LA TRAGEDIA DELL'EUROPA

    Il giorno 10 gennaio 1920 fu per me di grande tristezza: dovetti sottoscrivere a Parigi la ratifica del trattato di Versailles. Ricordo ancora la scena al Quai d'Orsay, nel salone dell'Orologio: durò appena tre minuti. Vi fu un primo atto nel gabinetto dei ministro degli esteri, dove ci trovammo Clemenceau, Lloyd George, Matsui, rappresentante del Giappone, ed io. Gli Stati Uniti d'America non erano rappresentati. Poi vennero introdotti dal direttore del protocollo William Martin, i due rappresentanti della Germania, Von Lersner e von Simons. Dopo un breve scambio di saluti, Clemenceau dichiarò che il testo del protocollo era conforme a quello mandato loro il 2 novembre e li invitò a firmare. Quando ebbero firmato, Clemenceau andò loro incontro per dare la simbolica stretta di mano. Tutto ciò durò appena tre minuti.

    Entrammo poi nella sala dell'Orologio, dove vi era un gran pubblico di uomini politici e di rappresentanti stranieri, di giornalisti, di curiosi. Erano le ore 16 e cinque minuti. Clemenceau aveva alla sua destra i rappresentanti francesi, poi ero io e dopo di me Hymans, rappresentante del Belgio, Venizelos, presidente del Consiglio di Grecia, Pasic rappresentante dello stato serbo croato sloveno. Alla sua sinistra erano Lloyd George con Bonar Law e Lord Curzon, rappresentanti della Gran Bretagna, e Matsui, ambasciatore del Giappone a Parigi. Vi erano poi molti rappresentanti di stati minori.

    Dopo che Clemenceau ebbe invitato i rappresentanti tedeschi a firmare, ciò che essi fecero lentamente in composta tristezza, firmò da prima Lloyd George, poi Clemenceau, poi io, dopo Matsui e infine tutti gli altri, Clemenceau si levò e disse:

    "Il protocollo di ratifica del trattato concluso tra le potenze dell'Intesa e la Germania è sottoscritto. Da questo momento il trattato entra in vigore, e deve essere eseguito in tutte le sue clausole. La seduta è tolta".





    Uscii dalla sala con Lloyd George e Curzon e fuori era una grande gioia e le grida dei venditori dei giornali partecipavano al pubblico il lieto evento. Il trattato, aveva detto Clemenceau, doveva essere eseguito in tutte le sue clausole. E come poteva essere eseguito se era ineseguibile?

    Tutta la gioia della strada era in contrasto con il mio sentimento: io cercavo la pace e non udivo intorno a me che propositi di violenza. Erano i tempi della illusione, quando il pubblico credeva, in base alle parole dei suoi governi, che la Germania avrebbe accettata la servitù e insieme fornito tutti i mezzi per pagare le spese della guerra e arricchire i vincitori.

    Quando assunsi la direzione del governo italiano, in giugno del 1919, il mio primo atto avrebbe dovuto essere la firma del trattato di Versailles, il 26 giugno. Io conoscevo a fondo quell'abominevole trattato per averlo lungamente meditato e lo consideravo come la rovina dell'Europa: non avevo avuto nessuna parte nella sua preparazione, né alcuna responsabilità. Pregai quindi l'on. Sonnino e i suoi collaboratori di firmarlo. La sorte voleva che toccasse proprio a me di firmare la ratifica di un atto che credevo rovinoso così per i vincitori come per i vinti, perché basato sulla violenza, sulla malafede, sullo spirito di rapina.

    Come ministro del Tesoro, dopo il disastro di Caporetto, nel ministero Orlando-Nitti-Sonnino che portò l'Italia alla vittoria, io avevo avuto il compito più duro. Dopo un rovescio militare così terribile, tutto in Italia era in pericolo. Trovai ai primi del novembre 1917 nelle casse del Tesoro solo un deficit di 242 milioni di lire e la necessità di rifare le artiglierie, le armi, le munizioni, di provveder a tutto ciò che occorreva a un grande esercito e di ridare la fiducia. In quei giorni io avevo l'anima piena di angoscia perché credevo che il mio primo figliuolo, volontario di guerra a diciassette anni, fosse morto: tutto il suo reggimento era stato distrutto, e seppi solo due mesi dopo, a Parigi, in casa di un ministro francese, che egli era ferito e prigioniero dei tedeschi, in Germania. Io lavorai con tutta la fede, trovai tutti i mezzi finanziari, rifeci tutta la produzione di guerra: era in me un ardore mistico perché credevo non solo di lottare per la mia patria, ma per la civiltà.





