistenza di famiglie che coltivano i loro ulivi e le loro viti si oppone allo spirito di vagabondaggio e di rapina.

    Il bestiame raccolto nelle stalle feconderà la terra oltre a costituire di per sé una ricchezza di prim'ordine.

    L'intensità della lotta contro la malaria e il miglioramento del credito agrario saranno per l'avvenire la misura dei progressi che l'economia sarda saprà per i suoi liberi sforzi realizzare. La laboriosa lotta politica degli anni scorsi, e il movimento di studi promosso intorno al Partito Sardo d'Azione, pur attraverso tutte le intemperanze, ci sono garanzia che nell'isola questi termini del problema stanno per esseri compresi.