    Ero stato sempre un fiero avversario del militarismo tedesco e di ogni forma di imperialismo e di nazionalismo basata sulla violenza militare: quando coloro che nel mio prese esaltano ora il militarismo francese, esaltavano Guglielmo II e l'imperialismo tedesco, io manifestavo apertamente la mia avversione ed ero sinceramente amico della Francia democratica.

    Avevo creduto anche io a una guerra di popoli contro il militarismo tedesco e avevo subito aderito alla guerra dell'Italia, nella fede di una giustizia più umana e di una più umana convivenza di popoli.

    Ma, subito dopo la vittoria, mi accorsi che anche in Italia si manifestava una ubbriacatura, che era la più pericolosa per la pace e che ci parlava un linguaggio che non era più quello che avevano parlato per spiegare la nostra partecipazione alla guerra. Io pensavo che tutte le forze dovessero essere dirette a fare una vera e onesta pace e le manifestazioni che avvenivano sopra tutto in Francia e che erano seguite in Inghilterra e in Italia, mi offendevano profondamente. Avevamo dunque lottato contro le guerre per fare nuove guerre, avevamo detto di voler distruggere il militarismo per creare nuovi e più virulenti militarismi? avevamo detto di far la guerra in difesa della democrazia e della libertà, per uccidere la democrazia e la libertà, anche dove avevano salde radici? A metà di gennaio del 1919 io uscii dal governo. Era avvenuta in me una profonda crisi di coscienza e una grande inquietudine era entrata nel mio spirito.

    Altri uomini politici, che avevano preparato il trattato e che erano caduti nel vasto inganno ebbero dopo di me la stessa crisi spirituale.

    Lansing, segretario di Stato durante il governo di Wilson, tornato in America, dichiarava anch'egli la sua delusione e la sua tristezza, dopo aver firmato l'iniquo trattato, che minaccia l'esistenza della civiltà, che ha soffocato in tanti paesi la libertà di azioni, di pensiero, di parola, di iniziativa economica, e ha distrutto, come nessuna guerra, un numero enorme di felicità, abbassando tutta l'umanità.





    Questa guerra, scriveva Lansing, è stata combattuta dagli Stati Uniti di America principalmente per distruggere le condizioni che l'avevano provocata. Queste condizioni non sono state distrutte. Esse sono state sostituite da altre condizioni egualmente feconde di odio, di gelosia, di sospetto. I vincitori di questa guerra intendono imporre i loro desideri combinati ai vinti e subordinare tutti gli interessi al proprio interesse. È vero che per far piacere alla pubblica opinione dell'umanità insorta e soddisfare l'idealismo dei moralisti, essi hanno circondato la loro alleanza, con la Società delle Nazioni; ma si chiami come si vuole, si mascheri come si vuole, essa è l'alleanza dei vincitori. La Società delle nazioni, costituita com'è ora, sarà la preda di ogni avidità e di ogni intrigo; essa è chiamata a dichiarare giusto ciò che è ingiusto. Abbiamo un trattato di pace, ma non porterà pace permanente, perché è fondato sulle sabbie mobili dell'interesse di ciascuno. In questi giudizi, aggiungeva Lansing, io non fui solo. Qualche giorno dopo che furono scritti, io mi trovavo a Londra, dove discutevo del trattato con alcuni principali uomini britannici. Io notai le loro opinioni in questa forma: Il costrutto è che il trattato era illogico e inapplicabile, che era concepito nell'intrigo e formato nella cupidigia ed era più adatto a provocare che a prevenire guerre. Uno dei leaders del pensiero politico della Gran Brettagna disse che il solo scopo evidente della Società delle nazioni era quello di perpetuare la serie degli ingiusti provvedimenti che erano stati imposti.

    Questo non è solo il pensiero di Lansing, cioè dell'uomo che, come Segretario di Stato, ha dichiarato la guerra in nome dell'America, e ha sottoscritto il trattato; questo è il pensiero di quasi tutti gli uomini che hanno sottoscritto il trattato di Versailles, e fuori della Francia e qualcuno dei suoi stati vassalli, non ho trovato quasi alcuno che non abbia vergogna e rimorso di averlo firmato. E' stato il più grande delitto dei popoli moderni e si è caduti in esso, come nella guerra, quasi senza avvedersene, a furia di errori, di concessioni, di richieste, di stanchezza.





    Uno dei principali firmatari mi diceva: - E' stata la nostra colpa, sarà la nostra espiazione.

    È stata la nostra colpa, ma io non vedo ancora la espiazione.

    Dopo aver firmata la ratifica del trattato di pace o meglio del trattato di guerra di Versailles, la gioia di Parigi e le grida dei venditori di giornali mi davano una profonda tristezza. Mai una pace seria e durevole si è basata sulla spoliazione, sul tormento e sulla rovina dei popoli vinti, sopra tutto di grandi popoli. La pace di Versailles non è che la spoliazione, il tormento, la rovina. Di quale spaventosa tragedia di Atridi si inizia la rappresentazione? Si seguirà per lunga serie di anni? Quali rivoluzioni e quali guerre si seguiranno? Quando una pace è veramente logica non suscita l'entusiasmo delle folle, suscita anzi malumore, o avversione, o sdegno e quasi sempre delusione.

    Io ricordavo due altre guerre e due altre paci del principio del secolo ventesimo e vedevo in quale precipizio l'umanità era caduta per seguire lo spirito di rapina e il programma di violenza.

    La guerra con i boeri era stata per la Gran Brettagna un grande sforzo: aveva dovuto combattere in suolo inospite, a distanze enormi, con mezzi costosi, aveva avuto vittorie e disfatte; aveva subito crudeltà e aveva commesso crudeltà. La pace fu sottoscritta il 21 maggio 1902. Io mi trovavo a Londra in quei giorni e ricordo che la principale preoccupazione degli uomini politici britannici era di trovare il modo di rendersi amici i vinti. Difatti nessuna ingiustizia fu usata: il generale vittorioso volle rendere pubblico omaggio al generale vinto. Da quella pace venne l'Union of Soutk Africa, che, dove erano piccoli stati discordi, fece sorgere un grande Stato, che costituì un magnifico dominion, in cui non solo non rimase odio per gli inglesi, ma che nella guerra europea diede le sue risorse e mandò i suoi uomini a combattere a fianco degli inglesi. Vidi in occasione della pace anglo boera molti uomini fra i più autorevoli della Gran Brettagna, ma in nessuno di essi trovai altro desiderio che quello di stabilire una vera pace e condizioni di amicizia con i vinti.





    Mentre la guerra anglo boera preoccupava ancora l'Europa, scoppiava la più formidabile guerra fra la Russia e il Giappone, la più grande che sia stata combattuta da popoli moderni prima della tragica estate del 1914. La Russia contro l'aspettativa generale era pienamente sconfitta. In quel tempo il Giappone era invaso da una vera frenesia nazionalista: vittorioso contro la Cina, vittorioso contro la Russia, avendo sconfitto i due imperi più grandi della terra, era entrato in una fase di orgoglio che accecava tutti. Era la frenesia delle conquiste, la smania di grandi concessioni territoriali, di enormi indennità. Il governo del Giappone comprese che solo una pace moderata e onesta, con pochi acquisti territoriali, senza indennità, poteva essere non solo la gioia presente, ma la sicurezza avvenire. Il trattato di Portsmouth è un esempio di grandezza e di moderazione: il popolo giapponese non ebbe nessuna delle cose cui aspirava violentemente. I giorni 5 e 6 settembre 1905, quando giunsero a Tokio e si diffusero le notizie delle clausole del trattato, in tutto il Giappone, ma sopra tutto nella capitale, accaddero scene terribili. Il popolo si credette tradito e, dopo un movimento di stupore e di costernazione, si abbandonò alla più folle violenza. Il popolo voleva ad ogni costo massacrare i ministri, che avevano voluto un trattato che non soddisfaceva alcuno. Ma i ministri avevano compiuto, non chiedendo indennità, non valendo larghi acquisti territoriali, atto di grande saggezza e provveduto all'avvenire del Giappone. Essi sapevano bene che una pace giusta evitava nuove guerre; che i debiti di guerra avrebbero determinato la saggezza, che gli imbarazzi finanziari erano la salvaguardia contro le nuove follie. Un eminente scrittore francese, che potette assistere a tutte le rivolte giapponesi del settembre 1905, conchiudeva esprimendo la sua ammirazione per quegli uomini politici che, sacrificando la propria popolarità e mettendo in pericolo la propria esistenza, avevano voluto che la industria della guerra avesse avuto una delusione. Le più illustri personalità giapponesi esprimevano subito dopo l'opinione che se il Giappone avesse potuto ottenere dalla Russia ciò che il popolo giapponese voleva, sarebbe stato preso da una crisi di orgoglio che lo avrebbe reso insopportabile a tutti i popoli della terra e la indennità sarebbe stata spesa interamente in nuovi armamenti terrestri e marittimi. Quando anche il Giappone non avesse avuto più nemici, tutte le volte che la sua situazione glielo avesse permesso avrebbe fatto la guerra. Quale guerra? Una guerra qualsiasi, non importa quale.





    Ora la Francia ha voluto fare il contrario del Giappone e ha preparato una pace che è la guerra, dei trattati di pace, che, come ha detto Clemenceau, sono un modo di continuare la guerra. Quale guerra, se i nemici di ieri sono inermi e in rovina? Forse domani una guerra qualsiasi, non importa quale.

    Ad accrescere la mia tristezza nel gennaio 1920 contribuirono anche le sedute della conferenza: si volevano tutte cose che io non volevo. Vennero anche due richieste che mi offesero particolarmente. La prima era la richiesta all'Olanda di consegnare l'imperatore Guglielmo li per poterlo processare; la seconda era la richiesta alla Germania di consegnare molte migliaia di ufficiali tedeschi, imputati di atti di crudeltà. Vidi io stesso quelle liste, che erano state man mano ridotte. Mi opposi con grande vigore ad entrambe le richieste, che quantunque consentite dal trattato, erano assurde e immorali; le combattetti con ogni energia. Come si poteva processare l'imperatore Guglielmo II se noi che eravamo i nemici dovevamo essere i giudici e se il trattato aveva dichiarata la responsabilità di tutto il popolo tedesco e gli aveva imposto le pene più dure? Come si poteva chiedere al popolo tedesco di consegnare migliaia di ufficiali per farli processare da noi? E come potevamo noi giudicarli? Non avevamo noi stessi durante la guerra commesso atti di crudeltà? Ottenni così che non si facesse alcuna ingiusta pressione all'Olanda, ma solo una richiesta che si sapeva senza risultato e che i processi agli ufficiali tedeschi fossero fatti nella stessa Germania e da giudici tedeschi, a Lipsia.

    Si era pensato di mandare l'imperatore Guglielmo II nella piccola isola di Curaçao, in clima disastroso e si discuteva di questa deportazione in tutta serietà. Era una inutile malvagità e io volli evitarla.

    L'errore partorisce l'errore e la colpa partorisce la violenza: dopo di allora si è sempre andati di male in peggio. Militaristi, uomini di stato ambiziosi, giornalisti alla ricerca della sensation, banchieri alla ricerca di affari, profiteurs de guerre sempre desiderosi di larghi guadagni, hanno in tutta Europa diminuito ovunque il senso della responsabilità e il livello della morale pubblica.





    Giulio Cesare, che è stato uno dei più grandi capitani dell'umanità, ma anche un profondo e sincero democratico, come si direbbe ora per dileggio un socialdemocratico, era nel suo sentimento il vero continuatore dei Gracchi; dopo aver vinto i galli ed i germani osservava nei commentari, con profonda saggezza e modestia, che la fortuna può molto in ogni nostra vicenda e sopra tutto in guerra: Multum cum in omnibus rebus tum in re militari potest fortuna. La Francia ha vinto la guerra, aiutata dalla fortuna, per il concorso di tutti i popoli liberi, ma non ha saputo fare alcuna rinuncia e solo ha acuito la violenza: ha imposto ai tedeschi umiliazioni e tormenti che i tedeschi vittoriosi mai le imposero. Che cosa sarebbe accaduto nel 1825 e nel 1870 se i tedeschi avessero fatto contro i francesi ciò che i francesi han fatto dopo il 1919 contro i tedeschi? Giulio Cesare che conosceva a fondo l'indole dei popoli dice che l'animo dei galli come è ardito e pronto nell'intraprendere la guerra, così è debole e punto resistente a sopportarne i rovesci. Num ut ad bella suscipienda Gallorum alacer ac promptus est animus, sic mollis ac minime resistens ad calamitates perferentas mens eorum est. Supponiamo che i tedeschi vittoriosi del 1870 avessero preteso occupare indefinitamente i territori francesi fino a Lyon, che avessero tolto alla Francia la sua flotta mercantile, le sue colonie, i suoi crediti all'estero, le sue miniere, le sue migliori ricchezze, che dopo averla disarmata per terra e per mare, avessero mandato truppe di negri a Marsiglia e a Bordeaux, che avessero invaso periodicamente nuovi tratti di territorio e creato un'agitazione per dividere la Francia in tre o quattro Stati, che avessero preteso fare un corridoio come quello di Danzig dal territorio tedesco fino a Marsiglia e che Marsiglia, che non è più francese di quel che Danzig sia tedesca, fosse stata messa sotto una complice Società delle Nazioni, come ora Danzig, che cosa sarebbe avvenuto? Supponiamo anche che la Francia avesse visto i cittadini francesi giudicati, in tempo di pace, da tribunali militari tedeschi e le donne di Francia costrette a soddisfare non solo la libidine dei tedeschi ma quella dei selvaggi e che la Francia avesse dovuto far lavorare tutti i cittadini per pagare indennità impossibili, che cosa avrebbe detto e che cosa avrebbe fatto il popolo francese? Io non so che cosa avrebbe fatto, né come avrebbe sopportata la violenza; ma so che i tedeschi non si sono mai macchiati delle colpe dei loro vincitori.





    Si può mutare i fatti come si vuole, si può presentarli come si vuole anche diversamente dalla realtà, ma la verità ha un misterioso e quasi divino potere di espansione, e prima o dopo tutto il mondo, economicamente diminuito, moralmente offeso, dovrà avere la sua grande reazione, e di tutto sarà chiamato responsabile l'imperialismo francese.

    Io sono stato (e voglio sempre ricordarlo) un sincero amico della Francia e prima della guerra un tenace avversario dell'imperialismo tedesco: il mio disagio spirituale è ora nel fatto che la situazione si è ora rovesciata. Ma anche ora io credo di amare più sinceramente la Francia che non coloro che la secondano nella violenza e la spingono nell'errore. Io appartengo ancora a quella schiera di uomini di Stato che credono alla necessità di un accordo sincero fra la Francia e la Germania e a un'intesa leale fra i due popoli, su una base di perfetta uguaglianza e di collaborazione. Possono Francia e Germania fondare la loro esistenza solo sulla distruzione e sullo sterminio? Non è possibile che i due paesi s'integrino in un grande accordo?

    Ogni violenza non sarà dimenticata, ogni delitto non sarà obliato, la Germania non morirà. La Germania, a traverso una serie di cataclismi e di crisi interne, e di atti di disgregazione, si ricomporrà più numerosa, più forte, più unita. Dovrà mettere come scopo della sua esistenza nazionale vendicare tutte le atroci ingiustizie subite? E che cosa sarà dell'Europa se un secolo di attività umana sarà impiegato a preparare future vendette?

    Non combattere le richieste della Francia attuale significa secondarla nell'errore e preparare la sua rovina: solo una tenace opposizione dei popoli liberi preparerà la rinascita della Francia democratica e forse la unione futura dei francesi e dei tedeschi.

    Uno scrittore francese mi chiese: - Non credete che un accordo fra Francia e Germania sia un pericolo per l'Italia?





    Io gli ricordai l'ode di Victor Hugo alla Germania, al grande paese il cui respiro è la musica, che ha eroi più alti che la cima del Monte Athos, le cui azioni sono gloriose dovunque. E gli dissi che Victor Hugo, anche dopo la sconfitta della Francia del 1870, aveva nel Parlamento di Bordeaux salutato l'unione dei due popoli come la salvezza della civiltà europea. L'Italia non può che attendere ogni beneficio da questa unione e ogni sicurezza.

    Ora tutti negano i diritti della vita e noi li affermiamo; tutti insultano la democrazia e noi l'amiamo; tutti vilipendono la libertà e noi diciamo che essa è lo scopo della vita e il mezzo di ogni grandezza; tutti in Europa proclamano la violenza e noi la detestiamo e ci rivolgiamo ai popoli liberi, agli americani sopra tutto, per chiedere che siano con noi nel nostro sentimento e nella nostra fede. Ho voluto rilegger Victor Hugo, dopo ogni discorso di Poincarè e ho avuto la stessa sensazione che si ha uscendo da una sala mortuaria in una campagna piena di sole. Non dubitiamo, non esitiamo, perché noi siamo le forze della vita.

    Ne doutons pas. Croyons. Emplissons l'étendue. De notre confiance, humble, ailée, éperdue.

    Soyons l'immense oui.

    Avrei anche dovuto aggiungere con Victor Hugo: Que notre cécité ne soit pas un obstacle. Ma avrei creduto di mancare di riguardo a Poincarè, ciò che veramente non è nelle mie intenzioni.

    Acquafredda in Basilicata, 18 Ottobre 1923.

FRANCESCO NITTI.